L’amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia» (Corriere della Sera 26.11.24)

«La musica è stata una delle mie ossessioni, in un certo senso lo è ancora. È come un calmante, quando suono amo la fisicità del gesto e il fatto di avere il controllo totale di quello che faccio. L’esito è immediato, quando il mio dito colpisce la corda, il suono è puro e diretto e per ottenerlo non devo spiegare niente a nessuno». Racconta una grande passione e allo stesso tempo, in una frase, Atom Egoyan riassume l’estrema fatica del dirigere, mentre mi mostra polpastrelli che ricordano anche la sua formazione di chitarrista classico. Le sue parole descrivono quello sforzo addizionale che occorre per far capire agli attori cos’ha nella mente e per cercare di vederlo concretizzarsi. 64 anni, il regista armeno naturalizzato canadese è stato da poco presidente di giuria della quinta edizione del Matera film Festival, dove ha ricordato Alberto Moravia e il debito che sente di avere con lui. «Quando avevo solo 28 anni e avevo girato il mio secondo film, Black ComedyMoravia mi ha menzionato in un articolo aprendo la strada alla regia dei miei successivi quattro film nel vostro Paese». L’autore di Il dolce domani (candidato all’Oscar per miglior regia e sceneggiatura), Exotica, Ararat e The captive-Scomparsa, si è affermato agli inizi degli anni Novanta ed è diventato un riferimento in tutto il mondo per cinema, teatro e opera lirica. A Matera ha presentato in anteprima nazionale Seven Veils, che racchiude tutti i suoi mondi. La protagonista Amanda Seyfried è una regista teatrale alle prese con l’allestimento di Salomé, dall’opera originale di Richard Strauss basata sul testo di Oscar Wilde. Rimontando l’opera per espresso desiderio del suo regista in un testamento, la donna si trova a rivivere un trauma familiare che credeva di aver sepolto nel passato. Durante una passeggiata esclusiva con 7 fra i Sassi di Matera, in una mattina fresca e soleggiata Egoyan si lascia andare a riflessioni su fede, sguardo maschile, padri e madri e sulla necessità di osservare le cose in un modo nuovo.

Cosa suscita in lei questo luogo?
«Tutto è iniziato con Pasolini e con La passione secondo Matteo. A impressionarmi fu questa ambientazione che sembrava autentica e biblica, sembrava di essere immersi in quel periodo storico. Quindi sono sempre stato curioso di sapere dove fossero state realizzate queste riprese. Non era in una terra biblica, era Matera, da lì il nome di questa città per me è sempre stato associato a un luogo molto mistico in cui il tempo era sospeso».

All’epoca di Pasolini la città non era ancora stata ristrutturata…
«Allora si aveva davvero la sensazione delle persone che vivevano ancora nei sassi, in montagna, e quindi era perfettamente adatto allo spirito del film in cui tutto era così insolito, dall’uso della musica blues alla scelta di Gesù alle bellissime riprese tra la folla. Piuttosto che essere su Gesù, la telecamera si muove come se fosse qualcuno che cerca di vedere, e in ogni momento c’è Matera sullo sfondo».
Mi mostra le foto di Pasolini sul set del film, scattate in questi giorni con il suo smartphone.
«Vede quanto era elegante, Pasolini? Le racconto una storia. Ho visto Time to Die e ho visto naturalmente anche The passion, di Mel Gibson, che ha prodotto uno dei miei film, Felicia’s Journey. È venuto anche a Cannes ed è stato tutto un po’ folle, ma l’ultima cosa di cui abbiamo parlato è stata Matera. Da bambino amavo Jesus Christ Superstar e la storia di Gesù, ma Pasolini in qualche modo ha colto con maggiore radicalità lo spirito della storia».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

Atom Egoyan mentre esamina alcune pitture rupestri sui Sassi di Matera
(Foto Gor Monton)

Cosa rende questo luogo così straordinario, secondo lei?
«Hanno lasciato le montagne circostanti completamente spoglie, in qualsiasi altro posto nel mondo avrebbero costruito edifici ovunque… Invece qui il luogo è spazialmente autentico».

Lei è un uomo di fede?
«Credo fermamente nella vita di Gesù, sento i suoi insegnamenti molto vicini. Ma non ho bisogno di credere a tutti i dettagli dei miracoli, non ho bisogno di prove. Piuttosto credo che veri miracoli siano nati dalla fede».

