L’alba del secolo dei genocidi (Tempi.it 10.05.17)
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Alla fine del 1916 Martin Niepage, un insegnante di stanza presso una scuola tedesca di Aleppo, scrisse una lettera aperta al parlamento della Germania che un anno più tardi fu pubblicata in forma di pamphlet intitolato Gli orrori di Aleppo. È un resoconto agghiacciante delle sofferenze che vedeva intorno a sé in quella città. «Sono stato testimone, sono stato a guardare passivamente mentre gli alunni affidati a me venivano portati via a morire di fame nel deserto». Leggendo le sue parole cento anni dopo, si resta sconcertati dal ripetersi delle sofferenze in quegli stessi luoghi esatti. La storia non si ripete, ma sembra esserci qualcosa che lega Aleppo nel 1916 e Aleppo oggi.
Come ho dimostrato nei miei due libri più recenti, il genocidio armeno non fu percepito come un evento marginale nell’epoca in cui accadde e in quella successiva. La Germania fra le due guerre discuteva del genocidio armeno, i nazisti sapevano del genocidio armeno, e ne sapevano molto. Lo stesso vale per il resto del mondo occidentale. È passato tanto tempo da allora e oggi nei libri di storia sulla Prima Guerra mondiale il genocidio armeno è relegato ampiamente ai margini. Non solo non è trattato come un argomento centrale, spesso è proprio escluso dal racconto del conflitto.
Il genocidio armeno deve essere rimesso al suo posto nella storia, anche e soprattutto nella storia europea. Purtroppo è stato un progetto profondamente europeo: quello di rendere lo Stato omogeneo, di passare dall’impero allo Stato nazione. Anche il genocidio degli herero e dei nama (1904-1907) e i campi di sterminio industrializzati del fronte occidentale della Prima Guerra mondiale dicono molto di quel che ha caratterizzato il sanguinoso XX secolo. Ma il progetto dei Giovani Turchi e il genocidio armeno lo simboleggiano in modo più adeguato. È questa svolta verso la deportazione, la sottomissione e infine lo sterminio di propri cittadini su larga scala a caratterizzare purtroppo il XX secolo. È il secolo dello Stato forte e spesso letale, spesso innanzitutto e soprattutto per i suoi stessi cittadini.
La storia non è finita
Gli storici tentano di rendere il senso del passato a distanza e di identificare epoche di sviluppo più ampie. In genere consideriamo come inizio della modernità la fine del XVIII secolo, con le rivoluzioni americana e francese. Spesso il periodo dal 1789 allo scoppio della Prima Guerra mondiale nel 1914 è trattato come un lungo XIX secolo. Quello che seguì è chiamato di solito il secolo breve, che terminò con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli anni Novanta furono l’epoca non solo dell’assedio di Sarajevo, ma anche dell’euforia; Francis Fukuyama, come è noto, parlò di fine della storia.
Invece la storia è proseguita con il suo strazio. Il recente ritorno di Aleppo dovrebbe bastare per farci riflettere sul secolo in cui siamo vissuti; forse ancora oggi stiamo vivendo in un lungo XX secolo. Forse, a posteriori, il XX secolo è meno caratterizzato dalle grandi ideologie che non da una nuova forma più aggressiva di Stato che ha cercato di riplasmare la sua cittadinanza in unità più “perfette”. Un nuovo Stato moderno che ha avuto e ha poteri di controllo, coercizione e violenza fisica senza eguali. La presa dello Stato da parte dei bolscevichi portò alla morte di milioni di cittadini sovietici e la presa dello Stato da parte dei nazisti portò alla catastrofe la Germania, l’Europa e il mondo. Governi meno terrificanti si sono impossessati di Stati (a volte) meno potenti ma hanno prodotto lo stesso molte sciagure per i loro cittadini.
Per conquistare e trasformare il potere sovrano dello Stato, sembra che non ci sia bisogno di una maggioranza schiacciante – né i bolscevichi né i nazisti avevano maggioranze schiaccianti quando iniziarono a utilizzare la macchina dello Stato per consolidarsi. La sovranità statale appare come un’arma pericolosa in questa prospettiva. Ed è difficile smentire empiricamente questa affermazione. Si può obiettare citando lo Stato di diritto e i pesi e contrappesi, ma è ancora tutto da vedere e da valutare retrospettivamente quanto questi e la democrazia nel suo insieme siano davvero saldi nel mondo moderno. Il matrimonio tra democrazia e Stato moderno non è che un breve episodio della storia umana, quanto meno dal punto di vista privilegiato dello storico. È ancora un fiore abbastanza fresco e dobbiamo capire quanti altri inverni può superare.
