La scelta dell’Armenia. Una scossa europeista nel Caucaso che irrita russi e azeri, turchi e iraniani (Haffingtonpost 06.04.24)
L’Armenia stringe legami sempre più forti con l’Occidente, tanto che potremmo dire che si sta “ucrainizzando”. Ciò fa irritare non poco la Russia, l’Iran, l’Azerbaigian e la Turchia. L’incontro di alto livello che si è tenuto a Bruxelles venerdì 5 aprile tra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, il segretario di Stato americano Antony Blinken e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e l’Alto Rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell, è stato per certi versi storico. L’Unione europea diventa partner di fiducia dell’Armenia che prende sempre più le distanze da Mosca, mentre Washington rafforza la sua cooperazione anche militare con Yerevan.
Bruxelles vuole togliere dal cortile di casa della Russia il suo alleato della regione caucasica e dare inizio con Yerevan ad un partenariato molto stretto al quale potrebbe seguire la richiesta armena del riconoscimento di paese candidato. È pronta a stanziare 270 milioni di euro per un Piano di resilienza e crescita per Yerevan per il periodo 2024-27, secondo quanto annunciato dalla presidente Ursula von der Leyen al premier armeno durante il vertice trilaterale con gli Usa. Il Piano sosterrà l’economia e la società armena, le sue piccole e medie imprese e finanzierà progetti infrastrutturali e commerciali. L’Ue si è anche impegnata a soddisfare le esigenze dei centomila armeni costretti a fuggire dal Nagorno Karabakh dopo l’assalto azero del 19 settembre 2023. “Oggi manteniamo una promessa fatta all’Armenia lo scorso ottobre: stabilire una visione per il futuro del nostro partenariato economico”, ha detto Ursula von der Leyen durante la conferenza stampa congiunta.
L’obiettivo di Washington e di Bruxelles è di staccare l’Armenia dall’orbita della Russia e sostenere la sua economia di fronte alle crescenti tensioni nella regione. Per questo è necessario che l’economia e la società armena diventino più robuste e stabili di fronte agli shock energetici stanziando fondi per l’elettrificazione e nuovi progetti di energia rinnovabile. A sua volta Yerevan lavora per tagliare i legami con la Russia, che possiede gran parte della sua rete energetica e delle sue infrastrutture, ma che non è riuscita a garantire sicurezza agli armeni nelle dispute con il vicino Azerbaigian, diventato in quest’ultimi mesi sempre più minaccioso.
Armenia, Stati Uniti e Ue hanno rilasciato una dichiarazione congiunta ufficiale che riassume l’incontro di Bruxelles. Nel documento finale si riafferma il sostegno alla sovranità, alla democrazia, all’integrità territoriale e alla resilienza socioeconomica dell’Armenia. L’Ue e gli Usa sostengono un futuro stabile, pacifico, sicuro, democratico e prospero per l’Armenia e la regione. Inoltre, Bruxelles e Washington hanno riconosciuto i progressi sostanziali compiuti da Yerevan dal 2018 con le riforme democratiche del suo sistema giudiziario, sulla lotta alla corruzione e l’impegno preso dal governo Pashinyan teso a rafforzare ulteriormente la sua democrazia e lo Stato di diritto in linea con i princìpi e gli ordinamenti comunitari. L’Ue continuerà a sostenere l’Armenia nel suo percorso di riforma attraverso l’attuazione dell’accordo di partenariato globale e rafforzato (Cepa). L’amministrazione Biden prevede di fornire oltre 65 milioni di dollari a Yerevan. Infine, l’Ue e gli Usa hanno accolto con favore l’impegno dell’Armenia per una migliore connettività con il mondo esterno grazie all’iniziativa denominata “Crocevia della Pace”, un corridoio attraverso il quale promuovere la prosperità condivisa e la diversificazione economica e commerciale regionale.
L’incontro tra Pashinyan, Blinken e von der Leyen ha suscitato tensioni nel Caucaso meridionale.
