La guerra infinita tra Armenia e Azerbaigian insegna qualcosa (Haffington pot 17.04.24)
Quando politici e analisti, più o meno improvvisati, discutono di un possibile congelamento del conflitto in Ucraina quale soluzione della crisi, pochi dimostrano di avere un’idea precisa di quanto affermano. Lo riprova il fatto che ben di rado si faccia riferimento a ciò che avviene da oltre trent’anni nel Caucaso meridionale. Perché un conflitto congelato è – o almeno rischia di essere, alla prova dei fatti – una guerra che ritornerà domani più feroce che mai, non appena sarà ultimato il riarmo. Il tragico esempio del Nagorno-Karabakh, dove solo lo scorso anno si è arrivati a quella che il Parlamento Europeo, nelle risoluzioni approvate a larga maggioranza il 5 ottobre 2023 e il 13 marzo 2024, ha definito come “una pulizia etnica” nei confronti della minoranza armena, è a tal proposito un monito inequivocabile.
Perché – sembra un paradosso e non lo è, purtroppo – non è bastata neppure la riconquista dell’intero territorio del Karabakh da parte delle truppe azerbaigiane per porre fine alla guerra e ai morti. Il regime di Baku, galvanizzato dal trionfo bellico, ora è passato a rivendicare con sempre maggior insistenza il territorio vero e proprio dell’Armenia, che la propaganda azerbaigiana non esita a definire “Azerbaijan occidentale.” Un dato, ancora una volta, che dovrebbe far riflettere, pensando all’Ucraina.
Era l’11 maggio 1994 quando a Bishkek, al termine della prima guerra del Karabakh, Baku e Yerevan giungevano a un accordo di cessate il fuoco che – fra continue escalation e violazioni – resterà in vigore fino al 9 novembre 2020, quando ne sarà firmato un altro; e, ancora, fino al 20 settembre 2023, quando ne sarà firmato un terzo, tuttora in vigore. È importante ricordarlo, perché è un errore che mi è capitato di riscontrare più volte sui media italiani: Armenia e Azerbaijan sono a tutti gli effetti ancora due paesi in guerra. Ogni tentativo diplomatico, dagli anni Novanta ad oggi, non è mai andato oltre i tre accordi di cessate il fuoco qui menzionati – senza fermare la violenza.
Eppure, già il bilancio di quella prima guerra era stato drammatico: oltre 30.000 morti e centinaia di migliaia di profughi e sfollati azeri e, in misura minore, armeni, costretti a lasciare le loro terre, in molti casi per sempre. Intere città rase al suolo, come Aghdam, che ho potuto visitare due volte e che conservava intatta solo una moschea, circondata da un paesaggio impressionante di distruzione e macerie; massacri, come quello di Khojaly, costato la vita di duecento azerbaigiani secondo Human Rights Watch, e oltre il doppio secondo un’investigazione parlamentare di Baku; prima ancora della guerra, c’erano poi stati pogrom, come quello anti-armeno di Sumgait nel 1988.
Il Nagorno-Karabakh, territorio storicamente a maggioranza armena, la cui definizione territoriale all’interno del territorio dell’Azerbaijan – allora Repubblica socialista sovietica – risale all’Urss e a Stalin in persona, resterà quindi controllato dalla popolazione autoctona armena auto-costituitasi in Repubblica indipendente de facto con il supporto (ma non il riconoscimento ufficiale) di Yerevan. Sette regioni attorno ad esso, dalle quali l’intera popolazione azerbaigiana sarà espulsa, saranno occupate fino al 2020. Il parlamento edificato dagli armeni al centro di Stepanakert (oggi Khankendi, in lingua azera), sarà raso al suolo solo poche settimane fa, come testimonia il messaggio video di auguri per il Novruz – l’antico capodanno zoroastriano che corrisponde all’equinozio di primavera – dell’autocrate Ilham Aliyev.