Cosa intende dire?
«Quando ascolto la musica di Bach, vedo un film come i Il Vangelo secondo Matteo o quando mi trovo in una chiesa o davanti a un’opera architettonica incredibile, faccio esperienza di Dio».

Quindi Dio è una specie di sensazione?
«Una sensazione che i grandi artisti possano trasmettere, rendere disponibile. E penso che il vero miracolo sia avere la visione e il talento per creare queste opere, questo è il miracolo da cui traggo ispirazione».

Con Seven Veils torna su Salomè che aveva già affrontato a teatro con molto successo in tutto il mondo.
«Stiamo parlando ancora della Bibbia, e questa è una delle prime storie di violenza sessuale in cui vediamo questa donna compiere un’azione straordinaria. È chiaro che sua madre Erodiade, moglie di Erode, le dice di chiedere la testa di Giovanni Battista perché lui l’ha insultata. Ma ciò che è affascinante è che nell’opera di Oscar Wilde è chiaro che non è a causa della madre che Salomè sta prendendo la sua decisione, una metafora molto interessante per il nostro periodo storico. Era il 1996 quando ho curato la prima produzione dell’opera, tra i miei film Exotica e Il dolce domani, ed è stata rimessa in scena diverse volte in tutto il mondo. Quando la Canadian Opera Company mi ha detto che l’avrebbero riproposta, ho pensato a come attualizzarla e a rendere l’idea di emancipazione».

Così ha scelto di mettere al centro una regista donna, interpretata da Amanda Seyfried.
«Ci ho pensato per 15 anni, da quando abbiamo lavorato insieme a ChloeFra seduzione e inganno. Ha a che fare con tanti uomini nella sua vita, che siano il fantasma del padre, quello dell’ex amante che ha diretto la produzione originale, l’attuale marito, l’amante che trova, Giovanni Battista, ma anche gli spiriti di Strauss e Oscar Wilde… Quindi naviga in un mare di influenze maschili, ma sta cercando di affermarsi».

La cosa che trovo speciale è il suo personale modo di navigare nello shock e nel trauma, nei suoi film lo fa sempre in modo deciso ma discreto.
«Quello è un fatto di carattere, io sono così. E quando sai di avere forse l’immagine più scioccante di tutte le opere, una donna che bacia e labbra di una testa grondante di sangue, puoi fare un passo indietro, prendere una certa distanza».

Il suo cinema indaga da sempre l’identità e i traumi familiari, da dove viene questo interesse?
«Da adolescente la prima ragazza di cui mi sono innamorato follemente veniva abusata dal padre. Sul momento non avevo capivo cosa stava succedendo, ma sentivo che il padre si sentiva minacciato da me, che ero un tipo piuttosto innocente. Era un pittore molto famoso in città, e la cosa sconvolgente è che l’ha ritratta in dipinti erotici, l’intera città l’ha vista ma nessuno ha detto niente a riguardo».

Egoyan

Egoyan mentre posa davanti a un emporio con prodotti tipici materani
​(Foto Gor Monton)

Dove è successo?
«A Vittoria, una piccola città molto conservatrice sulla costa occidentale del Canada. Io sono armeno ma nato in Egitto, quindi quando siamo arrivati lì eravamo una famiglia insolita. Anche i miei genitori sono pittori, quindi facevano parte di quella cerchia perché avevano uno studio in città. Insomma, sono cresciuto con questa idea di un ambiente artistico in cui ci sono anche abusi. E ricordo quando ho letto Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, anche quella è una storia di incesto e in realtà è tratta dalla vita di Pirandello stesso perché sua moglie pensava che lui avesse una relazione sessuale con la figlia. La questione è al centro della commedia che ha avuto anche una grande influenza su di me».

Che tipo di persone erano i suoi genitori?
«Erano in bilico fra due mondi, provenivano da una cultura patriarcale mediterranea ma il fatto stesso che quando sono arrivati in Canada non abbiano scelto di vivere a Montreal o a Toronto, dove c’era tutta la comunità armena, significa che volevano prendere le distanza. Mio padre ha fatto del suo meglio, ha provato davvero a essere diverso nei confronti di mia sorella, ma io sono sempre stato consapevole di essere il figlio maschio».

Sua sorella è una pianista.
«È una delle migliori pianiste moderne in Canada. È molto forte ma ha avuto una relazione complicata con mio padre, era un fatto culturalmente molto radicato».