L’Azerbaigian aveva accusato l’Armenia di ammassare truppe lungo il suo confine con l’exclave azera del Nakhchivan situata in territorio armeno, ma sia il governo armeno che la missione di monitoraggio dell’Ue, schierata lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian dalla fine del 2022, hanno respinto questa notizia come infondata. Baku critica Bruxelles e Washington contestando l’organizzazione di questo vertice che a suo dire traccerebbe “linee di divisione geopolitica” nel Caucaso meridionale alimentando le dispute locali. Stati Uniti e Ue hanno risposto cercando di tranquillizzare il presidente azero İlham Aliyev precisando che l’incontro era incentrato su questioni economiche e che non avrebbe incluso le questioni relative al processo di pace in corso tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Sia Blinken che von der Leyen, prima del vertice, hanno avuto su tale questione un colloquio telefonico con Aliyev. Anche la Turchia non ha salutato con favore questo incontro perché considerato una interferenza sul tentativo in corso di soluzione delle dispute tra i due vicini del Caucaso meridionale.
L’Armenia ha di fatto sospeso la sua adesione all’alleanza militare dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) guidato dalla Russia e aveva invitato le truppe statunitensi ad addestrarsi nel suo paese, ha inviato aiuti militari all’Ucraina e ora sta manifestando l’intenzione di aderire all’Ue. L’Armenia, dalla rivoluzione di velluto del 2018, è una democrazia, certamente imperfetta, ancora incompiuta, ma della quale bisogna riconoscere gli enormi passi in avanti compiuti grazie a un leader filoccidentale come Pashinyan che Mosca vorrebbe rovesciare. In Armenia si svolgono libere elezioni, mentre in Azerbaigian vi è un’autocrazia feroce, sul modello moscovita, dove la dinastia Aliyev (padre e figlio) è al potere da un quarto di secolo, dove Aliyev vince le elezioni con oltre il 90%, dove i partiti d’opposizione in realtà non esistono, dove oppositori e giornalisti sono in galera, ecc. Pashinyan è uno scrittore, poeta e giornalista, oltre che il primo ministro dell’Armenia. Sta attuando una politica progressista e di anticorruzione e ha ottenuto grandi risultati negli ultimi anni. È un pacifista, convinto di dover e poter risolvere le dispute con il dialogo e la trattativa. L’attacco azero del settembre scorso nel Nagorno Karabakh, che ha costretto tutta la popolazione armena a fuggire da quella enclave, è visto a Yerevan con preoccupazione come un primo passo di Baku per altre rivendicazioni territoriali. Si teme infatti che, forte del supporto militare della Turchia, l’esercito azero possa occupare quell’area cuscinetto situata tra l’Azerbaigian e la sua exclave del Nakhchivan a maggioranza azera situata in territorio armeno.
Tra Armenia e Azerbaigian è in corso un processo di dialogo bilaterale che dovrebbe portare alla normalizzerebbe delle relazioni tra i due paesi dopo trent’anni di conflitto, ma c’è ancora la minaccia di violenza dentro e intorno all’Armenia meridionale, nella regione chiamata Syunik, storicamente nota come Zangezur, ancora teatro di scaramucce tra i due eserciti e dove agli osservatori della missione di frontiera dell’Ue (Euma) viene negato l’accesso da parte delle guardie di frontiera russe. Il 7 febbraio, il presidente İlham Aliyev si è fatto rieleggere in elezioni farsa per un quinto mandato forte della vittoria militare dello scorso settembre, quando le sue forze occuparono il Nagorno Karabakh con un’operazione lampo, nonostante un negoziato in corso con Ue e Stati Uniti che avrebbe risolto le dispute pacificamente e in maniera equa. Invece Aliyev ha voluto ribaltare la questione tutta a suo favore con la forza delle armi nonostante gli impegni presi con Bruxelles e Washington. L’esercito azero ha di fatto costretto l’intera popolazione armena alla fuga dal Nagorno Karabakh risolvendo così, con la violenza brutale, la disputa decennale riguardante l’enclave armena in territorio azero. Baku ha ritenuto che quello fosse il momento giusto per tornare a mostrare i muscoli a Yerevan, anche perché la sua influenza sulla Russia era aumentata a causa della necessità di Mosca di assicurarsi l’apertura di rotte di transito verso l’Iran, cosa che poteva e che può avvenire solo attraverso l’Azerbaigian. Inoltre, Baku si fa forte anche del fatto che pensa di essere diventata sempre più una fonte di gas naturale preziosa per l’Europa a causa del crollo dell’erogazione del gas russo nel continente.
