L’Armenia e il gioco (sporco) dell’Occidente (Spondasud 15.05.24)
(BRUNO SCAPINI) – Spiace dirlo, ma l’Armenia, attirata dai flebili luccichii di uno specchietto per le allodole, rischia seriamente questa volta di cadere nella trappola occidentale.
Indotta a guardare all’Europa e alla NATO come a due mete ineludibili per la propria sicurezza e benessere economico, Yerevan sta ora lentamente, ma progressivamente, adottando una linea di scostamento da quelle direttrici che avevano fino a pochi anni orsono costituito le costanti invariabili della sua azione estera fin dall’indipendenza.
La politica del c.d. “doppio binario”, seguita tradizionalmente dalla sua dirigenza, e che aveva garantito al Paese – nel contemperamento delle proprie prospettive sia ad Est che ad Ovest – una più che apprezzabile crescita economica e visibilità internazionale, è venuta purtroppo ad infrangersi contro il bivio di una scelta di campo imposta da una spregiudicata strategia occidentale volta ad accerchiare la Russia attraverso il graduale, ma incessante, allargamento ad Est della NATO.
Una mossa che ha riportato drasticamente l’orologio indietro nel tempo riproponendo una “guerra fredda” all’Europa che quest’ultima rischia ora di combattere solo con le proprie forze qualora gli Stati Uniti si dovessero riservare, come sembra, di utilizzare la NATO per finalità più attinenti ai propri interessi nazionali.
È esattamente in questo quadro che il ruolo dell’Armenia andrebbe oggi collocato e valutato. Non bastando più l’Ucraina per tenere a bada Mosca, l’Occidente sta facendo scivolare l’asse dello scontro con la Russia verso il Caucaso Meridionale con l’intento di destabilizzare nell’area proprio quel Paese che, presentando le maggiori criticità, per via di una guerra perduta con l’Azerbaijan nel Nagorno Karabagh, appare più suscettibile di recepire le ingannevoli profferte di Washington e di Bruxelles.
Che gli Stati Uniti intendano verosimilmente approfittare delle incertezze dell’attuale corso politico in Armenia per aprire un ulteriore fronte in funzione anti-russa non sembrerebbe del resto un’ipotesi fantapolitica, ma più realisticamente l’esito di un cinico calcolo strategico. Vari segnali lo rivelerebbero.
È da osservare, infatti, al riguardo che mai come in questi ultimi tempi i Paesi occidentali stanno mostrando un così intenso interesse verso l’Armenia. Paese tradizionalmente ancorato alla sfera di influenza moscovita, cui risulta legato in virtù della partecipazione alla Unione Economica Euro-asiatica e alla CSTO quale alleanza di difesa, solo sporadicamente era stato in passato oggetto di attenzioni da parte occidentale. Ma tutto è cambiato con la “rivoluzione di velluto” del 2018. Da allora, con il nuovo Governo impostosi con l’intento di contenere l’influenza delle tradizionali oligarchie economiche, si è attuata una inversione di tendenza. Il nuovo Primo Ministro, nella persona di Nikol Pashinyan, insediatosi col favore delle piazze, ottiene una chiara legittimazione da parte di Washington e di Bruxelles. Lo testimonierebbero del resto le più intense frequentazioni intessute da Yerevan con i Paesi occidentali e la NATO che hanno trovato proprio nella sconfitta subita nel 2020 dall’Armenia nella guerra contro l’Azerbaijan, e in quella del 2023 con lo strappo finale sul Karabagh di Baku, il terreno più fertile per sostituirsi a Mosca quali principali referenti per un riassetto politico della regione.
