L’Armenia verso l’Ue, senza tirare troppo la corda con Mosca. Un percorso da accompagnare (Haffington Post 15.10.24)
Nel centro di Erevan un’imponente costruzione ospita una fabbrica di cognac. Un tempo, al suo posto sorgeva una fortezza millenaria, ma nel Novecento i sovietici ne hanno cancellato ogni traccia nell’intento di “modernizzare” l’Armenia, considerando le vestigia del passato un ostacolo al progresso. “Come se prima dell’Urss, noi armeni avessimo vissuto sugli alberi”, commentano con amarezza nella capitale.
Il destino della piccola Armenia, orgogliosa della sua storia e della sua specificità culturale e religiosa nel Caucaso, si intreccia da tempo con la presenza ingombrante della Russia, dall’epoca zarista a oggi, e la miscela è evidente. Negli anni del comunismo, Erevan era sinonimo di allineamento fedele alle direttive di Mosca e gli armeni erano sovrarappresentati rispetto alle altre repubbliche sovietiche nei gangli del potere centrale, anche se la morsa era stretta. Ne soffrì, tra gli altri, la Chiesa ortodossa, a lungo interdetta e perseguitata. Poi, dissolta l’Urss, Mosca si pone come garante del fragile equilibrio con l’Azerbaigian, sempre più a favore di Baku, attraverso i ripetuti scontri per l’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh culminati con l’esodo forzato a settembre 2023 dei suoi centoventimila abitanti armeni, terrorizzati dal dispiegamento di truppe azere. È un punto di svolta nei rapporti tra Erevan e Mosca. Il contingente militare russo di interposizione volta le spalle agli armeni minacciati dal vicino nemico, il garante prende di fatto le parti degli azeri e il risentimento armeno contro la Russia si diffonde.
Anche per questo, il primo ministro Nikol Pashinyan, confermato alla guida del governo nonostante la sconfitta subìta dagli azeri nel 2020, guarda a una collaborazione con l’Europa, pur procedendo con cautela per evitare contraccolpi dal lato russo. Da Mosca non sono mancati avvertimenti e minacce per scoraggiare un riposizionamento dell’Armenia in senso filo-occidentale e a Erevan sono consapevoli del rischio di tirare troppo la corda. D’altra parte, un graduale avvicinamento all’Ue è in atto, come dimostrano le due missioni di Pashinyan a Strasburgo e Bruxelles a distanza di pochi mesi (ottobre 2023, aprile 2024) e le aperture europee. Anche se poco graditi a Mosca, c’è da dire che quei passi non hanno provocato reazioni russe particolarmente dure: dopo una manifestazione ufficiale di contrarietà, è sembrato prevalere un certo pragmatismo, forse perché in questa fase l’attenzione della Russia è assorbita dalla guerra contro l’Ucraina.
Per gli armeni, la parola d’ordine è la moderazione, avanti con giudizio. Il profilo resta basso, ma la direzione di marcia verso l’Ue è univoca, in linea con l’orientamento maggioritario dell’opinione pubblica e della diaspora armena in Europa e Usa. Qualcosa si muove, senza strappi. Sul piano interno, ora a spingere il governo interviene un cartello di forze filo-europee, con la raccolta di firme per iscrivere i rapporti con l’Ue all’ordine del giorno del Parlamento armeno e per un possibile referendum. L’iniziativa popolare, non osteggiata da Pashinyan, vanta già un risultato preliminare incoraggiante per i promotori.
Resta da definire il conflitto asimmetrico con l’Azerbaigian: l’Armenia, priva di risorse naturali e di accesso al mare, ha confini chiusi con Turchia e Azerbaigian e conta meno di tre milioni di abitanti; l’Azerbaigian ha gas e petrolio, si affaccia sul Caspio, con dieci milioni di abitanti e un tasso di crescita notevole. Il negoziato per il trattato di pace è a buon punto, ma deve ancora sciogliere due nodi, una disposizione costituzionale armena e il collegamento dell’Azerbaigian con l’exclave del Nakhicheyan attraverso il corridoio di Zangezur. Non sono difficoltà insormontabili. L’Europa, e l’Italia coi i suoi buoni uffici, sono impegnate a ridurre la distanza tra le parti per suggellare la pace e una stabilizzazione della regione.
Se è scontata la sensibilità della Russia per la propaggine meridionale dell’ex-Urss, insieme all’importanza dell’assetto della confinante Georgia e del mercato energetico azero, la politica di Mosca del divide et impera con finalità di controllo mostra i suoi limiti. Negli ultimi giorni, a sorpresa, con una mossa apparentemente distensiva, Vladimir Putin si è detto pronto a ritirare il suo presidio militare dall’Armenia. In prospettiva, il Caucaso potrebbe trasformarsi, da terreno di contrasto di influenze tra Russia, Turchia e Iran, in un’area di integrazione e tolleranza. Per l’Armenia, che ha sospeso la sua partecipazione alla Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO), nata venti anni fa per forte volontà di Mosca, l’aggancio europeo rappresenta una garanzia di sicurezza e sviluppo e dimostra – specie a chi lo contesta e lo contrasta – che il progetto comunitario è studiato anche lontano dalla vecchia Europa con attenzione e speranza. E da parte nostra, sarebbe un errore ignorarlo.