L’atteggiamento di laissez-faire di Mosca nei confronti di Yerevan è legato a due fattori principali. Uno è l’ostilità viscerale del dittatore Putin nei confronti delle rivoluzioni colorate che in Armenia hanno determinato la vittoria del filoccidentale Nikol Pashinyan. L’altro fattore è l’attuale dipendenza di Mosca dall’Azerbaigian attraverso la quale la Russia venderebbe il suo petrolio all’Europa confezionato come azerbaigiano. Le relazioni dell’Armenia con il suo tradizionale benefattore, la Russia, si sono deteriorate dopo la rivoluzione democratica del 2018 che scosse l’oligarchia filorussa e portò al potere Pashinyan, l’attuale leader. Ora la Russia minaccia il leader armeno per la “direzione “occidentale verso cui sta indirizzando il suo paese. Mosca vede questa crisi come un’opportunità per sbarazzarsi di un’Armenia che guarda sempre più all’Occidente e per questo cerca di provocare un cambio di regime a Yerevan. Dall’ascesa al potere di Pashinyan con la Rivoluzione di velluto nel 2018, la rivoluzione pacifica che segnò la fine dei regimi autoritari e fortemente corrotti, l’Armenia si è avvicinata a Washington e si è rifiutata di sostenere l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Il Parlamento armeno ha recentemente ratificato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, ciò comporterebbe che Putin, ricercato dal tribunale dell’Aia per crimini di guerra, se si dovesse recare in Armenia, potrebbe essere arrestato e consegnato alla Corte penale internazionale.
Quello azero-armeno rimane ancora un conflitto aperto perché è ancora irrisolta la disputa sui corridoi e sui confini e non è un caso adesso che molti osservatori nel mondo arabo e in Iran guardino da vicino gli sviluppi nel Nagorno Karabakh e le varie dispute. In altre parole, gli eventi nel Caucaso meridionale ora sono visti anche come un’estensione della politica del Medio Oriente.
L’Iran aveva interessi in questa parte del Caucaso, ma il suo ruolo era piuttosto marginale. La seconda guerra del 2020 ha cambiato tutto questo. La Turchia ha dato pieno sostegno militare all’Azerbaigian, rivelatosi cruciale per ottenere una vittoria sugli armeni. Le forze di pace russe, duemila peacekeepers, furono schierate lungo la linea di contatto del Nagorno Karabakh. Il formato dell’Osce è crollato e l’Occidente è stato emarginato. In questo contesto, dopo il 24 febbraio 2022, il conflitto si è intrecciato con la guerra d’invasione dell’Ucraina e con le più ampie dinamiche mediorientali. L’Iran ha iniziato a sostenere più da vicino l’Armenia, perché teme che l’Azerbaigian e la Turchia prendano il controllo del suo confine settentrionale. Israele sostiene l’Azerbaigian per contenere l’Iran. Il Pakistan fornisce armi a Baku e l’India le fornisce a Yerevan. Le dimensioni delle annose dispute territoriali del Nagorno Karabakh, dunque, andavano ben oltre l’enclave etnicamente armena in territorio azero. Le loro dimensioni ora si estendono. La propaganda nazionalista, da sempre presente su entrambi i lati, è adesso massicciamente diffusa da parte azera in proporzione inquietante. Basti pensare che anche recentemente il presidente azero İlham Aliyev ha usato una inquietante retorica irredentista definendo l’Armenia meridionale come “Azerbaigian occidentale” chiamata da Baku come regione del “Zangezur”, che aveva una consistente popolazione azera all’inizio del XX secolo. Lo scorso dicembre Aliyev ha annunciato la creazione di una “comunità dell’Azerbaigian occidentale” e ha affermato che quella regione è il luogo dove gli azeri “devono poter tornare nelle loro terre natali”.
L’operazione in Karabakh del settembre 2023 ha accelerato il raffreddamento delle relazioni tra l’Azerbaigian e l’Occidente, che fino all’ultimo momento aveva cercato di mediare una soluzione pacifica del conflitto. Ora le relazioni Armenia-Russia sono giunte a un punto di rottura spettacolare e l’Ue sta intensificando il suo impegno con Yerevan. Aliyev si sente forte di una doppia polizza assicurativa con i suoi due grandi vicini: una stretta alleanza con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e una partnership reciprocamente vantaggiosa con il leader russo Vladimir Putin. I tre leader parlano lo stesso linguaggio autoritario e revanscista.
