L’Artsakh minacciato di genocidio culturale (Dopiozzero 11.12.20)
Il 9 novembre, a seguito di una guerra di quarantatré giorni, l’Armenia e l’Azerbaigian hanno concluso, sotto l’egida della Russia, un accordo di cessate il fuoco che detta condizioni capestro alla parte armena. Dopo aver perso diverse migliaia di vittime militari e civili, la repubblica autoproclamata dell’Artsakh (Nagornyj Karabakh) ha dovuto rinunciare all’ottanta percento del suo territorio. Ben oltre cinquantamila persone sono costrette oggi ad abbandonare i loro paesi, chiese e monasteri. Con questo esilio forzato, essi non solo temono di non poter rivedere mai più le proprie case e i propri santuari, ma addirittura di condannarli alla distruzione e allo scempio.
Quale sarà il destino del patrimonio plurimillenario armeno sotto il controllo dell’Azerbaigian?
Mentre l’Azerbaigian si prepara a occupare un territorio punteggiato da migliaia di monumenti medievali e tardo-antichi armeni, i dirigenti azerbaigiani, sostenuti dalla comunità academica del proprio paese, difendono pubblicamente due tesi revisioniste che mirano a negare agli armeni autoctoni il diritto di vivere sulle loro terre ancestrali, nonché a cancellarvi ogni segno visibile della memoria storica armena. La prima tesi poggia sull’idea che il popolo azerbaigiano turcofono e sciita discenda direttamente dall’antico regno dell’Albania del Caucaso, mentre la seconda sostiene che l’insieme dei monumenti cristiani situati sul territorio della Repubblica autoproclamata dell’Artsakh, non diversamente da quelli situati nel territorio dell’Azerbaigian, siano monumenti albanesi.
Se osserviamo la mappa del Caucaso del sud – il territorio che si stende a sud della catena del Grande Caucaso tra il mar Nero e il mar Caspio – notiamo un netto confine geografico che divide l’ultima propaggine orientale del Piccolo Caucaso, la quale scende ripidamente verso il fiume Kur, e le pianure che si estendono a est fino alla costa caspiana. L’antica regione armena di Artsakh (l’estremità orientale dell’Armenia storica) occupa proprio quei monti che sovrastano la valle del Kur, l’antica frontiera con l’Albania del Caucaso. Il territorio di questo antico regno cristiano – da non confondere con l’Albania nei Balcani – coincideva in gran parte con quello dell’attuale Azerbaigian, in particolare con le pianure della riva sinistra del fiume Kur, estendendosi fino al litorale del Daghestan meridionale. La popolazione di questo regno aveva origini eterogenee e fino all’alto Medioevo parlava diverse lingue caucasiche del Nordest e iraniane.
La storia dell’Armenia e dell’Albania del Caucaso furono strettamente legate a partire dalla cristianizzazione dei due regni avvenuta all’inizio del quarto secolo. Secondo Koriùn (442-48) e altre fonti armene, all’inizio del quinto secolo il dotto Mashtòts (362-440) inventò non soltanto un alfabeto armeno, ma anche uno albanese per la lingua dominante di questo regno, una lingua di origine caucasica nordorientale. Le lettere albanesi e il loro valore fonetico ci erano già conosciuti da un manoscritto armeno del 1442, mentre la scoperta nel 1996 di palinsesti con testi albanesi offrì un’inattesa conferma al racconto dello storico armeno. Il deciframento dei palinsesti ha permesso, inoltre, ai filologi di leggere sette iscrizioni albanesi, estremamente frammentarie, rinvenute precedentemente sul territorio dell’Azerbaigian (vedere lo studio di Jost Gippert qui). I legami durevoli tra l’Armenia e l’Albania del Caucaso possono anche essere osservati nei resti delle più antiche chiese albanesi che dimostrano profonde affinità con l’architettura ecclesiastica armena.
Contrariamente all’Armenia montagnosa, caratterizzata da un terreno accidentato, l’Albania del Caucaso, geograficamente facilmente accessibile e percorribile, fu largamente islamizzata dagli arabi già prima della fine dell’VIII secolo. Di conseguenza, la lingua albanese gradualmente svanì, mentre l’armeno diveniva la lingua dominante di tutte le popolazioni cristiane che rimanevano ancora sull’antico territorio dell’Albania, fossero esse di origine armena, albanese o altre, caucasiche o iraniane. Con la dominazione islamica sul mondo delle pianure che si stendono a oriente del Piccolo Caucaso, le inaccessibili gole dell’Artsakh divennero rifugio per cristiani di varie origini.
Quando, verso la fine del decimo secolo, tribù turcomanne e turche cominciarono a penetrare nel Caucaso del sud, esse non vi incontrarono, secondo ogni verosimiglianza, abitanti che scrivessero ancora l’albanese. Gli scambi tra i turchi e gli armeni furono, invece, intensi, come testimoniano i prestiti armeni relativi alla religione, a diverse attività professionali e alla famiglia in azerbaigiano e in turco, per esempio torǝn → torun (nipote), orinak → örnek (esempio), xač → haç (croce). Fu in ambienti urbani armeni che i turchi appresero anche le tecniche di costruzione.