Suo padre era famoso?
«Era un prodigio, fu il primo pittore egiziano a ottenere una borsa di studio completa presso il Chicago Art Institute. È andato in America con molte ambizioni ma non è riuscito ad affermarsi, in casa eravamo sempre consapevoli delle sue frustrazioni, in un certo senso il padre che ho mostrato in Seven Veiles è un mix delle frustrazione del mio e di quello della ragazza di cui mi sono innamorato da giovane».

Ha detto che il cinema ci fa riappropriare dei sentimenti, in che modo?
«Vediamo altri esseri umani sullo schermo, specialmente in primo piano, e crediamo che siano reali. Creare una sorta di distanza da quell’identificazione immediata scatena un’alchimia che è molto complessa e ricca perché ci rende introspettivi: osserviamo altri esseri umani essendo consapevoli di osservarli. Quando guardo Pasolini e la scena di cui parlavo prima, quando vediamo Gesù che fa il discorso sulla montagna, abbiamo la macchina da presa dietro la folla, che da la sensazione di cercarlo e anche se sappiamo che non sei lì, crea l’eccitazione trovarti davvero in quel luogo».

Se le chiedo cosa significa per lei la parola “guarigione”? « Per me è la cosa più vicina che sento spiritualmente quando ascolto un bel brano di musica o quando guardo un bel film o un dipinto… Forse la musica è la cosa più vicina, perché la musica in realtà mi dà più spazio. Quando suono non devo spiegare, convincere, trasferire niente a nessuno… In quella veste non devo combattere tutto il tempo per convincere gli altri, non lotto contro il tempo e con i problemi di produzione. Sono solo con il mio strumento, per me è una liberazione».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

Un momento della passeggiata di Egoyan a Matera

«Anche Gibson ha portato Gesù qui
Ma il Vangelo di Pier Paolo era più radicale»

Perché ha chiamato la sua compagnia Ego Arts?
«Era il nome della galleria di mio padre in Egitto, che firmava così i dipinti. Quando siamo arrivati in Canada abbiamo cambiato il nostro nome, Y-E-G-H-O-Y-A-N, che è impronunciabile, in Ego».

Con “ego” si indica qualcosa che si forma intorno a un centro, qualcosa di cristallizzato…
«Sono le cose che facciamo per civilizzare noi stessi. Non tagliamo teste e non baciamo le labbra perché siamo civilizzati, il padre Erode fa uccidere la figliastra, Salomè, perché è la prima a rompere tutti i codici morali. Fa cose estreme ma allo stesso tempo lei è frutto di un’interpretazione maschile, non sappiamo chi sia davvero. È tutto filtrato da occhi maschili, quelli di Strauss, di Oscar Wilde, di Flaubert o Gustave Moreau… Mi ci voleva un’attrice forte come la Seyfried per proporre qualcosa di diverso».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

II regista armeno naturalizzato canadese davanti a una casa materana

«Il nome Atom? Per i miei c’entra con l’arrivo dell’energia nucleare in Egitto, dove sono nato»

Da dove arriva il suo nome, Atom?
«È una bella domanda, tecnicamente i miei genitori dicono che è legato all’arrivo dell’energia nucleare in Egitto e che questa era il futuro, quindi hanno scelto quel nome. Ma allo stesso tempo un classico nome in antico armeno è “Adom”, dove la “d” nel dialetto orientale si pronuncia “ t”».

C’è qualcosa di biblico, nel suo nome?
«L’Armenia è stato il primo Paese ad aver scelto il Cristianesimo come religione, è quindi molto radicato nella nostra cultura. Però mentre Adam è una parola biblica armena, Adom non lo è».

I suoi progetti futuri?
«Sto lavorando a un’opera teatrale che andrà in scena in Germania nel 2025, e anche a una nuova opera che metterò in scena a Montreal, Jenufa di Leos Janecek. È un’opera molto bella e sono molto emozionato perché è una storia molto interessante, è una delle poche opere classiche scritte da una donna. È basata su un’opera di Gabriella Preissova, una drammaturga. È anche una storia incredibilmente folle, riguarda l’uccisione di un bambino, del resto le grandi opere sono scritte da compositori che amano il dramma, amano il teatro, come Verdi amava Shakespeare. Devono essere storie forti e avvincenti che vengono poi messe in musica, e questo è un ottimo esempio».