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Ho iniziato a seguire questo conflitto dieci anni fa esatti, nel 2014, quando vivevo a Yerevan. Si parlava, di rado e distrattamente peraltro, di un conflitto congelato, appunto, nonostante le periodiche escalation che costavano la vita di soldati armeni e azerbaigiani, quasi tutti giovanissimi. Molti rimasero sorpresi nel 2016 quando il conflitto, anche se solo per quattro giorni, a inizio aprile, tornerà ad esplodere nel modo più drammatico. Massacri contro civili, come nel villaggio di Talish che ho potuto visitare pochi giorni dopo, deserto, sotto la minaccia dei cecchini e con le abitazioni crivellati di colpi; ma anche una guerra lungo tutta la frontiera, con un dispiego di droni che anticiperà il futuro di questo e di altri conflitti.
«Bisogna fare di tutto,» dichiarava in quei giorni la cancelliera Angela Merkel, «per evitare che venga versato altro sangue e che si perdano vite umane, perciò gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco sostenibile e duraturo sono ora estremamente urgenti.» Ma poco o nulla di concreto è seguito a queste e altre dichiarazioni, e la diplomazia europea e americana è tornata a cullarsi – finché ha potuto, certo – nell’idea che i conflitti nello spazio post-sovietico fossero una cosa tutto sommato trascurabile e marginale, non pericolosa.
Un tragico errore. Il Nagorno-Karabakh, per cui esisteva – uso il passato, purtroppo, dato che ha trionfato la violenza, nel frattempo – anche un piano di risoluzione del conflitto, i cosiddetti principi di Madrid elaborati nel 2006 e aggiornati nel 2009, avrebbe potuto essere un laboratorio per scongiurare quanto avvenuto in seguito in Ucraina. Certo, così non è andata. Ma l’idea che se, su più piccola scala, si fosse lanciata un’iniziativa diplomatica europea nel Caucaso del Sud capace di portare risultati tangibili – naturalmente, anche Abcasia e Ossezia del Sud potevano essere utili, a tal proposito – forse oggi non saremmo dove siamo, certo non è da scartare.
Il 2016, come dicevamo, è stato un avvertimento a cui nessuno ha prestato ascolto. L’idea egemone, fra gli analisti e nella diplomazia internazionale, che il legame sempre più stretto fra l’Europa e Baku e la mutua dipendenza economica e di risorse sarebbero bastati a scongiurare una nuova guerra si è dimostrata fallace.
Un nuovo conflitto, di ben altre dimensioni e corrispondente a una ennesima catastrofe umanitaria, ha avuto luogo dunque fra il 27 settembre e il 10 novembre 2020. Ancora una volta, migliaia di morti da entrambe le parti, e un assedio mosso dalle truppe di Baku contro la popolazione civile del Karabakh, costretta per oltre un mese a subire continui bombardamenti in tutti i maggiori centri abitati.
Da un punto di vista militare, si è assistito a un rovesciamento dell’esito della prima guerra, quando erano state le forze armene a trionfare. Quello che ho potuto vedere arrivando in Nagorno-Karabakh un mese e mezzo dopo la fine del conflitto, era un territorio altamente militarizzato dove, anche nelle zone ancora ufficialmente sotto il controllo armeno, erano le truppe di Baku e di Mosca, teoricamente dispiegate con funzione di peacekeeping, a controllare il territorio.
La gigantografia di Vladimir Putin all’entrata di Stepanakert, e i continui checkpoint russi – una decina – disseminati nell’unica strada ancora disponibile a legare l’Armenia al Karabakh, non lasciavano scampo a equivoci. Come anche la mancanza di acqua calda, di corrente elettrica e la scarsezza di cibo reperibile in loco, accompagnate da attacchi alla frontiera che, in due occasioni, mi è capitato di appurare personalmente, nonostante il cessate il fuoco.
E proprio quell’unica strada, il corridoio di Lachin, finirà al centro di un blocco imposto da Baku e Mosca insieme. Prima toccherà ai giornalisti (poco dopo la mia visita, già difficoltosa), quindi ai cittadini armeni e alla minoranza armena del Karabakh l’impossibilità di entrare e uscire dal territorio. Un blocco totale che, dal 12 dicembre 2022 fino allo scoppio di una nuova aggressione nel settembre scorso, ridurrà alla fame la popolazione locale, impossibilitata a ricevere anche solo medicine e cure per i malati, oltre che cibo.
