La comunità armena di Trieste: «Qui siamo rimasti in dieci famiglie. Le nostre radici vanno tutelate» (Il Piccolo 15.12.24)
La storia della comunità armena disegna un itinerario di inestimabile valore nel centro di Trieste. La chiesa di via Giustinelli è solo la testimonianza più vistosa: dal colle di San Vito, primo e più importante insediamento, fino a corso Italia e via Muratti, di esempi ce ne sono tantissimi e ciascuno di essi è collegato a suo modo al passato della città.
Il comitato Ararats, fondato nel 2016 proprio per valorizzare la storia peculiare degli armeni-triestini rispetto al resto della Penisola, organizza ciclicamente questo piccolo tour tra le vie del centro città, collaborando con altri enti e associazioni locali. «Oggi la comunità armena è formata da una decina di famiglie», racconta la vicepresidente del comitato Adriana Hovhannessian. Dopo la pandemia, il lavoro di chi collabora con Hovhannessian si è fatto più complicato: «I membri attivi sono pochi e non abbiamo una sede. Però, per essere così pochi, il lavoro fatto è più che soddisfacente».
Seguiamo il percorso che Ararats ha ideato per illustrare il passato della comunità armena a Trieste. «Si parte da San Giusto – continua Hovhannessian – dove si trova una lapide che attesta la presenza di un vescovo armeno in città nel Settecento». Da qui il pretesto con cui ripercorrere le origini della comunità nel territorio giuliano, che alla fine del Settecento contava 550 persone. Sono due le spinte che hanno portato molte famiglie a cercare fortuna a Trieste: da un lato c’entra il fattore religioso, legato ai movimenti dei padri mechitaristi, dall’altro quello commerciale, vista la nota attrazione del porto franco.
Da San Giusto si scende in direzione di via Ciamician, uno dei più illustri rappresentanti della storia armena triestina. L’itinerario si perde così tra le strade del colle di San Vito, molte delle quali recano cognomi armeni: dai più noti come Ananian ai meno scontati come Hermet. Si passa davanti ai più celebri palazzi, si respira più in generale un’atmosfera comune, le cui tracce sono recate dall’architettura e da un medesimo “tocco” artistico-culturale.
Una delle ultime tappe è corso Italia, davanti al palazzo ora sede dell’hotel Modernist che rientra nell’enorme eredità immobiliare di Gregorio Ananian. Il giro si conclude al laboratorio di ottica Zingirian in via Muratti, all’interno del quale è ancora presente un quadro che riporta il Padre nostro in lingua armena.
Alla luce di uno spaccato così ricco di suggestioni, non possono che sorgere alcune domande. Benché così prolifica per la storia di Trieste, la comunità armena appare oggi ancora poco conosciuta, come fosse rimasta in secondo piano rispetto ad altre minoranze. Certo un ruolo l’hanno giocato i numeri esigui delle famiglie rimaste di cui si diceva all’inizio. Eppure i numeri non danno una risposta esaustiva. «Rispetto ad altre culture come quella ebraica – riflette Hovhannessian – gli armeni hanno una facilità di integrazione maggiore con la comunità d’arrivo». Il che ha anche riflessi concreti, dato ad esempio dal fatto che essi non sono tenuti al rispetto dell’endogamia. Se la «facilità di integrazione» ha fatto la fortuna di molti cittadini armeni, al contempo ha acuito il rischio di dispersione delle radici nazionali. «A Trieste – confessa Hovhannessian – sono l’unica che sa ancora parlare la lingua armena». —