Per tutto il Medioevo, e addirittura fino a tempi recenti, l’armeno è stato una lingua di scambi economici e culturali attraverso diverse frontiere politiche e religiose, interessando un’area estesa. Ancora oggi a Tbilisi, in Georgia, si possono incontrare georgiani, cristiani siriaci ed ebrei che hanno una perfetta padronanza dell’armeno, mentre nella regione di Urmia (Orumiyeh), in Iran, vivono curdi e cristiani siriaci che conoscono questa lingua. L’armeno è conosciuto dai cristiani siriaci anche di altre regioni del Vicino Oriente, come per esempio Aleppo e la Siria.
Una guerriglia storiografica
La teoria secondo la quale l’Azerbaigian rappresenterebbe l’erede diretto dell’Albania del Caucaso fu elaborata in epoca sovietica, nel suo peculiare contesto sociale e culturale. Mentre alle nazioni che componevano l’Unione sovietica era proibito dare una dimensione politica alle loro identità, queste nazioni potevano, sotto certe condizioni, esplorare e coltivare il loro passato, e in particolare l’archeologia, l’architettura, la linguistica e il folclore. Talvolta i popoli sovietici venivano addirittura sollecitati a scoprire le antiche civiltà sul territorio delle loro Repubbliche. Un lungo «processo storico» doveva dimostrare, per ciascuna nazione, l’inesorabile susseguirsi di fasi di sviluppo politico, un percorso in ogni caso coronato dalla rivoluzione socialista e dalla costruzione del comunismo sotto la guida del popolo russo.
Il passato di ciascuna di esse, nondimeno, doveva essere ben distinto: vi erano, quindi, un’archeologia armena, una georgiana, una azerbaigiana, una turkmena e così via. La collaborazione tra Repubbliche vicine non era incoraggiata, perché il ruolo di mediatore e l’egemonia culturale erano prerogativa della Russia e del popolo russo. Per questo motivo, con la dissoluzione del regime sovietico e con la perdita di controllo da parte di Mosca sull’insieme del territorio sovietico nella seconda metà degli anni Ottanta, le Repubbliche si trovarono sprovviste di istituzioni e di pratiche di mediazione e di dialogo, che avrebbero consentito una collaborazione per il superamento di dissidi culturali e politici con i loro vicini.
Durante il periodo trascorso sin dalla formazione dell’Unione sovietica all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, le Repubbliche sovietiche avevano sviluppato tradizioni storiografiche idiosincratiche. Mentre l’Armenia e la Georgia rivaleggiavano tra loro, confrontando racconti concorrenti che risalivano all’inizio del primo millennio prima della nostra era, il loro vicino Azerbaigian, che era un’entità politica recente e portava addirittura un nome che prima del 1917 aveva designato soltanto il territorio a sud del fiume Arasse (cioè, oltre i confini sovietici), si sforzò di elaborare, mimeticamente, una storiografia autoctona che identificava come suo antenato diretto l’Albania del Caucaso. Questa teoria fu sviluppata nelle numerose pubblicazioni di Ziya Buniyatov (1923-1997), riconosciuto come padre della storiografia azerbaigiana, e, più recentemente, di Farida Mamedova. Questa teoria dotava gli azerbaigiani di un’identità autoctona antica, seppure cristiana. Diversi storici russi e occidentali hanno dimostrato a più riprese che Buniyatov falsificava sistematicamente le sue citazioni e le sue traduzioni.
Chi può rimproverare a un popolo di volere vedere riconosciuta come propria la storia della terra in cui vive, e dunque anche delle sue civiltà antiche? In una certa misura, non ereditiamo tutti il remoto passato del paese in cui abitiamo, qualunque esso sia? La fonte della nostra preoccupazione per il Caucaso del sud è altrove, e cioè nel fatto che l’Azerbaigian non abbia mai voluto riconoscere che, rivendicando un passato albanese, adotta, implicitamente, un passato armeno. Non soltanto le antiche chiese costruite sul territorio dell’Azerbaigian portavano una volta delle iscrizioni e dei simboli armeni (molti di essi furono documentati prima che venissero distrutti), ma anche la storia dell’Albania cristiana ci è conosciuta quasi esclusivamente da fonti scritte armene, e in particolare dalla Storia dell’Albania del Caucaso composta in armeno alla fine del X secolo da Movsês Kałankatuatsì. I riferimenti che questo autore fa alle vicissitudini dell’Albania e dell’Armenia, come anche la geografia mentale che riusciamo a scorgere nella sua opera, non ci lasciano alcun dubbio sul fatto che egli fosse un armeno.
