La diplomazia del caviale. Ecco perché nessuno dice niente, in Europa, sulla guerra in Armenia (Confronti 26.12.20)
/in Rassegna Stampa /da adminwpdi Leonardo Filastò. Storico delle idee
«Tra favori grandi e piccoli, tra guadagni e maneggi legati al tiranno, si arriva al punto che il numero di persone a cui la tirannia sembra vantaggiosa risulta quasi uguale a quello di chi preferirebbe la libertà». Così scriveva l’umanista francese Etienne de La Boétie in un pamphlet circolato clandestinamente in Francia nella seconda metà del Cinquecento. Ma il Discorso della servitù volontaria è ancora oggi un preziosissimo prontuario su come nascono e si sostengono le autocrazie. Il meccanismo di sostegno è sempre lo stesso, la corruzione. Possiamo però fare un passo in più e allargare ciò che accade all’interno di uno Stato a quello che accade tra un Stato e un altro. Ne abbiamo un buon esempio sotto gli occhi e si chiama Caviar diplomacy.
Ricordiamolo, la locuzione “diplomazia del caviale” è stata coniata nel 2012 per indicare il sistema tramite cui il governo dell’Azerbaijan, elargendo regalie a politici stranieri, riesce a tacitare il Consiglio d’Europa sulla scorrettezza delle proprie elezioni politiche, sulla mancanza di libertà di stampa e sulle sistematiche persecuzioni e incarcerazioni degli oppositori politici.
L’Azerbaijan è formalmente una Repubblica, ma è in realtà una repubblica sui generis, con una presidenza dinastica, tramandata di padre in figlio come nella Corea del nord, e una conduzione del potere familistica (Ilham Aliyev ha nominato sua moglie come vice presidente). Insomma, di res publica non c’è traccia, il dispotismo è in realtà la sua cifra distintiva. Ma per accreditarsi come autentica democrazia ha implementato un sistema di corruzione capillare, atto a garantirsi la “servitù volontaria” degli Stati europei (e in particolare dell’Italia) già dipendenti dall’Azerbaijan per gl’idrocarburi.
Il 6 novembre 2013, in un articolo sul Corriere della Sera, Milena Gabanelli rilevava come, in occasione delle elezioni avvenute in Arzebaijan un mese prima e vinte dal Presidente uscente Aliyev con l’85% dei voti per il terzo mandato consecutivo, Pino Arlacchi, capo degli osservatori ufficiali del Parlamento europeo, avesse giudicato le elezioni «libere, eque e trasparenti» in totale disaccordo con i rilevamenti fatti dall’OSCE, dall’Human Rights Watch e dal Freedom House. «Ridicolo» aveva definito il rapporto degli osservatori il parlamentare Sir Graham Watson, mentre il tedesco Werner Schulze constatava come un certo numero di membri del parlamento minasse la credibilità dell’Europa «nella sua lotta per i diritti umani».
Il 4 settembre del 2017 il The Guardian (articolo a firma di Caleiann, Barr e Negapetyants) approfondiva la questione e parlava di pagamenti effettuati a favore di diversi membri del Consiglio europeo, tra i quali il tedesco Eduard Lintner e l’italiano Luca Volonté, nel momento in cui l’Azerbaijan era sotto i riflettori per l’arresto di attivisti dei diritti umani e di giornalisti. Il The Guardian individuava un ramificato sistema di corruzione, con tanto di cifre, banche e società di comodo beneficiarie.
Le poche denunce, però, non scalfiscono il sistema, la servitù volontaria dei paesi europei, a cui mano a mano si piega anche l’informazione, da allora sembra essersi allargata e incrementata. C’era in prospettiva qualcosa di ancora più importante per cui ottenere il tacito consenso degli europei, la ripresa di una guerra, in grande stile. Da anni l’Azerbaijan si era preparato alla guerra d’aggressione contro il Nagorno Karabakh (Artsakh, per gli armeni) una regione abitata in maggioranza da armeni, contesa tra Armenia e Azerbaijan da decenni, che ha richiesto legittimamente l’indipendenza e il riconoscimento come repubblica autonoma fin dal 1991, senza però ottenerlo fino a ora. Naturalmente l’Armenia si sarebbe schierata in difesa dell’Artsakh, nella speranza non immotivata di avere il sostegno delle democrazie occidentali. Vana illusione in realtà (il minimo che si possa dire è che la diplomazia armena sia stata ingenua) in un mondo che persegue innanzi tutto il culto di Mammona, e l’Armenia è un paese piccolo e povero, con poco o niente da offrire in termini di risorse materiali. All’Azerbaijan serviva invece un cambio di passo, un’esposizione maggiore.
