LA DIPLOMAZIA DEL BENE: LA STORIA SCONOSCIUTA DI UN GIUSTO NEL GRANDE GIOCO DELL’OTTOCENTO (Gariwo 31.03.22)
Dal passato al presente per prevenire i genocidi e le atrocità di massa
Il diplomatico non sempre si riduce ad un semplice messaggero. Quanto bisogno avremmo dell’attivismo instancabile dei “Diplomatici di Coscienza”, come li ha definiti lo storico turco Taner Akçam, in un presente dove le atrocità di massa sono visibili nei paesi della catena della terza guerra mondiale “a pezzi” di cui parla papa Francesco. Guerre che rischiano di farci fermare attoniti alle emozioni delle immagini, senza il passaggio a un sentire che colga la gravità di quel che accade e apra alla riflessione sul che fare.
Nel Giardino dei Giusti del Monte Stella, a Milano, celebrando il decimo anniversario della Giornata europea dei Giusti, il 3 marzo del 2022, questo annus horribils nel quale non cessa l’urlo delle sirene e lo scoppio delle bombe, sono state poste, tra le altre, le targhe a due diplomatici, Henry Morgenthau, Ambasciatore degli Stati Uniti a Costantinopoli che ha salvato e soccorso gli armeni nel 1915, e Aristides de Sousa Mendes, console portoghese che salvò gli ebrei in fuga dalla Francia occupata dai nazisti. Targhe non lontane dai cippi dedicati negli anni passati ai diplomatici Enrico Calamai, Pierantonio Costa, Ho Feng Shan, Guelfo Zamboni e Giacomo Gorrini, console a Trebisonda che per primo ha svelato al mondo lo sterminio degli armeni. La loro memoria è viva nei discendenti delle generazioni dei salvati, ma anche nella memoria di coloro che oggi, conoscendo le loro storie, sentono l’appartenenza di queste figure all’Umanità intera, come lo sono del resto gli altri Giusti che onoriamo nei Giardini di tutto il mondo.
Sono numerosi i diplomatici che hanno profuso le loro energie nei momenti del male estremo e Gariwo nel suo cammino ha voluto creare uno spazio dedicato alla Diplomazia del bene, anticipando un tema che, come tanti altri messi a fuoco nella ricerca dei Giusti, si rivela cruciale nel corso della storia.
La celebrazione dei nuovi Giusti di quest’anno è stata dedicata al tema della prevenzione dei genocidi e delle atrocità di massa. La Diplomazia etica vince il silenzio, combatte l’indifferenza, profonde le sue energie per prevenire, impedire, fermare, e infine attenuare le conseguenze del male estremo, il crimine che il grande ebreo polacco Raphael Lemkin, analizzando lo sterminio degli armeni emerso dal processo di Berlino a Soghomon Tehlirian, e il piano di sterminio degli ebrei di tutto il mondo di Hitler, ha definito genocidio, creando un termine che, come sottolinea Gabriele Nissim, doveva diventare un deterrente giuridico e morale per un crimine che colpisce non una comunità, ma il mondo intero (v. Auschwitz non finisce mai, p. 133).
Abbiamo onorato In Italia e all’estero diplomatici, consoli, ambasciatori di tutti i continenti e alti rappresentanti degli organismi internazionali, la Società delle Nazioni e l’ONU, con le grandi figure di Fridtjof Nansen, Alto Commissario per i Rifugiati che creò un passaporto per i profughi apolidi, e del Segretario generale Dag Hammarskjold che ha cercato di fermare la guerra in Congo, alla ricerca di una “Nuova Umanità”.
Persone che si sono poste al servizio del bene collettivo, hanno rischiato la libertà e la vita per far prevalere il diritto sulla forza. Non si sono immersi nel fiume delle carte burocratiche che scorrono copiose sulle scrivanie dei diplomatici. Hanno percorso le strade, hanno guardato e hanno visto con i loro occhi le sofferenze e l’orrore in atto. Le loro scrivanie si sono riempite di passaporti da firmare, di salvacondotti da stilare, di lettere di supplica, mentre all’esterno volti angosciati chiedevano rifugio. I Diplomatici di Coscienza aprivano le porte delle ambasciate, dei consolati e delle residenze private, correndo gravi rischi. Attività frenetiche per soccorrere, accogliere, accompagnare ai confini e anche per far sapere al mondo le tragedie in atto, per testimoniare la verità. E oggi tante ambasciate hanno aperto i loro Giardini per onorare i Giusti dell’Umanità, condividendo il percorso avviato da Gariwo.