Ammettere che il vicino cristiano e armeno fosse stato il canale di trasmissione dell’eredità lasciata sul territorio dell’Azerbaigian da una civiltà scomparsa, quella dell’Albania del Caucaso, non è mai stato accettabile per il governo o per il mondo accademico dell’Azerbaigian. Di conseguenza, il testo armeno della Storia dell’Albania – l’unico che possediamo – è stato dichiarato dagli azerbaigiani non attendibile perché corrotto dagli armeni, che sono anche stati accusati di averne distrutto l’originale (come emerge nel testo di Buniyatov, Azerbaigian dal secolo settimo al secolo nono, Baku, 1965, scritto in russo). Non è questa la sede per approfondire il tema, ma sono chiare le radici etnico-religiose del mimetismo storiografico a cui abbiamo accennato, del disprezzo per gli armeni da parte degli azerbaigiani e dell’accusa di «corrompere» i libri rivolta ai cristiani.
Le conclusioni a cui ci conducono queste brevi osservazioni sono ovvie: una chiesa armena senza iscrizioni armene, senza croci e senza iconografia (scolpita o murale) distintamente armena, e addirittura senza decorazioni rassomiglianti alle stele in pietra armene (i khachkar, croci in pietra accompagnate da elaborati disegni decorativi) conforterebbe la mitologia azerbaigiana relativa alla storia della regione: un’Albania del Caucaso senza legami con l’Armenia. Una civiltà cristiana morta è, quindi, preferibile a una cristianità vivente. Quando il presidente Ilham Aliyev e altri dirigenti azerbaigiani dichiarano oggi la loro intenzione di «conservare i monumenti storici cristiani» sui territori conquistati, essi progettano in realtà un vasto programma di genocidio culturale. Per non attirare l’attenzione della comunità internazionale, questo programma rischia di essere messo in atto a tappe, coinvolgendo inizialmente chiese e cimiteri medievali meno noti. Monumenti che raccontano la storia di un mondo che si espandeva una volta dalla catena del Grande Caucaso fino al Mediterraneo corrono quindi il pericolo di essere annientati.
Per decenni, lettere albanesi sono state cercate invano in Azerbaigian nelle iscrizioni armene scolpite sulle chiese e sulle stele. Tali monumenti sono situati sia negli antichi siti albanesi (sulla riva sinistra del Kur), sia negli antichi siti armeni (sulla sua riva destra). Ormai da anni, non appena l’identità armena di una iscrizione è accertata, essa viene immediatamente cancellata. In questo modo, durante gli ultimi tre decenni, sul territorio dell’Azerbaigian sono scomparse innumerevoli iscrizioni e croci scolpite (come documenta Argam Ayvazian, The Historical Monuments of Nakhichevan, Wayne State University Press 1990).
Mentre gli armeni oggi abbandonano le loro chiese ed esumano i loro morti, per paura che loro tombe siano profanate come avvenne una quindicina d’anni a Baku, dove le pietre tombali del cimitero armeno furono usate per la costruzione di un’autostrada, possiamo leggere in diversi media azerbaigiani le promesse fatte da personalità pubbliche di questo paese riguardo ai monumenti armeni dell’Artsakh: non appena essi se ne impadroniranno, «verificheranno», finalmente, la loro autenticità! Pochi dubbi sussistono quanto alla natura, agli scopi e ai risultati di una tale «verifica», che ricorda quegli «studiosi del giudaismo» che, nella Germania nazista, pretendevano di salvare antichità ebraiche dalle mani di ebrei vivi. Tutto ciò che non corrisponde al mito ufficiale dell’Azerbaigian può essere dichiarato falso e, quindi, distrutto.
L’attaccamento degli armeni alla piccola regione dell’Artsakh – attribuita nel 1921 all’Azerbaigian da Stalin dietro pressioni della Turchia – difficilmente può essere considerato come la rivendicazione della «Grande Armenia» che i turchi e gli azerbaigiani spesso abusivamente imputano agli armeni. A differenza dall’Armenia occidentale, oggi in Turchia, dove quasi ogni traccia della millenaria presenza culturale degli armeni è stata cancellata nel corso del secolo scorso, l’Artsakh rimane l’ultima scheggia di un mondo dove il legame vivente tra gli abitanti e la terra, il suo paesaggio, la sua antica topografia, i suoi santuari ha resistito malgrado tutto. Un legame che leggiamo sui volti di decine di migliaia di persone che si separano oggi dalle chiese e dai monasteri dove loro e i loro antenati hanno pregato per secoli.
Spetta a tutto il mondo civile mobilitarsi per evitare queste perdite – legami insostituibili al nostro comune passato.
Il 4 di dicembre è stata consegnata alla Segreteria di Stato della Sante Sede una petizione firmata da oltre 160 accademici provenienti da ventitré paesi (studiosi dell’Armenia, della Georgia e del Caucaso, storici dell’arte e architetti) con l’appello urgente di difendere i monumenti armeni sul territorio del Nagornyj Karabakh da ogni manomissione.