LANDSHAFT di Daniel Kötter Germania, Armenia, 2023 (Gariwo 22.06.24)
l cinema tedesco – come quello italiano d’altronde, in modo ancor più marcato – non vive la sua stagione migliore. Non mancano però capolavori capaci di coniugare, nella migliore tradizione tedesca, radicalità estetica e rigore morale. È il caso di Landshaft di Daniel Kötter, autore capace di muoversi con sicurezza fra diversi media, dalla videoarte al teatro sperimentale – si segnala a tal proposito la collaborazione con Rimini Protokoll, una delle realtà più interessanti del panorama odierno –, un documentario che, con la sola eccezione del genio di Artavazd Peleshyan, tocca i vertici della rappresentazione per quel che riguarda l’Armenia.
Lo dirò subito: se siete in cerca di un effluvio di retorica patriottarda o religiosa, lasciate perdere. Qui siamo ad altri livelli: un film del tutto privo di retorica e, proprio per questo, capace di arrivare a un grado di realismo e a un’onestà del tutto straordinari, per chi conosce l’Armenia, e in particolare la vita di chi vive al confine di una guerra che si trascina da oltre trent’anni. Un film che non è piaciuto ad alcuni nazionalisti, come testimonia il dibattito nato a margine del festival del cinema armeno Golden Apricot, dove pure ha raccolto notevoli consensi.
In un viaggio che ci accompagna fino al villaggio frontaliero di Sotk e alla sua miniera d’oro in larga parte occupata dall’Azerbaijan dopo il 2020, Kötter si muove sui passi di Peleshyan e di Osip Mandel’štam, che nel suo splendido Viaggio in Armenia, tradotto in italiano da Serena Vitale, ci ha lasciato pagine indimenticabili per profondità e poesia. E non sarà un caso che, al pari di questo capolavoro, il film parta direttamente dalle acque stesse del lago Sevan, così ritratte dal poeta russo, che sembra guardare all’origine della vita:
Ogni giorno, alle cinque in punto, il lago pullulante di trote si metteva a bollire come se vi avessero versato una grossa presa di soda. Era una vera e propria seduta mesmerica di cambiamento del tempo, come se un medium comunicasse alla tranquilla acqua di calce dapprima una giocosa increspatura, quindi un inquieto fremito di ali di uccelli, e infine la tempestosa frenesia del Ladoga.
Come in tanti altri villaggi armeni dal Tavush al Syunik, oltre ovviamente al Karabakh prima dell’ultima guerra, definita pulizia etnica da due risoluzioni del Parlamento europeo, ci troviamo di fronte a una vita frontaliera segnata da cecchini e incursioni militari, droni che solcano un cielo perduto, murales di giovani soldati morti e un silenzio feroce interrotto di continuo da colpi di artiglieria. Ma anche di memorie: quelle positive delle amicizie con gli azeri in epoca sovietica, che mi è capitato più volte di raccogliere, e insieme quelle tragiche delle violenze terribili che in pochi mesi, durante la dissoluzione dell’Urss, le hanno cancellate.
Al centro di tutto, della vita di donne e uomini non meno che degli animali, un precario confine che attraversa e divide la miniera che dà il pane al villaggio, sempre più spopolato e impoverito; film curatissimo nella sua attenzione tanto al linguaggio che al paesaggio armeno, altro elemento non scontato che denota la comprensione raggiunta da Kötter della realtà che ritrae. Come ricorda lo studioso Igor Dorfmann-Lazarev, autore di studi seminariali, la spiritualità armena è più determinata da un legame con i suoi paesaggi, disseminati non a caso di croci di pietra e monasteri che si integrano perfettamente con il territorio, che da un’appartenenza ecclesiastica o identitaria che stenta ad affermarsi qui, a differenza di altri contesti post-socialisti.
Ma il film, e ne è consapevole il regista, ha anche un valore politico, che pur non viene mai forzato. Come scrive l’analista politico Thomas de Waal, “la guerra dell’Azerbaijan del 2020 ha infranto un modello di sicurezza europea in cui si presumeva che tutti i conflitti irrisolti in Europa dovessero essere risolti pacificamente. L’Azerbaijan ha riscritto il manuale delle regole, ha usato la forza e, per quanto lo riguarda, l’ha fatta franca”. Il risultato, ce l’abbiamo di fronte in Ucraina, e non solo. Nel 2023, il numero dei civili morti in conflitti armati è aumentato del 72% secondo dati forniti da Volker Türk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. Quanto – ad esempio nell’impiego di droni e nell’erodere il confine fra soldati e civili – la guerra del Karabakh anticipi l’Ucraina, è di tutta evidenza. Meno acclarato è il rischio, che è ora di iniziare a comprendere, che un simile scenario si trasformi in una prefigurazione dell’Europa che ci attende nei prossimi anni.
Premiato dalla critica tedesca come miglior documentario a Berlino, il film è stato proiettato anche in alcuni festival italiani, ricevendo anche qui riconoscimenti. Speriamo possa avere una circolazione ancor maggiore in futuro, perché senza dubbio lo merita. In un’epoca segnata da manipolazioni e identità sclerotizzate, il film di Kötter è un respiro dello spirito, un’immersione – quasi si dimentica ci sia una telecamera, nel film – in un angolo di mondo troppo spesso dimenticato e che, invece, ci riguarda più di quanto immaginiamo.