Nei vari frangenti della storia l’attivismo instancabile e creativo dei diplomatici ha lasciato tracce indelebili e per questo ricerchiamo le loro biografie e raccontiamo le loro storie. Nel gioco delle relazioni internazionali e della geopolitica si possono ritrovare figure esemplari poco conosciute di Diplomatici di coscienza come quella dell’Ambasciatore russo Alexsandr Griboedov, che si è trovato a operare nel Grande Gioco che ha impegnato gli inglesi e i russi per gran parte dell’Ottocento in Afghanistan, in Iran e nell’Asia Centrale.
Il Grande Gioco (The Great Game) detto anche Torneo delle ombre per il coinvolgimento dei servizi segreti di varie nazioni, inizia nel XVIII secolo ma trova i suoi momenti più significativi nell’Ottocento. Una competizione fra Russia e Gran Bretagna, in cui entreranno anche la Persia e l’lmpero ottomano, per il predominio politico del territorio che si estende dal Caucaso alla Cina: premio finale il controllo dell’Asia Centrale, fonte di immense ricchezze e possibilità di commerci. Teatro principale l’Afghanistan e i suoi invincibili guerrieri, via obbligata per le Indie britanniche. Il Grande Gioco durerà più di 100 anni.
Nel Grande Gioco sono stati coinvolti personaggi famosi, molti dei quali hanno scritto le loro memorie. Tra di loro spiccano le figure di militari inglesi: il tenente Alexander Burnes, vittima dell’odio di una folla inferocita sobillata dai mullah che chiedevano la cacciata degli inglesi da Kabul, Eldred Pottinger, L’eroe di Herat, Henry Rawlinson che è stato anche presidente della Royal Geographical Society, Arthur Conolly, uno dei protagonisti del Grande Gioco giustiziato barbaramente dall’emiro di Buchara, Charles Masson, appassionato studioso di storia dell’Asia, grande viaggiatore che aveva acquisito conoscenze eccezionali dell’Asia Centrale e tanti altri, ufficialmente “militari in licenza di caccia”. Fra i russi Jan Vitkevic, l’aristocratico capitano lituano che pur avendo reso un grande servizio alla Russia al suo ritorno in patria fu ignorato e morì suicida a Pietroburgo, Nikolaj Murav’ev, il coraggioso capitano che ha attraversato l’insidioso deserto del Karakum per raggiungere Chiva, senza riuscire a liberare i prigionieri russi ridotti in schiavitù e infine Alexandr Griboedov, drammaturgo, poeta compositore e diplomatico. Oltre ai militari coraggiosi c’erano intellettuali carichi di desiderio di conoscenza, esploratori, spie, cartografi, rimestatori di alleanze, interpreti poliglotti, audaci fomentatori di intrighi, e audaci tessitori di alleanze che penetravano in territori fino ad allora inesplorati, per preparare interventi militari, accordi commerciali, occupazioni. Il libro di Peter Hopkirk, Il grande Gioco, edito da Adelphi nel 2004, definito da Umberto Eco “una delle letture più appassionanti”, ci fornisce una documentazione mirabile ed esaustiva della diplomazia imperialista dell’Ottocento.