Mettere in discussione la sovranità dello Stato sembra essere l’ultimo tabù politico del nostro tempo. Lo confermano diverse forme di anti-internazionalismo, la Brexit e il diffuso scetticismo verso le Nazioni Unite. Cosa ci sia oltre un mondo diviso in unità sovrane non lo sappiamo e non ne parliamo più. Quella che un tempo sembrava un’utopia oggi appare a molti come un’evidente distopia, nonostante il potenziale letale della sovranità statale. Forse stiamo attraversando un periodo che un giorno apparirà come un’epoca perversa di moderno medioevo illuminato – nella quale avevamo i mezzi, la conoscenza e spesso perfino la volontà, ancorché fiacca, di salvare migliaia, milioni di persone dall’essere uccise dai loro stessi Stati e governi, ma non siamo riusciti a farlo. Gli alleati non hanno fatto la guerra a Hitler per fermare l’Olocausto. Nessuno è intervenuto militarmente per salvare gli armeni durante la Prima Guerra mondiale. Degli interventi armati con l’obiettivo di salvare dei cittadini dai loro sovrani, pochi hanno avuto successo, abbastanza spesso l’intervento umanitario è stato una foglia di fico per qualche altro intento. I precedenti che può vantare l’umanità in quanto a difesa delle persone da violenze e omicidi di Stato sono scandalosi.
Il contadino e i suoi polli
Raphael Lemkin, l’ebreo polacco la cui famiglia perì nell’Olocausto e che sarebbe diventato il padre del termine “genocidio” e della Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, ebbe una delle sue esperienze più istruttive quando nel 1921 lesse sui giornali di un processo in corso a Berlino. Era il processo nei confronti dell’assassino di Talât Pasha – la mente dietro il genocidio armeno. Lemkin ricordò in seguito che all’epoca aveva chiesto al suo professore di diritto a Cracovia perché non fosse stato possibile dichiarare Talât Pasha colpevole dei crimini che aveva commesso contro gli armeni in un tribunale al di fuori del suo paese. Il professore aveva risposto con una parabola incentrata sulla sovranità statale: «Prenda il caso di un contadino che abbia dei polli. Il contadino li uccide, e questo fa parte del suo mestiere. Se lei interferisce, commette una violazione». Scioccato, Lemkin replicò: «Ma gli armeni non sono polli». «In quel momento – scrive Lemkin nelle sue memorie – la mia inquietudine riguardo all’omicidio degli innocenti divenne più urgente per me. Non conoscevo tutte le risposte, ma sentivo che una legge contro questo tipo di omicidio doveva essere accettata dal mondo… La sovranità, pensavo, non può essere concepita come il diritto di uccidere milioni di persone innocenti».
Riflettere sulla sovranità
Ma per l’epoca di Lemkim e per lungo tempo in seguito è stata questa la lezione della Prima Guerra mondiale – e i nazisti e molti altri la conoscevano e l’avevano udita forte e chiara: una nazione che si era macchiata di atrocità di massa e perfino di genocidio su larga scala era riuscita a restare impunita, aveva potuto perfino “godersi” i frutti materiali e i “benefici” del genocidio. Il genocidio armeno, il fatto che esso rimase impunito e che divenne una nota a piè di pagina della storia – questo è il peccato originale del XX secolo.
Ricollocare il genocidio armeno nella storia del mondo e dell’Europa non è un compito facile e deve condurre a una revisione radicale del XX secolo. Il genocidio armeno è stato un allarme importantissimo che il mondo non ha ascoltato. Il mondo sapeva ma sono state le persone sbagliate a trarre le debite conclusioni: che si può cavarsela impunemente con l’oppressione, la violenza e l’omicidio di massa.
Quanta strada abbiamo fatto e come proteggeremo mai i civili di uno Stato da coloro che hanno conquistato o stanno per conquistare il potere sovrano di quello Stato? Centodue anni dopo la deportazione dei capi degli armeni di Istanbul e l’inizio del genocidio armeno, novantasei anni dopo le riflessioni di Lemkin sulla sovranità, settantadue anni dopo la fondazione delle Nazioni Unite e sessantanove dopo la Convenzione per la prevenzione del genocidio, ancora non abbiamo risposte semplici, ma a quanto pare forse dobbiamo continuare a meditare e rimeditare sulle idee di Raphael Lemkin a riguardo della sovranità.
Stefan Ihrig è professore di Storia all’Università di Haifa, autore di Justifying Genocide (Harvard University Press)
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