Né d’altra parte Yerevan farebbe mistero del proprio orientamento indirizzato verso una accentuata politica di sganciamento da Mosca. Le mosse, infatti, intraprese da Yerevan fin dall’affermarsi dell’attuale Governo se, da un lato, hanno incoraggiato per molti versi l’avvicinamento al Paese degli Stati Uniti e dell’Europa, dall’altro, hanno però indispettito Mosca inducendola non solo a guardare oggi all’Armenia con deciso sospetto, ma anche a valutare il suo corso politico di allontanamento come una manifestazione di sostanziale e aperta ostilità. Una circostanza che avrebbe portato Mosca a dosare con certa attenzione il proprio appoggio all’Armenia nelle sue due ultime guerre nella plausibile previsione che una sua sconfitta avrebbe potuto condurre ad una caduta del Governo senza tuttavia causare al Paese una totale disfatta. Se, infatti, l’intervento della Russia nella mediazione ha certamente contribuito a contenere le ambiziose velleità territoriali di Baku ( basti vedere i termini del compromesso raggiunto nel novembre del 2020 a fronte delle pretese azere sul corridoio di Zangezur), la prospettiva di un cambiamento di Governo a Yerevan sarebbe stata smentita proprio dall’irrigidimento assunto dal Governo armeno nel reprimere ogni forma di dissenso insorto all’interno del Paese in esito alla sconfitta militare.
A tali antefatti andrebbe, dunque, ricondotta oggi la fondamentale ambiguità della politica estera armena: da un lato il Premier strizza l’occhio a Washington e alla NATO, dall’altro dichiara di aver congelato la partecipazione di Yerevan all’alleanza militare della CSTO nella pretesa che Mosca faccia chiarezza sugli effettivi termini del suo impegno in favore dell’Armenia. In realtà il rapporto con Mosca è già compromesso. E chiari segnali lo indicherebbero come: le esercitazioni militari condotte sul suolo armeno con unità statunitensi (mossa senza precedenti nella Storia dell’Armenia indipendente intrapresa a dispetto della presenza di una base militare russa a Gyumri), i tentativi di concludere accordi di cooperazione sia con Ankara che con Baku – peraltro storici nemici dell’Armenia – dietro concessioni territoriali non più limitate al Karabagh, ma estese addirittura al territorio sovrano del Paese ( vedasi la pretesa azera sulla regione di Tavush), la recente inusuale visita in Armenia del Segretario Generale della NATO, Stoltenberg, l’aiuto militare annunciato dalla Francia e dal Regno Unito, la preannunciata visita a Yerevan di Zelensky poi annullata e la recente dichiarazione del Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen che avrebbe confermato essere l’Armenia un “partner vitale nella politica di vicinato dell’Unione”.
In questo quadro, già di per sé assai critico e labile, l’ambiguità della situazione in cui l’Armenia è venuta a trovarsi verrebbe ulteriormente confermata proprio dal recente incontro avvenuto a Bruxelles il 5 aprile scorso tra il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, il Segretario di Stato, Antony Blinken, i vertici dell’UE, Ursula von der Leyen e Josef Borrell, e il Direttore dell’USAID, Samantha Power. Scopo dichiarato dei colloqui sarebbe stato, infatti, quello di assicurare l’Armenia sul sostegno occidentale alla sua sovranità, democrazia, integrità territoriale, nonché alle condizioni socio-economiche del Paese.
Ebbene, se sul piano strategico le prospettive lanciate dall’incontro risultano facilmente intuibili, atteso l’obiettivo di sostenere Yerevan nella sua politica di allontanamento da Mosca – ed è significativo a tal fine non solo il congelamento dichiarato da parte armena della partecipazione alla CSTO quale alleanza militare con la Russia, ma anche il più recente annuncio di Yerevan di voler spegnere le trasmissioni televisive russe nel Paese – è sul piano dei benefici che la scelta euro-atlantista presenterebbe delle innegabili perplessità per l’Armenia. Ma vediamo più analiticamente la questione.
La ricerca di un nuovo assetto territoriale nell’area che soddisfi le aspettative strategiche occidentali, non potrebbe realizzarsi senza compiacere le pretese della Turchia e dell’Azerbaijan non solo quali attori imprescindibili delle dinamiche regionali, ma anche come protagonisti attivi della cooperazione euro-atlantista. Il ché non potrebbe mancare di incidere negativamente sulla capacità di Yerevan di salvaguardare la propria integrità territoriale col rischio di un sacrificio perfino delle stesse sue cause storiche nazionali: il riconoscimento del Genocidio e la reintegrazione nella sovranità nazionale delle terre di insediamento storico armeno come il Nagorno Karabagh. Confermerebbe del resto, e chiaramente, tale debole impegno dell’Occidente proprio la dichiarazione rilasciata da parte americana nell’incontro tenutosi a Berlino questo fine febbraio secondo la quale gli Stati Uniti non potranno intervenire nella conciliazione tra Yerevan e Baku con un “ruolo di garanti della sicurezza dell’Armenia”. Una affermazione, questa, che vuole ampiamente alludere alla priorità che Washington riserverebbe al riconoscimento degli interessi dell’Azerbaijan ritenuti prevalenti.
