La via diritta all’incontro. Anche nel gesto papale per gli armeni. Avvenire
Andrea Riccardi
2 dicembre 2014
Papa Francesco ha portato nel clima degli incontri ecumen ici il suo carisma personale. Non si tratta solo del suo carattere e della sua storia, ma di qualcosa di più. Lo s’è visto nella visita a Istanbul e nel rapporto con il patriarca Bartolomeo. Gli ha detto con franchezza nella chiesa del Fanar: «Incontraci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena comunione…». Ciò precede e accompagna il dialogo teologico. Ma soprattutto salva il dialogo teologico dalle derive ideologiche, dalla freddezza diplomatica e dalle logiche politiche. Introduce un senso di fretta. Papa Francesco non persegue una diplomazia ecumenica, ma rapporti veri di comunione. Nelle giornate di Istanbul ha immesso qualcosa di più nei rapporti ecumenici: una svolta umana dal profondo riflesso ecclesiale. Francesco ha fatto entrare nell’incontro ecumenico anche le voci del mondo e del “popolo”. Ha affermato che le Chiese debbono ascoltare i poveri, le vittime della guerra, i giovani che chiedono – in modi e linguaggi diversi – di essere veri discepoli del Vangelo, quindi di essere uniti.
Il discorso di Francesco al Fanar aveva dei toni analoghi alle parole del patriarca ecumenico Atenagora, pronunciate tanti anni fa. Atenagora affermava che l’unità e l’autenticità cristiana delle Chiese non sono esigenze di laboratori teologici o di ambienti ecclesiastici, ma una domanda dei popoli e delle giovani generazioni. Il Papa ha aggiunto che i giovani «ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione»…
E ciò, ha aggiunto Francesco, «non perché essi ignorino il significato delle differenze che ancora ci separano, ma perché sanno vedere oltre, sono capaci di cogliere l’essenziale che già ci unisce». È stata impressionante la sintonia del Papa con il Patriarca ecumenico. Quando i primati delle Chiese, nonostante la storia e le tradizioni diverse, camminano insieme da fratelli, matura in loro qualcosa di profondo. È quanto aveva proposto Atenagora a Paolo VI: camminare come fratelli dopo l’abbraccio di Gerusalemme nel 1964. Bartolomeo ha avuto in proposito parole vere e impegnative: «Non possiamo permetterci il lusso per agire da soli. Gli odierni persecutori dei cristiani non chiedono a quale Chiesa appartengono le loro vittime. L’unità, per la quale ci diamo molto da fare, si attua già in alcune regioni, purtroppo, attraverso il martirio. Tendiamo dunque la mano all’uomo contemporaneo…».
La Chiesa non vive per se stessa, ma per il servizio al Vangelo e per l’uomo e la donna contemporanei. Per questo Bartolomeo, successore di fedeli custodi della tradizione cristiana e orientale e lui stesso uomo della tradizione, ha detto: «A che cosa serve la nostra fedeltà al passato, se questo non significa nulla per il futuro?». Sì, l’incontro di Costantinopoli – come i greci chiamano la città sul Bosforo – non è stato uno scambio di cortesie ecclesiastiche, ma un passo in profondità nell’amicizia tra Chiese, in “uscita” per le vie della contemporaneità. Nella chiesa di San Giorgio al Fanar era presente il mondo con le voci dei giovani, dei colpiti dalla guerra, dei poveri, del mondo. Mi sembra che rientri nell’ecumenismo lo spessore umano della storia e dell’incontro tra uomini.
Un’espressione di questo fatto è l’amicizia personale tra il Patriarca e il Papa, che sembra riscaldare vicendevolmente i loro cuori e le loro parole. Bartolomeo ha avuto verso il Papa non solo parole di stima vera ma anche affettuose. C’è, poi, un evento, piccolo, avvenuto ai margini del viaggio papale e fuori dai riflettori, tanto che quasi nessuno lo ha notato. Solo qualche agenzia turca ne ha dato notizia. Piccolo, ma non secondario alla luce della lezione di umanità dell’ecumenismo, dataci dalle giornate di Istanbul. Merita attenzione. Prima di andare all’areoporto per partire per Roma, papa Francesco ha inserito una visita in un ospedale, quello armeno di Istanbul.
È andato a trovare il patriarca armeno di Istanbul, Mesrob II, non ancora sessantenne, gravemente malato, incapace di comunicare, ricoverato nell’ospedale della sua Chiesa e assistito amorevolmente dalla madre oltre che dai suoi collaboratori. Certo non è stato possibile alcuno scambio di parole con il patriarca, ma solo una preghiera con un abbraccio. Eppure è un evento significativo: un omaggio semplice e profondo alla Chiesa armena, che ha una storia non facile e che, nel 2015, ricorderà il centenario dei massacri degli armeni e dei cristiani nell’impero ottomano, durante la prima guerra mondiale. Incontrare un patriarca sofferente esprime un abbraccio a un’intera comunità.
Per l’ecumenismo di papa Francesco non contano il potere ecclesiastico o il ruolo delle persone, ma «guardare il volto l’uno dell’altro». Anche questo episodio “minore”, diventa illuminante rispetto al cammino che papa Francesco ha imboccato, perché l’amore rientri nei rapporti tra i cristiani, dopo che si era smarrito nei secoli passati e si è freddato in una consuetudine, pur importante, ma non pressata dall’urgenza dell’unità. Le alte parole del Papa al Fanar hanno trovato un’immediata realizzazione.
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