L’antisemitismo c’è, il comunismo è finito: parla lo storico Marcello Flores D’Arcais (Gazzetta del Mezzogiorno 28.01.23)
l comunismo? Estinto. Il fascismo? Rivive nei nostalgici. L’antisemitismo? Mai terminato.
Lo spiega in questa intervista un grande studioso come Marcello Flores D’Arcais, storico e saggista nato a Padova, docente all’Università di Siena e direttore del Master europeo in «Human Rights and Genocide Studies», nonché autore di una serie di libri editi da Il Mulino, Laterza, Feltrinelli, Il Saggiatore, sulla questione armena, sul comunismo e sulla Resistenza. Flores sarà domani a Bari alle 11 ad inaugurare il primo dei «Dialoghi delle Donne in Corriera», terza edizione, in programma al Teatro Abeliano (via Kolbe, 3) fino a metà marzo, ogni domenica mattina ore 11 (con l’eccezione di sabato 2 marzo alle 20).
Quest’anno i Dialoghi si articolano in due sezioni tematiche, «Che fine ha fatto la fine della storia? Crisi della rappresentanza e tramonto degli ordini mondiali» e «Stati di natura», con la presenza di tanti autorevoli nomi degli studi storici, ideati e condotti da Pino Donghi e dalla presidente di «Donne in corriera» Gabriella Caruso. L’iniziativa ha il patrocinio di Regione Puglia, Città Metropolitana e Comune di Bari, Ciheam Bari, #barisocialbook. La «Gazzetta» è media partner (info@ledonneincorriera.it ). I prossimi due incontri si terranno il 12 febbraio con Gaetano Quagliariello, che parlerà della «Crisi della rappresentanza» e Gabriella Caruso; il 2 marzo alle 20, con Vittorio Emanuele Parsi, su «La forma dell’Europa», introduce Rosanna Quagliariello.
Professor Flores, che fine ha fatto il comunismo e in quali Paesi del mondo a suo avviso resiste ancora in qualche forma?
«Il comunismo è un’esperienza storica che, pur avendo dominato nel corso del XX secolo, si è completamente conclusa e non appartiene più alla storia di questo secolo. I recenti elogi del capitalismo del Segretario del Partito comunista cinese Xi Jinping sono stati, da questo punto di vista, una autorevolissima conferma. Il regime totalitario e autocratico della Corea del Nord ha ormai soltanto nelle apparenze simboliche e celebrative un richiamo all’esperienza comunista, mentre essa si è del tutto sbiadita anche a Cuba ed è sparita nel Vietnam. Del comunismo, quindi, si può e si dovrebbe parlare come di un’esperienza storica conclusa, un’esperienza non solo contraddittoria ma anche costituita da realtà ed eventi molto diversi e non tutti accomunabili a un’unica visione o a un’omogenea esperienza di governo (dove è stato al potere) o di opposizione (dove non vi è mai arrivato). Quanto al permanere di un’ideologia comunista, o della speranza e volontà di poter far rivivere il movimento comunista, mi pare che esistano oggi soltanto in minuscoli gruppetti minoritari e nostalgici che mi sembra abbiano perso del tutto contatto con la realtà. Non è un caso che oggi l’unico movimento collettivo transnazionale sia quello legato all’ambiente e alla difesa dal disastro ecologico, o alle battaglie per i diritti delle donne, della lotta al razzismo e così via».
La storia del comunismo: quale l’errore più grave?
«Per uno storico, che cerca di comprendere quanto avvenuto in passato e di spiegarne le ragioni, le dinamiche, il ruolo dei singoli eventi e dei personaggi individuali e collettivi che ne sono protagonisti, parlare di “errore” è un po’ un controsenso, anche perché si tratterebbe, comunque, di esaminare il perché di comportamenti che hanno condotto a esiti disastrosi che si possono anche definire, in modo schematico, errori. Nel caso del comunismo credo che il momento cruciale sia stato, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il rifiuto da parte di Lenin e dei bolscevichi di creare un governo unitario di tutte le forze socialiste (con i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e forse anche gli anarchici) e di voler mantenere, invece, il monopolio della forza e del governo per i bolscevichi soltanto, da cui sono nate le scelte che hanno poi portato alla dittatura del partito unico, al predominio della polizia politica, al clima di terrore verso ogni opposizione o voce anche minimamente critica. Quanto questo fosse legato alla concezione marxista in generale o alla sua interpretazione fattane da Lenin e dai bolscevichi è ovviamente oggetto di discussione storica. Anche se il fallimento di una ipotesi di società opposta e contraria al capitalismo non può essere lasciato fuori dalla riflessione storica sugli esiti storici del comunismo».