Ma anche sul piano economico la svolta pro-West di Yerevan implicherebbe pesanti conseguenze. L’abbandono da parte dell’Armenia dello spazio euro-asiatico priverebbe l’export del Paese di una quota di almeno il 40% che è quella parte di mercato rappresentata dalla Russia. Non solo, ma ben il 70% delle rimesse dall’estero dei lavoratori armeni proverrebbe dalla Russia; il che trasformerebbe in un disastro epocale una eventuale politica di ritorsione che Mosca attuerebbe in caso la tensione tra i due Paesi dovesse acutizzarsi fino a raggiungere un punto di rottura. Eppure, le offerte occidentali sembrerebbero comunque seducenti per il Premier armeno; e ciò nonostante sia sufficientemente chiaro oggi come l’insistente attivismo occidentale verso questo Paese induca a immaginare quale possa essere il vero interesse degli Stati Uniti: sostenere la causa di Yerevan nel sottrarsi alla dipendenza da Mosca per poi sostituirvisi nel controllo del Paese e dell’intera area caucasica. Sempre sul piano economico, infine, è pure da precisare come l’aiuto da ultimo offerto a Yerevan da Washington e da Bruxelles non solo risulti ridicolo per entità, se rapportato a quello dato agli altri Paesi dell’area (appena 290 milioni di dollari da spalmarsi su 4 anni), ma anche offensivo in realtà per via della sua inidoneità ad assicurarsi la fedeltà di un Paese confrontato oggi da una scelta strategica particolarmente sofferta.
Peccato a questo punto che l’ambiguità dell’atteggiamento americano non venga colta dall’attuale Governo armeno, il quale si ostina invece ad osteggiare sempre più Mosca alienandosi il sostegno storico della Russia, unico Paese in fondo in grado di garantirne la integrità territoriale. All’Occidente, infatti, poco importa del riconoscimento del Genocidio armeno o della reintegrazione del Nagorno Karabagh nel perimetro del Paese. Quello che conta per Washington e la NATO è alla fin fine assicurarsi al minimo costo l’acquisizione di una ulteriore pedina nello scacchiere caucasico da utilizzarsi all’uopo in funzione anti-russa. E in questa prospettiva, le cause storiche nazionali armene potranno pur essere sacrificate se l’obiettivo è infliggere il maggior danno possibile alla Russia. Del resto cos’altro potrà mai offrire l’Armenia – priva di petrolio e di gas – in cambio della “protezione” occidentale se non il sacrificio dei propri interessi nazionali per consentire alla NATO di metter piede sul suo suolo?
Un certo parallelismo, a ben osservare, emergerebbe dal corso politico seguito in questo ultimo decennio dall’Ucraina e dall’Armenia. I due Paesi, infatti, candidati inizialmente entrambi a un Accordo di Associazione con l’Unione Europea, sarebbero stati sollecitati, in tempi diversi, da forze esterne ad un cambiamento di leadership in grado di reindirizzarli verso una deriva euro-atlantista. Deriva ovviamente malvista dalla Russia in quanto capace di pregiudicarne, come intuibile, la sicurezza dei confini. E non sarebbe quindi un caso che in entrambi i Paesi sia andata progressivamente affermandosi una crescente presenza statunitense, premessa per Kiev a un sostegno oggi in una guerra aperta contro la Russia, e prodromo per Yerevan domani di una crisi regionale foriera di pessimi presagi. Nessuna sorpresa dunque. È sempre la stessa strategia del Pentagono che verrebbe applicata all’Armenia divenuta ora terreno ideale per condurre un altro affondo ai danni del Cremlino. Riusciranno tuttavia gli Stati Uniti a conseguire questo obiettivo? Dipenderà molto dalla forza di contenimento che Mosca saprà e vorrà applicare al caso, ma soprattutto dalla voglia di Washington di impegnarsi in uno scontro diretto, volto questa volta a scacciare fisicamente i russi dalla loro base militare nel Paese.