La «Rivoluzione di Velluto» paralizza l’Armenia (Corriere della Sera 02.05.18)
Sciopero generale nello scontro tra l’opposizione e il governo. Che però ammette la sconfitta
Portano una finta bara davanti al Parlamento di Yerevan, l’adornano di fiori, inscenano un funerale: «Oggi muore questo regime!». Mettono di traverso trecento macchine sulle autostrade, isolano la capitale, bloccano i binari di treni e metrò: «Andiamo avanti finché i corrotti e i ladri non se ne vanno!». Fermano le auto verso l’aeroporto e fanno scendere tutti, si va a piedi, qualche volo viene cancellato e i piloti aderiscono alla protesta: «Sciopero generale!». Occupano i palazzi governativi delle altre città, da Gyumri a Maralik, e chiedono ai sindaci d’unirsi a loro: «Vogliamo la vittoria!».
Rivoluzione non violenta
La chiamano la Rivoluzione di Velluto, perché dura dal 13 aprile e non ha provocato morti, ma ieri sotto il morbido s’è temuto il pugno di ferro: «Non provate a mandare in piazza l’esercito — ha avvertito a un certo punto Nikol Pashinyan, leader dell’opposizione Yelq —, convinceremo i soldati a protestare con noi. Stavolta non si molla! E attenti: potrebbe diventare uno tsunami».
Armenia armata. Sei giorni per evitare (o scatenare) il caos. Sull’orlo di un’altra Ucraina. Uno dei Paesi più immobili del vecchio impero sovietico, dove dagli anni Novanta la benedizione di Mosca fa governare sempre gli stessi, martedì prossimo proverà a darsi un nuovo premier e una nuova politica: sull’autocandidatura di Pashinyan, 42 anni, t-shirt e berretto, ex giornalista già finito in galera per le sue contestazioni, alla fine della giornata di scioperi dice d’essere d’accordo anche il suo grande nemico Serzh Sargsyan. Il Partito repubblicano che comanda in Armenia, e che ha permesso a Sargsyan di regnare nell’ultimo decennio, alla fine accetta il cambio di stagione. Quasi inevitabile: con un contestato referendum il presidente Sargsyan aveva ritoccato i poteri presidenziali e in aprile (non potendosi dare un terzo mandato, vietato dalla Costituzione) li aveva riversati tutti sul primo ministro, cioè se stesso, perché a quella carica s’era poi fatto eleggere dal Parlamento (che il suo partito controlla). Un colpo di mano. Un mezzo golpe. Abbastanza per muovere le piazze e costringere l’eterno Sargsyan, improvvisamente mite e rassegnato, alle dimissioni: «E va bene. Pashinyan aveva ragione, io torto. Esaudisco le vostre richieste».
Il controllo di Mosca
La crisi è finita o è solo all’inizio? Protettorato putiniano, l’Armenia deve guardarsi da vicini ostili (i turchi del Medz Yeghern, il grande genocidio, più gli azeri del gas e del conteso Nagorno-Karabakh) e soprattutto dalle attenzioni russe. Le idee di Pashinyan non piacciono a Mosca: l’aspirante premier vuole un riavvicinamento all’Ue e alla Cina, più dialogo con gli Usa e qualche mese fa ha proposto di rivedere gli accordi economici coi russi.
Dal Cremlino sono arrivate telefonate preoccupate: «Spero in una soluzione rapida», ha raccomandato lo Zar. E i deputati della Duma si sono presentati subito a Yerevan in delegazione.