Intervista di Rebecca Mais a Matteo Nunner e al suo “Il peccato armeno, ovvero la binarietà del male” (Oubliettemagazine
Questa è la storia di Claude- Henri, armeno, alle prese con la vita in tutte le sue complicazioni e con le avvisaglie di quello che sarà uno dei più terribili genocidi della storia dell’umanità.
Il terribile delitto ancora oggi incomprensibile ma comunque da taluni negato. Claude-Henri è un personaggio molto particolare, la realtà passa tramite i suoi occhi, così come le descrizioni di coloro che incontra lungo la perigliosa strada. Un romanzo di formazione che fuoriesce dai classici schemi.
Proprio come il suo autore, Matteo Nunner, piemontese classe 1992, già autore del cult “Qui non arriva la pioggia” (Edizioni della Goccia, 2015), eclettico, appassionato, impegnato nell’area di ricerca medica narrativa e fondatore di una propria testata online dopo aver collaborato con le più importanti realtà giornalistiche della sua regione.
“Il peccato armeno, ovvero la binarietà del male” (Undici Edizioni, 2017) è il suo secondo romanzo, quello nel quale ha potuto esprimere la banalità e le contraddizioni del mondo in cui viviamo.
Ma per capire meglio come questo romanzo è nato e cosa è stato di ispirazione per Matteo Nunner abbiamo pensato di intervistarlo. Sono certa che le sue risposte vi colpiranno e noterete certamente la passione per la scrittura di questo giovane autore.
R.M.: Quando e come è nato “Il peccato armeno, ovvero la binarietà del male”?
Matteo Nunner: “Il peccato armeno”, così come “Qui non arriva la pioggia”, mio primo romanzo pubblicato nel 2015, nasce inaspettatamente da fulminei quanto intensi attimi di banale quotidianità. Se non sbaglio, in questo caso, mi trovavo a notte inoltrata in un autogrill di provincia. Il fatto è che per quanto concerne la magica sfera della scrittura, e quella della sua genesi, mi capita sovente di vivere esperienze del genere, in cui hai come l’impressione di rivestire solamente il ruolo di un tramite. Una giuntura inerte tra un mondo delle idee là in alto e quello di chi vorrà fruirne quaggiù. L’idea arriva repentinamente e non se ne va più, accompagnata sin da subito dalla certezza che diverrà qualcosa di concreto e importante. Ѐ quasi un dovere morale non lasciarla andare, non tradire questa missione affidata all’autore. Ladri di fuoco, come Prometeo, diceva Rimbaud. Una volta caduta dal cielo questa scintilla primigenia, questo nucleo centrale della trama, tutto è facile e in discesa: un continuo gioco di ampliamento delle ramificazioni e rifinitura dei dettagli, che si protrarrà sino al compimento dell’ultimo capitolo.
R.M.: Protagonista del romanzo è il terribile genocidio armeno, oggi ancora tanto, ma forse non abbastanza, dibattuto. Per quale motivo hai decise di trattare questo argomento?
Matteo Nunner: Forse decisi di aggrapparmi a questa tematica appunto perché ancora non abbastanza dibattuta, non abbastanza conosciuta. Ancora oggi da più “autorevoli” e istituzionali parti addirittura negata. Una situazione impensabile se paragonata e sovrapposta ad altre disgrazie storiche affini. Inoltre ho trovato estremamente calzante per i miei personaggi lo spirito di questo popolo vessato da secoli: appunto perché metafora lampante di tutti i vinti e degli oppressi, prototipo ideale dei dimenticati dal mondo e dalla storia stessa. In ogni caso “Il peccato armeno” non ha la presunzione d’essere un romanzo storico, non ho mai avuto questa velleità nemmeno in partenza: il fatto è che, a mio avviso, questa storia potrebbe benissimo essere adattata in qualsiasi epoca o luogo. Gli eventi storici sono solo un collante, uno sfondo teatrale o, come già accennato, una metafora.
R.M.: Il titolo gioca con il titolo di un noto saggio di Hannah Arendt, “La banalità del male”. Quale collegamento vi è con la Arendt?