Ero in Armenia il 30 luglio del 2018, quando Sergio Mattarella, la prima volta per un presidente italiano, s’incontrava a Yerevan con il suo omologo nominato in quell’anno, Armen Sarkissian. L’Italia, almeno così sembrava, accorreva a manifestare la propria amicizia e solidarietà per una democrazia pienamente sbocciata, in seguito alla rivoluzione di velluto guidata da Nikol Pashinyan.
In conferenza stampa Mattarella esprimeva il suo desiderio di compiere quella visita «in virtù dei legami antichissimi che vi sono tra i nostri popoli». Accennava poi al comune impegno per la pace in Libano e in Afganistan, degli intensi rapporti di cooperazione culturale e del contributo all’Italia della diaspora armena. Non ricordo se Mattarella nominasse il fatto rilevante che l’Italia è il secondo più importante partner commerciale dell’Armenia. Dalla musica alla rubinetteria gli armeni amano tutto quello che è di produzione italiana, cosa che, dispiace dirlo, contribuisce a mortificare la manifattura e l’ottimo artigianato locale. Poi, naturalmente, la questione Nagorno Karabakh, la parte più opaca del discorso, che si riassumeva nella volontà di trovare una soluzione politica e non militare al conflitto.
Lo slancio finale non lasciava dubbi sull’impegno assunto dal nostro paese: «L’Armenia potrà sempre contare sul sostegno e la sincera amicizia dell’Italia». Sembrava davvero un discorso sincero e appassionato, e forse lo era. Prima di approdare in Armenia, però, Mattarella era stato in Azerbaijan, e lì, il 18 luglio, aveva fatto lo stesso discorso, ma con più sorrisi, più superlativi, e un particolare entusiasmo sulle relazioni economiche, il petrolio, il progetto della TAP (Trans-Adriatic Pipeline) sul gasdotto. Poi il solito discorso opaco sul Nagorno Karabach.
Spostiamoci al 20 febbraio del 2020. Mattarella ricambia l’ospitalità e accoglie in Italia il Presidente Aliyev. Fa gli onori di casa con amichevole riguardo, e tocca di seguito al presidente azero replicare con le cortesie d’etichetta. Poi però Aliyev s’irrigidisce, assume l’atteggiamento intransigente da despota e ricorda le donazioni che ha fatto all’Italia (un milione di euro per gli scavi archeologici sotto la via Alessandrina di Roma), le fornitura di petrolio di cui il nostro paese è il maggiore importatore e il progetto della TAP. Il tono suona stranamente ricattatorio. Alla luce di poi, sembra richiedere, in cambio di ciò che ha fatto per l’Italia e per l’Europa, una tacito consenso per la guerra che di lì a qualche mese avrebbe scatenato. Ci riuscirà. È il trionfo della Caviar diplomacy, al momento opportuno l’Italia e l’Europa assisteranno in silenzio al massacro di migliaia di giovani armeni.
L’epilogo è tragico e farsesco. L’Azerbaijan, com’era prevedibile, ha vinto la guerra, ottenendo in questo modo forse il suo vero obiettivo, quello di mettere a tacere il dissenso interno che aveva cominciato a farsi sentire prima del conflitto. Perché, lo sappiamo, la guerra ha il potere di unificare gli animi intorno a un ottuso patriottismo di fronte al nemico. E quando si vince, chi si azzarda a criticare! Si va tutti a festeggiare. E a festeggiare arriva anche una delegazione italiana. Ed eccola lì, in fila, a favore del fotografo, ai lati del tiranno Aliyev svettante sugli altri.
Ci sono tutti, la rappresenta politica al completo, da destra a sinistra. Com’è possibile? Chi li ha trascinati fin lì, miracolosamente di comune accordo, a fare festa intorno a un grottesco despota, che ha appena finito di massacrare i suoi vicini? Chi ha autorizzato Ettore Rosato (Italia Viva), Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), Pino Cabras (5 Stelle). Gianluca Ferrara (5 Stelle), Maria Rizzotti (Forza Italia), Alessandro Alfieri (PD), Rossana Boldi (Lega), a omaggiare un tiranno in nome del nostro Paese?
Niente di cui meravigliarsi in realtà, c’eravamo già incatenati a questo autocrate caucasico durante il governo di Matteo Renzi, quando furono firmati accordi di partenariato praticamente su tutti i settori, dall’economia alla cultura, e c’erano anche gli “Amici dell’Azerbaijan”, guidati dal senatore leghista Sergio Divina, a fare da sostegno. A niente era servito il richiamo di Amnesty International sulla violazione sistematica dei diritti umani di questo nostro nuovo alleato. «Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno», scriveva La Boétie.
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