Ma non era finita, purtroppo. Ridotta allo stremo, la popolazione autoctona armena subirà un nuovo attacco militare, come detto, che si concluderà il 3 ottobre dello scorso anno con quella che in molti definiscono ormai senza esitazioni una pulizia etnica. Ovvero l’espulsione forzata di oltre centomila armeni del Karabakh, che si trovarono a perdere tutto – casa, averi, lavoro, e persino le tombe dei loro cari – nel giro di pochi giorni.
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Un trionfo, per la famiglia Aliyev; un regime in cui l’attuale presidente Ilham ha ereditato il potere dal padre, Heydar, e dove la moglie del presidente (caso unico al mondo) è anche la sua vice da un punto di vista istituzionale. Come prevedibile, le ambizioni dell’autocrazia, anziché essere placate, sono aumentate ulteriormente. Oltre alle ambizioni sul territorio armeno già citate, il regime sta colpendo con una violenza spietata anche i pochi giornalisti indipendenti rimasti nel paese e l’esile opposizione interna.
Una doppia guerra, interna e esterna appunto, quella del regime, che grazie ai proventi di gas e petrolio (con l’Italia ai primissimi posti, ricordiamolo) sta procedendo a un riarmo sempre crescente che nulla di buono lascia presagire per il futuro della regione. Se il regime ha dato ampia dimostrazione di essere in grado non solo di sopravvivere, ma di prosperare, nel contesto di una guerra senza fine, la domanda che dobbiamo porci oggi è se sarà invece in grado di sopravvivere anche a una possibile pace che si intravede all’orizzonte.
Come giustificare, da un punto di vista interno, un regime liberticida che produce diseguaglianze drammatiche da un punto di vista economico e che gestisce il potere finanziario e politico come una semplice questione di famiglia in mancanza di un “nemico” come l’Armenia? Per chi conosce e studia il funzionamento del potere in Azerbaijan, appare evidente come l’odio per il vicino sia una questione troppo strutturale per essere messa da parte senza rischiare una seria crisi del regime.
Da parte armena, invece, la sconfitta si sta traducendo in uno sfaldamento statale che rischia di minare la sopravvivenza stessa delle già fragili conquiste democratiche raggiunte dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Nikol Pashinyan, già popolare leader della Rivoluzione di velluto del 2018, oggi appare un leader sconfitto incapace di uscire dalla crisi che il paese ha imboccato.
Il dilemma fondamentale che oggi l’Armenia si trova ad affrontare è quello della sua stessa sopravvivenza: sarà in grado di resistere a un’eventuale uscita dall’alleanza militare che, almeno formalmente, ancora la lega a Mosca? Come affermato a febbraio dallo stesso Pashinyan, infatti, la partecipazione armena all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva guidata dalla Russia è «congelata» (di nuovo questo aggettivo). «Il Trattato di sicurezza collettiva non ha raggiunto i suoi obiettivi per quanto riguarda l’Armenia», ha commentato il Primo ministro armeno, facendo riferimento al mancato supporto russo negli ultimi anni.
Un’auspicabile quanto purtroppo tardivo engagement della diplomazia euro-americana nei confronti di Yerevan è sfociato nell’incontro del 5 aprile fra lo stesso Pashinyan, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken.
Come ha commentato Gabriel Gavin sulle pagine del quotidiano Politico, si tratta del lancio di «un piano dal valore storico per aiutare l’Armenia a uscire dall’orbita della Russia e sostenere la sua economia a fronte delle crescenti tensioni nella regione». 270 milioni di euro saranno stanziati dall’Unione Europea per sostenere l’economia armena nei prossimi quattro anni, nell’ambito di «una nuova e ambiziosa agenda di partenariato», come ha affermato von der Leyen.
Ma basterà questo a scongiurare una nuova esplosione di questa guerra che, senza interruzioni, si trascina fino dagli anni Novanta? Quali sono le garanzie concrete che Washington e Bruxelles possono offrire a Yerevan per scongiurare un nuovo attacco di Baku, che alla pari di Mosca ha espresso forti critiche nei confronti di questo incontro?
Le preoccupazioni, purtroppo, restano molte e giustificate. L’Europa, fino ad oggi, è sempre stata lontana dal Caucaso del Sud, e la sua credibilità – anche da queste parti – mostra segni inequivocabili di crisi.