All’epoca vi erano fiorenti comunità armene diasporiche in India, a Madras e a Calcutta, e in Persia, a Isfahan e a Tabriz. Armeni poliglotti che fornivano interpreti agli inglesi e ricchi commercianti che prestavano denaro agli Shāh. Anche gli armeni hanno partecipato e subìto conseguenze derivate dal Grande Gioco. All’inizio dell’Ottocento gli armeni erano sudditi ottomani ad ovest del fiume Arax e sudditi persiani a est. La Persarmenia comprendeva i khanati di Yerevan, Gangja e Nakhicevan e i melikati del Karabagh. Nel 1825 il generale Aleksej Ermolov governatore del Caucaso era entrato in conflitto con la Persia per un territorio conteso a nord di Erevan. Lo Shāh Abbas Mirza scatenò la “guerra santa contro gli infedeli” varcando i confini della Russia, massacrando e facendo prigioniero un intero reggimento. Ben presto i russi si riorganizzarono e rovesciarono le sorti del conflitto riconquistando Erevan e spingendosi a sud. Nel 1828 lo Shāh di Persia, alleato alla Gran Bretagna, chiese aiuto contro la Russia, ma gli inglesi giudicarono che non fosse il momento adatto e l’influenza britannica in Persia ebbe fine, sostituita prontamente da quella russa.
Lo Zar Nicola I, principale protagonista del Grande Gioco, inviò i suoi ambasciatori e i suoi consoli ovunque nel nuovo protettorato persiano, senza dimenticare i privilegi che poteva ricavare per i suoi mercanti. Nell’inverno del 1828 giunse a Teheran il nuovo Ambasciatore russo Alexsandr Griboedov, ricevuto in pompa magna nonostante lo Shāh nutrisse profonda ostilità per lo Zar. Era stato Griboedov celebre letterato di tendenze liberali, già segretario del generale Ermolov, a negoziare le condizioni della resa persiana, e a ricevere il pagamento dell’indennità di guerra. Era arrivato a Teheran nelle giornate sciite del Muharram quando i devoti musulmani fanatici si feriscono con le spade per espiare i dolori del loro fondatore Alì e si cospargono il capo con le braci, urlando contro gli infedeli. L’odio per i russi era al massimo livello. In base al trattato di Turkmenchay fra persiani e russi gli armeni residenti in Persia potevano tornare nella loro patria, protetta dai russi cristiani ortodossi. Anche un eunuco armeno dell’harem dello Shāh e due giovani armene dell’harem del genero dello Shāh cercarono di tornare in Armenia. Chiesero asilo all’Ambasciata russa e Alexandr Griboedov li ospitò in attesa dei documenti per il rimpatrio. Lo Shāh, contravvenendo al trattato, e pressato dai religiosi e dall’ala fanatica dei suoi sudditi, chiese la restituzione dei tre schiavi armeni, ma l’Ambasciatore rifiutò di consegnarglieli dichiarando che solo il ministro degli esteri russo Nessel’rode poteva autorizzare eccezioni al trattato. L’Ambasciatore sapeva che cosa sarebbe accaduto agli schiavi armeni se li avesse riconsegnati allo Shāh. I sudditi musulmani, offesi per l’onta subita dal loro sovrano, chiusero i bazar, si radunarono nelle moschee e marciarono contro l’ambasciata russa (episodio che si ripeterà più di centocinquant’ anni dopo contro l’Ambasciata degli Stati Uniti a Teheran). Il corpo di guardia cosacco cercò di resistere all’attacco della folla inferocita incitata dai mullah, ma fu sopraffatto. Il primo a venire massacrato fu l’eunuco armeno. Gli assalitori penetrarono dal tetto nell’ufficio dell’Ambasciatore. Griboedov, impugnata la spada, cercava di proteggere le due giovani armene. Fu massacrato e il suo corpo gettato dalla finestra, sulla postazione di un venditore di kebab che gli staccò la testa esibendola sul suo banco, dopo avergli posto gli occhiali sul naso. Il corpo finì fra i rifiuti, in seguito identificato per un mignolo deforme. Delle giovani non si seppe più nulla. Nessuno era stato inviato a proteggere l’Ambasciatore, ucciso in un contesto di selvaggia disumanità.
