“La quarantena degli ultimi, ci hanno detto di stare chiuse in casa e poi sono spariti” (Tusciaweb 06.02.21)
Sofya Grigoryan, ossia la quarantena degli ultimi. “Hanno messo in quarantena me – dice – mia madre e mia figlia. In trenta metri quadrati di casa. Poi sono spariti, nessuno ha chiesto più nulla di noi”. Chi s’è visto s’è visto. E infatti non s’è visto nessuno. Comune, scuola, vicinato, volontariato. Soltanto la Asl, il primo giorno. Per dire a Sofya Grigoryan, proveniente dall’Armenia dove ha passato il Natale, che se ne doveva stare chiusa in casa per 14 giorni. Poi più nulla. Nemmeno per ritirare la monnezza, raccolta nel garage di fronte. Almeno fino a ieri, quando Sofya e la sua famiglia hanno potuto rimettere il naso fuori di casa. A Vetralla, frazione La Botte. Periferia di Roma a due passi da Viterbo. Con la Cassia che tira dritto tra palazzine e cemento che se non fosse per gli alberi piantati lì un secolo e mezzo fa sembra quasi di stare sulla Nomentana, con pizzerie, bar e robivecchi che si affacciano sulla strada interrotta solo dal passaggio a livello dove ogni ora passa un treno che si ferma una volta ogni tanto.
Sofya Grigoryan, la madre Svetlana di 73 anni e la figlia Emyli di 10 che da 5 mesi va a scuola da queste parti. In un appartamento di 30 metri quadrati. La quarantena l’hanno passata qui. Servizi inclusi. Cucina, bagno e una camera da letto. Una casa ordinatissima. Con dolci e crostate armeni. Ai margini della strada che tira dritto e prima del treno che ferma ogni tanto. Tra caseggiati che ormai sommano insieme, in maniera indistinta, le pietre cavate e tirate su da braccianti e contadini con la speculazione di quarant’anni fa e i consumi del momento con colori improbabili sparati in faccia a paesaggi poveri e malmessi, sebbene costati così tanta fatica. Sul muro di casa e il frigorifero, le foto di cugine, sorelle e quelle della figlia che ieri mattina stava a scuola.
“Siamo tornati due settimane fa dall’Armenia – racconta Sofya Grigoryan -. Lì abbiamo passato il Natale”. Lì, qualche mese fa c’è stata una guerra che ha visto coinvolte forze azere e armene per il possesso della regione caucasica del Nagorno Karabakh. Pochi mesi fino a novembre, con migliaia di morti. La ragione del ritorno a casa è stata questa. La preoccupazione per la propria famiglia, in una guerra combattuta da giovani come tanti se ne vedono in giro per l’Europa.
“Appena arrivati a Viterbo – prosegue Grigoryan – abbiamo avvisato la Asl e siamo state messe in quarantena. Chiuse in casa senza la possibilità di uscire per 14 giorni. La nostra famiglia è a migliaia di chilometri di distanza e le persone che conosciamo qui non le potevamo vedere perché se poi fossimo risultate positive al Covid, e non lo siamo, avremmo messo a repentaglio il loro lavoro. Pensavamo però – aggiunge – che qualcuno si sarebbe fatto vivo, in qualche modo. Il comune, la Asl, anche la scuola. La Asl non ci ha più chiamate. Almeno per capire che fine avessimo fatto. Il comune non è venuto nemmeno a ritirare la monnezza. Meno male che abbiamo un garage dove abbiamo potuto metterla”. E meno male pure che la signora ha sgamato. “Meno male – commenta infatti Sofya – che ho fatto spesa il primo giorno prendendo tutto il necessario e immaginando che sarebbe stata dura. Stare tappate in casa per 14 giorni consecutivi, in 30 metri quadrati, non è uno scherzo”.
Sofya Grigoryan ha 38 anni ed è laureata in economia all’università statale di Mosca. Vive in Italia da 8 anni “e ho fatto di tutto – racconta -. Ho lavorato in albergo a Firenze e ho fatto la cameriera, adesso sono disoccupata”. La madre Svetlana è arrivata in Italia quest’anno. Vedova da quasi 40 anni, prende una pensione dallo stato armeno che tradotta in euro fa 60. Euro, al mese. Praticamente niente, senza sapere neanche la lingua del paese dove è piombata, da un altro messo in ginocchio da guerra e miseria, “e dal quale – dice poi Sofya – tutti quanti se ne vanno”. Il paese della più antica comunità cristiana, del monte Ararat e dell’Arca dell’alleanza, dei System of a down e Kim Kardashian. “Sono rimasti solo 2 milioni di abitanti”, sottolinea Sofya Grigoryan. Un milione e mezzo furono invece quelli sterminati dai turchi all’inizio del novecento. “Il Covid – prosegue Grigoryan – viene gestito senza ricorrere a zone rosse, gialle o arancioni e l’obbligo della mascherina c’è solo quando si entra nei negozi”.
Ventiquattrore per 14 giorni. Uno appresso all’altro. “Passati – dice Sofya – facendo le cose di casa, i compiti, chiacchierando, leggendo e guardando la tv”. Né più, né meno. Sperando ogni tanto che qualcuno, dalle parti delle istituzioni, si fosse fatto vivo per capirne la sorte. Considerando il posto isolato in cui vivono, la disoccupazione e il grosso della rete familiare a migliaia di chilometri.
Svetlana Grigoryan, la madre, sta seduta sul divano davanti alla cucina. Di fianco c’è il corridoio che porta al bagno e alla camera da letto. In fondo, le scarpe sono disposte fronte muro. All’ingresso c’è invece una stufetta a legna e un orologio da parete che segna l’ora di pranzo. La figlia di Sofya, Emyli, è a scuola, dove va da qualche mese. Anche lei è arrivata in Italia l’anno scorso. “Per mia figlia – spiega Sofya Grigoryan – stare chiusa in casa 14 giorni è stato difficile. La didattica a distanza – precisa poi – per chi non conosce ancora bene l’italiano, non aiuta. E noi genitori siamo impotenti. I bambini hanno bisogno di uscire, e di avere fiducia negli altri”.