Matteo Nunner: Il collegamento con la Arendt in realtà è più che altro superficiale, rimane per l’appunto ancora al solo sottotitolo dell’opera, che ho trovato sin dalla famosa “illuminazione” del primo minuto molto divertente e azzeccato. Traspare di sicuro il medesimo senso di spiazzante banalità espresso da parte della Arendt nei confronti degli “attori del male”, spesso idealizzati e mitizzati ma in realtà nient’altro che umani. Binarietà si riferisce invece nella mia opera all’ossessione d Claude-Henri per il dualismo, per la scelta manicheista fra bianco e nero, nell’osservare il mondo attraverso questa lente sdoppiante. Non gli poteva esser diagnosticato all’epoca, ma ho cercato forse di affidargli qualche leggerissima sfumatura di quello che oggi potrebbe chiamarsi Asperger o autismo o attitudine ossessivo-compulsiva. A posteriori, una volta che il libro era già stato pubblicato, mi sono poi avvicinato ad alcuni saggi di orientalistica e sono rimasto molto colpito dalla transculturalità di questa tematica: dal taoismo sino alle scuole zen, ad esempio, quest’atteggiamento così umano di scindere il mondo positivo e negativo, in soggetto e oggetto, in caldo o freddo, è spesso stato visto come zavorra alla serenità e ad una visione limpida del mondo reale. Claude-Henri porta allo stremo questo atteggiamento, soffrendone e cercando nel corso delle pagine di liberarsene.
R.M.: Un aggettivo per descrivere “Il peccato armeno, ovvero la binarietà del male”?
Matteo Nunner: Forse “sofferto”. Ma non necessariamente in un’accezione negativa. Ѐ vero che mi ci è voluto molto per completarlo, che a volte l’abbia percepito estraneo e non adatto alle mie corde, che la sua stesura ha attraverso alcuni dei momenti di crisi più gravosi della mia vita, ma appunto per queste ragioni ora la gioia e la soddisfazione sono tanto più grandi e palpabili.
R.M.: Chi vorresti leggesse il tuo libro e per quale motivo?
Matteo Nunner: Gli armeni, in particolare i membri dell’associazione Italiarmenia che mi hanno aiutato sul versante linguistico, perché mi dicano se ho fatto un buon lavoro. Mia nonna perché non c’è più. Gli oppressi di tutto il mondo, a cui il testo è dedicato, perché se potesse scaldare anche soltanto un animo intorpidito sarebbe già un’opera di successo per me, una “sofferenza” assolutamente ripagata.
R.M.: Come è avvenuto l’incontro con Giuseppe Celestino e Maurizio Roccato della Undici Edizioni?
Matteo Nunner: Con i miei due nuovi e brillanti autori s’è instaurato innanzitutto d’ogni altra cosa un grande rapporto d’amicizia e stima, prima ancora che un rapporto lavorativo o artistico. Siamo vicini, anche all’infuori dell’ambito editoriale e letterario, ormai da alcuni anni. Hanno sempre creduto in me e per questo gli sono molto grato. I nostri cammini si sono incrociati grazie alla casa editrice di “Qui non arriva la pioggia”, Edizioni della Goccia, attorno alla quale entrambi erano in qualche modo legati.
R.M.: Quando e come hai cominciato a scrivere?
Matteo Nunner: Questa è una delle storielle che più amo raccontare. Esordisco spesso con un “io scrivevo prima di saper scrivere”. Di fatti il mio nonno materno, col quale passai gran parte dell’infanzia, mi affiancava sin dai primissimi anni della mia vita nell’operazione creativa: senza saper né leggere né scrivere, dettavo a lui le avventure e le storie che inventavo sul momento, lui le scriveva per me su dei grossi fogli di cartone che poi rilegavamo, creando così dei veri e propri libri. Infine io decoravo il tutto aggiungendo disegni rappresentativi del racconto sotto ogni testo.
R.M.: Quali sono i tuoi generi e autori preferiti?
Matteo Nunner: Non credo di aver un vero e proprio genere preferito, come mi accade per molti altri settori dell’arte, come la musica o la pittura. Certamente un denominatore comune degli autori che prediligo è l’esser passati a miglior vita: questo perché amo in particolar modo i classici, ed è più raro che legga qualche mio contemporaneo. Anche quest’ultima eventualità non è comunque così remota: ritengo che lo scrittore si plasmi attraverso le sue letture, che sia spugna e filtro di ogni parola e stile, che farà poi sue in un proprio personalissimo miscuglio. Proprio per questo potrebbe essere dannoso ancorarsi troppo al passato letterario. Tra gli autori preferiti emerge però senza dubbio Mordecai Richler e ultimamente le letture vertono spesso su esponenti dell’esistenzialismo: russo, francese e italiano.
R.M.: Progetti per il futuro? Hai forse in cantiere qualche nuova storia?
Matteo Nunner: La scrittura per me è tra le prime delle priorità, non potrei quindi mai pensare di fermarmi. Poco dopo aver posto la parola “fine” al “Peccato armeno” sono stato fortunatamente investito di nuovo dall’influsso di qualche musa della creatività, riuscendo a strappare a quel mondo distante, astratto ed etereo una nuova storia da raccontare. Mantengo però un gran riservo geloso, persino con le persone a me più care, per tutto il periodo della gestazione di un’opera. Alla fine le si ama come figlie e figli.
R.M.: Grazie Matteo per la tua disponibilità e… alla prossima!