I percorsi negoziali facilitati dall’Occidente a Bruxelles e a Washington e i documenti prodotti sono stati ridotti da Baku a carta straccia e sono stati di fatto archiviati nella scorsa estate. Ciò che resta è un processo bilaterale, guidato dai consiglieri per la sicurezza nazionale armeno e azerbaigiano, che lavorano per stilare un testo di un accordo di pace. Si tratta di un processo serio che ha prodotto un buon esito il 7 dicembre, quando detenuti armeni sono stati rilasciati in cambio della caduta del veto armeno alla candidatura dell’Azerbaigian all’ospitalità del vertice sul clima COP-29 che si terrà alla fine del 2024. Un processo di pace bilaterale senza mediatori ha il vantaggio che nessun programma o nessuna entità straniera potrà ostacolare l’accordo. Ma la parte armena, che si trova indubbiamente in una situazione di debolezza, teme che Baku spinga per ottenere concessioni con la minaccia dell’uso della forza come è avvenuto nell’autunno scorso.
Vi sono tre principali punti critici che si frappongono al raggiungimento di un accordo.
Il primo è quello della demarcazione dei rispettivi confini. Le mappe di epoca sovietica danno interpretazioni diverse su dove tracciare le linee di confine.
Il secondo punto critico è rappresentato dalle garanzie e dai meccanismi internazionali necessari per il monitoraggio e il rispetto degli accordi. Gli armeni chiedono il più ampio sostegno delle istituzioni internazionali, mentre gli azeri preferirebbero semplicemente la garanzia di paesi amici.
Il terzo punto critico è quello altamente controverso ed è rappresentato dalla riapertura di un corridoio di transito in territorio armeno, al confine con l’Iran, di 43 chilometri rimasto a lungo chiuso, che collega l’Azerbaigian alla sua exclave di Nakhchivan, situata al confine con la Turchia. L’Azerbaigian ha interesse a ricollegare le due parti del suo territorio con rotte che abbiano il minor controllo armeno possibile su di esse. Yerevan dal canto suo non vuole cedere la sovranità o la sicurezza sulla sua zona di confine meridionale che è strategicamente vitale.
L’Azerbaigian insiste affinché siano le guardie di frontiera del Servizio di sicurezza federale russo (Fsb) a controllare i collegamenti ferroviari e stradali di quel corridoio in virtù della dichiarazione trilaterale di cessate il fuoco firmata tra Armenia, Azerbaigian e Russia il 10 novembre del 2020, dopo la sconfitta militare armena nella seconda guerra per il Nagorno Karabakh, che menziona esplicitamente questo punto. Ma quell’accordo è ormai diventato lettera morta dopo la guerra lampo di Baku nel Karabakh del settembre scorso. Tuttavia, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov insiste affinché questa parte dell’accordo venga comunque applicata. Yerevan sta lavorando per liberarsi della tutela di Mosca compresa la presenza delle guardie di frontiera russe schierate lungo i confini armeno-azeri dopo la caduta dell’Unione sovietica.
Il governo armeno teme che vi sia già un accordo tra Baku e Mosca sulla permanenza militare russa su quel confine al quale Ankara avrebbe tacitamento aderito. Per i russi infatti il controllo di quella via di transito è strategicamente importante soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Per Mosca, acquisire il controllo di un tratto ferroviario e autostradale che collega la Russia all’Iran e alle rotte verso il Golfo Persico, per la prima volta dopo decenni, è di fondamentale importanza strategica perché rappresenta la principale linea ferroviaria nord-sud che ha collegamenti con il Medio Oriente e l’Asia centrale, preziosi per sostenere la guerra contro l’Ucraina e la contesa con l’Occidente.
Sono dunque fondate le preoccupazioni di Bruxelles sul fatto che l’Azerbaigian non firmerebbe alcun accordo di pace se non avrà ottenuto ciò che vuole nell’Armenia meridionale. Yerevan certamente subirà sempre più forti pressioni sia da Baku che da Mosca affinché aderisca a un piano per il corridoio di Zangezur che non favorirebbe né l’Armenia né i paesi occidentali.
L’espansione del conflitto nel Caucaso meridionale rimane dietro l’angolo. L’Armenia ora sembra essere sempre più convinta della necessità del completamento del suo percorso di integrazione con l’Occidente e si prepara a presentare a Bruxelles la richiesta di riconoscimento dello status di paese candidato all’ingresso nell’Unione europea.