L’Armenia si prepara al voto (Osservatorio Balcani e Caucaso 19.11.18)
I colpi di scena non sono certo mancati nella vita politica della Repubblica di Armenia dalla fine dell’URSS: la guerra per il Karabakh, la sparatoria in parlamento nel 1999, l’ascesa alla presidenza di Serzh Sargsyan nel 2008 bagnata di sangue. Il 2018 si incastona in questa periodizzazione di eventi che hanno scandito la storia del paese ma con un primato positivo: tutti i processi politici dell’anno sono stati pacifici. Un primo bilancio che permette di ripercorrere i principali momenti dell’anno politico armeno che volge al termine – ma che certo non s’è ancora esaurito – con un blando ottimismo.
Un anno convulso ma pacifico
Nel marzo 2018 le elezioni presidenziali hanno portato all’elezione alla massima carica dello stato di Armen Sarkissian, innescando i processi che hanno poi portato alla cosiddetta Rivoluzione di Velluto. Presidente uscente è stato infatti Serzh Sargsyan (non poteva più ricandidarsi) che a quel punto ha cercato di portare a termine il suo avvicinamento verso la carica di primo ministro, strategia avviata già tre anni fa con l’organizzazione di un referendum che ha trasformato l’Armenia in una Repubblica parlamentare, con il potere politico passato dallo scranno presidenziale a quello del primo ministro.
Il cambio di poltrona si è però rivelato impraticabile per il veterano della politica armena. L’ex presidente, per pochi giorni primo ministro, è stato obbligato alle dimissioni sotto la pressione delle manifestazioni di piazza capeggiate da Nikol Pashinyan che il 1 maggio è divenuto il nuovo primo ministro. Un premierato rimesso il 6 ottobre scorso, quando Pashinyan ha dato le dimissioni innescando una crisi di governo e l’ormai prossimo scioglimento del Parlamento.
Come e perché della crisi
La necessità di rinnovare il Parlamento – o Assemblea Nazionale, come è denominata in Armenia – era stata percepita nell’immediato del dopo Rivoluzione di Velluto. Il motivo è intuibile: Pashinyan si è trovato a capo di un governo di minoranza, in un parlamento largamente dominato dal partito del delegittimato e spodestato Sargsyan. I numeri del parlamento come uscito dalle elezioni del 2017 vedevano il Partito Repubblicano di Sargsyan con 58 seggi su 105, l’Alleanza Tsarukyan con 31, lo Yelk (Via d’Uscita) di Pashinyan con 9 seggi e la Federazione Rivoluzionaria Armena con 7. Come governare con questi numeri, considerando che lo stesso Yelk si era diviso nel periodo della rivoluzione, per poi ricompattarsi solo a fronte del successo largamente personale di Pahinyan? Si è aperta quindi una fase politica di concitate negoziazioni, in cui le quattro forze politiche presenti in parlamento hanno dovuto ridisegnare le proprie strategie davanti a un elettorato mobilitato, critico e più attento, emerso da un’apatia e un disincantato scetticismo che avevano accompagnato il ristagno politico degli ultimi anni.
Una stampella allo Yelk del nuovo primo ministro è arrivata dall’Alleanza Tsarukyan e dalla Federazione Rivoluzionaria Armena. Per i due partiti, ambedue in passato alleati di Sargsyan e del Partito Repubblicano, pur con fasi alterne, la situazione creatasi ha rappresentato una grande chance per scrollarsi di dosso l’etichetta di un passato politico scomunicato dalle piazze e per accedere al governo dell’Armenia post-rivoluzionaria. Vice versa per lo Yelk i due partiti hanno portato i seggi necessari per provare a portare avanti la propria piattaforma politica con il parlamento che c’era, senza screditarsi provando a cooptare parlamentari Partito Repubblicano.
Un’alleanza di governo però fatta di cristallo che si è infranta il 3 ottobre scorso quando Pashinyan ha sollevato dal governo 6 ministri su 17, tutti esponenti dei due partiti-stampella, come effetto di una dura battaglia verso quei ministri che intendevano approvare modifiche ai regolamenti parlamentari che avrebbero ritardato le elezioni. Per Pashinyan era invece importante arrivare a breve allo scioglimento del parlamento perché le elezioni parlamentari anticipate erano una delle condizioni della Rivoluzione di Velluto. Sono seguite le già citate dimissioni del primo ministro, la mancata sua rielezione in due sedute del parlamento e quindi il prossimo scioglimento del parlamento ed elezioni, che probabilmente si terranno il prossimo 9 dicembre.
Una crisi politica quindi condotta in prima persona da Pashinyan, una prova di forza con l’ambizione di ridisegnare un parlamento che sia più rappresentativo della cosiddetta Rivoluzione di Velluto.
Tutti i partiti sapevano che questo momento sarebbe arrivato, ma vi era chi le preferiva prima e chi dopo. Per Pashinyan questo è un buon momento: il fermento rivoluzionario non si è esaurito, il primo ministro è ancora molto popolare e il governo non ha avuto né il tempo né la capacità, essendo di minoranza, di fare nulla che ne intaccasse il seguito e la credibilità. Il movimento di primavera, e le sue probabili estese alleanze a movimenti attualmente extra parlamentari, si sente tra l’altro rinfrancato da un recente successo elettorale, la cui scia potrebbe lambire le elezioni di dicembre: a settembre ci sono state infatti le amministrative del comune della capitale, e l’Alleanza il Mio Passo – che raduna il partito di Pashinyan ed esponenti della società civile a lui vicini – ha ottenuto l’81% dei voti. Con questa sigla, che richiama la marcia rivoluzionaria di primavera, Pashinyan correrà anche alle parlamentari di dicembre.
Il Partito Repubblicano, sprofondato nel voto di settembre, ha già visto in seno dell’attuale parlamento le prime defezioni (i suoi seggi attuali sono 50). Avrebbe voluto portare avanti la legislatura almeno fino all’estate 2019, in modo da avere il tempo per riorganizzarsi dopo il terremoto politico degli ultimi mesi. Non ce l’ha fatta, ma chiude la legislatura con quella che forse è una vittoria di Pirro: ha impedito che venisse cambiata la legge elettorale.
Come si vota?
La legge elettorale con cui si andrà al voto è ancora quella fatta dal governo a guida dei Repubblicani. Sono previste due liste, una chiusa e una con preferenze da indicare. Pashinyan, avrebbe voluto cambiare la legge elettorale abbassando lo sbarramento attualmente del 5% per i partiti e del 7% per le coalizioni, alzando le quote rosa al 30% – attualmente del 25% – e rimuovendo la lista a preferenze che è una misura introdotta dai Repubblicani. Questi ultimi infatti enumerano tra le proprie fila pesi massimi del mondo politico ed economico e permettendo l’espressione delle preferenze in alcune circoscrizioni possono mettere in campo persone in grado di fare man bassa di voti. Rimuovere la loro visibilità ne avrebbe ridotto il peso.
La legge non è passata per l’ostruzionismo dei Repubblicani. Gli elettori decideranno se è stata o meno una vittoria di Pirro.