Alexsandr Griboedov ha sacrificato la sua vita per salvare tre armeni innocenti. Poco tempo dopo il suo grande amico, il poeta Aleksandr Puskin, con cui Griboedov condivideva le idee liberali, una formazione illuministica e il progetto di introdurre nella cultura russa nuove tendenze letterarie e politiche, incontrò nel Caucaso alcuni uomini che conducevano un carro proveniente dalla Persia e diretto a Tiflis. Il carro trasportava i resti di Alexandr Griboedov. Fu sepolto nel monastero di San David su una collina sopra Tiflis, l’odierna Tibilisi, in Georgia. Un nipote dello Shāh fu inviato a Pietroburgo per porgere allo zar Nicola le scuse dello zio, offrendo la sua vita in cambio. L’efferatezza dell’atto compiuto contro un Ambasciatore che, incurante dell’estremo pericolo cercava di proteggere degli indifesi e far valere il diritto sulla violenza tribale di una massa carica di odio, era una pagina oscura da cancellare anche per lo Shāh. Lo zar Nicola non accettò un atto di riparazione che si fondava sulla primitiva e tribale “vendetta del sangue”. Si limitò a chiedere che i responsabili venissero puniti. Non ignorava, oltretutto, che i persiani avrebbero potuto allearsi con i turchi suoi rivali nell’area. Aleggiava anche l’ipotesi che l’assassinio dell’Ambasciatore Griboedov fosse stato concepito da agenti turchi del sultano ottomano che voleva riaccendere la guerra russo-persiana per indebolire l’avanzata dello zar nei territori ottomani, obiettivo raggiunto da Nicola I con la cacciata dei turchi dal Caucaso. Sarà poi lo zar Nicola II ad assicurare all’Impero le ricche province abitate dagli armeni di Erevan, Nakhicevan, Karabagh e Gangja formando la Armenskaja Oblast, la Provincia armena zarista che diventerà indipendente dal 1918 al 1920 e che farà poi parte dell’Unione Sovietica per non subire l’ultimo atto genocidario dalla Turchia, fino al 1991, quando ritornerà indipendente.
È mia intenzione prelevare un pugno di terra della tomba dell’Ambasciatore Alexandr Griboedov, un Giusto per gli armeni, e tumularla nel Giardino dei Giusti di Gyumri, in Armenia, compito al quale mi dedico da anni. Riaccendere la memoria su un atto giusto dettato dalla voce della coscienza e dal coraggio di vivere eticamente il ruolo di diplomatico, fa parte dell’impegno assunto da Gariwo di prevenire i genocidi e le atrocità di massa. Una pagina poco nota della storia dell’Ottocento rivela quali costi l’umanità ha pagato per far emergere la luce del diritto dal buio della sopraffazione e della violenza nelle relazioni umane e nel rapporto tra gli Stati.
Dedico queste mie riflessioni a Zakia Seddiki, moglie dell’Ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica del Congo, ucciso a Goma il 22 febbraio del 2021, che ha condiviso sino in fondo la scelta del marito di vivere la vita diplomatica come missione umanitaria. “Sognare una realtà più bella. Insieme è possibile”, è il motto dell’Associazione benefica Mama Sofia da lei fondata nel 2017 che soccorre in Congo i bambini di strada e che continua ad esistere, nonostante la tragedia che si è abbattuta sulla sua esistenza. Non posso dimenticare le parole cariche di dolore e commozione di Zakia Seddiki davanti alla stele dedicata all’Ambasciatore Attanasio nel Giardino dei Giusti della Valle dei Templi di Agrigento il 26 novembre 2021: Nessuno deve levarci l’umanità. L’amore è il grande senso della vita e ci mostra che dobbiamo vivere in pace e per la Pace. Parole profetiche per questi tempi di guerra.
Nell’Ambasciatore Attanasio viveva il progetto e il tentativo di rendere il mondo migliore con la forza del diritto e della giustizia. In Congo aveva toccato con mano, come sessant’anni prima il Segretario dell’ONU Dag Hammarskjold, la crisi umanitaria di un paese ferito dalla guerra, dove la fame è radicata, la violenza diffusa, la povertà endemica. Aveva ben chiaro come vivere il suo ruolo di Diplomatico. Zakia Seddiki ha raccolto il suo progetto e cerca di portarlo avanti pur tra infinite difficoltà.