In questi giorni di manifestazioni per la Giornata della Memoria e guardando ai tanti studi che lei ha portato avanti nell’ambito della questione armena, proviamo a ricostruire i motivi di quel genocidio e delle discriminazioni attuali mai estinte?
«La discriminazione, in forme sempre nuove e diverse, è una costante della storia. Nei confronti degli ebrei ha una storia addirittura millenaria, che si è modificata nel tempo e che si è accelerata, radicalizzata e concretizzata nella volontà della distruzione totale degli ebrei da parte di Hitler e del nazismo. Malgrado la terribile esperienza storica della Shoah, l’antisemitismo non è purtroppo terminato, e ci sono anzi segni di una sua recrudescenza proprio negli ultimi anni, di cui ci si dovrebbe preoccupare seriamente. Per quanto riguarda il genocidio degli armeni esso avvenne come risultato di una volontà di riorganizzazione demografica-etnica-religiosa dell’Anatolia da parte del governo ottomano, che utilizzò il contesto della prima guerra mondiale per portare a termine l’uccisione, la deportazione e la cacciata degli armeni dal territorio che poi divenne, dopo la sconfitta e altre vicende, la Repubblica turca. Si trattava di una scelta politica di tipo identitario, fatta in nome della identità e superiorità turca, di un nazionalismo estremo che ha preso il sopravvento dopo la rivoluzione dei «giovani turchi» e di un’ideologia contraria alla convivenza e ai diritti delle minoranze. Il contesto violento della guerra spinse a utilizzare l’estrema violenza delle uccisioni dirette, delle marce della morte, della morte nei campi di prigionia per risolvere quella che da diversi decenni era nota come la “questione armena”, cioè la presenza di una forte e attiva minoranza nel cuore della società ottomana. Se si esclude il governo turco e l’opinione pubblica che ne segue le orme, e quello dell’Azerbaigian che ha un contenzioso territoriale con l’Armenia per la regione del Nagorno-Karabagh, non sembra esistere un antiarmenismo diffuso, che rimane circoscritto così soltanto ai territori dove ebbe luogo il tragico genocidio del 1915-16».
Chi è per lei l’ultimo fascista? E l’ultimo comunista?
«Potrei rispondere a questa domanda dicendo che l’ultimo fascista è colui (o coloro) che vive con nostalgia il regime mussoliniano e lo considera un momento grande e positivo della storia italiana, pur se si dichiara nell’oggi favorevole alla democrazia o almeno ad alcuni suoi aspetti; e che l’ultimo comunista è colui (o coloro) che ritiene ancora che il comunismo possa essere l’alternativa possibile e vincente al capitalismo per costruire una società ovviamente più giusta ed ugualitaria di quella in cui viviamo. In questo senso bisogna riconoscere che non c’è “l’ultimo fascista” o “l’ultimo comunista”, ma ce ne sono molti, sparsi in gran parte del mondo anche se ridotti a piccole minoranze, e che ovviamente non vanno accomunati se non per lo sguardo antistorico e nostalgico che hanno. I primi, infatti, vorrebbero rinverdire la “grandezza” del regime di Mussolini senza dover rinunciare a parte dei vantaggi delle democrazie in cui vivono, ma poter emarginare quelli che ritengono i nemici della propria «sovranità», mentre i secondi si aggrappano alla speranza palingenetica di una società giusta per rimuovere l’esperienza storica del comunismo e mantenere viva l’ideologia che ne fu una componente separando arbitrariamente i due momenti».