Intervista con il premier armeno: «Aiutare i siriani che soffrono è per noi un dovere morale» (Cds 24.11.19)

Il premier Nikol Pashinyan al Corriere su medici e sminatori mandati nella Siria in guerra: «I suoi abitanti salvarono persone dell’Armenia durante il genocidio compiuto dall’Impero Ottomano» – Sull’Italia che ha tra i primi fornitori di energia l’Azerbaijan, nemico nel conflitto per il Nagorno-Karabakh: « Presto il vostro primo fornitore sarà il sole»
Se le frontiere tra Armenia e Turchia fossero aperte e voi armeni poteste attraversare il territorio turco, il suo Paese disterebbe dalla Siria mezza giornata di auto. Che cos’è per voi adesso la Siria?

«Una terra da aiutare. Per noi è innanzitutto una questione di aiuti umanitari. Il nostro Paese all’inizio dell’anno ha mandato lì una missione apposita: personale sanitario, sminatori civili».

Quella in Siria è una delle comunità importanti della vostra diaspora, formata in totale nel mondo da circa nove milioni di persone. Quanti profughi siriani hanno trovato rifugio da voi?

«Ventimila. E siamo tre milioni di abitanti. Assistere i rifugiati siriani per noi è una sorta di missione morale».

Risponde così Nikol Pashinyan, primo ministro di Armenia, quando si parla di una delle guerre più lunghe di questo secolo, quella cominciata nel 2011 come rivolta popolare contro il regime del raìs di Damasco Bashar el Assad, diventata presto guerra civile e poi resa scontro internazionale tra Stati da interventi palesi o coperti di alcuni vicini e potenze lontane. Ex giornalista, 44 anni, attivo una decina di anni fa di campagne contro assetti politici armeni che gli sono costati quattro mesi di latitanza e undici di carcere, protagonista nel 2018 del terremoto elettorale chiamato a Erevan «rivoluzione di velluto» – espressione già impiegata per Praga nel 1989 – Pashinyan è stato ricevuto venerdì scorso dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ed è ripartito dopo una visita in Italia di tre giorni.

Il suo Paese ha una storia incastrata per molto tempo tra due imperi dissolti: la Turchia, dalla quale è stata sanguinosamente colpita nella fase finale dell’Impero Ottomano, e l’Unione Sovietica. Fu il frantumarsi del potere sovietico, di fatto imperiale anche se non si definiva così, a togliere il freno alla guerra tra Armenia e Azerbaijan, entrambe repubbliche dell’Urss, per il Nagorno-Karabakh, un’enclave a maggioranza armena oltre i confini azeri. Nessun risolutivo accordo di pace è ancora riuscito a spegnere del tutto questo conflitto. Nonostante la guerra, la vita di entrambi i Paesi ha anche una routine fatta di esportazioni, affari, diplomazia. E questi passano, tra l’altro, per l’Italia.

Può spiegare perché aiutare siriani è per gli armeni una sorta di missione morale?

«Ai tempi dell’Impero Ottomano il popolo siriano salvò tanti armeni dalle forze militari imperiali. Perciò in questi tempi nei quali i siriani soffrono noi non potremmo stare in disparte. Sono felice che possiamo onorare il nostro debito morale. Il nostro personale medico ha eseguito numerosi interventi chirurgici. Tante donne e tanti bambini siriani sono stati curati da medici armeni. A bambini siriani sono stati procurati spazi nei quali possano giocare in sicurezza».

Che cosa vi preoccupa di più adesso guardando verso la Siria?

«Siamo preoccupati dall’invasione turca. L’abbiamo condannata. Crediamo che la comunità internazionale debba intraprendere azioni affinché le forze turche oggi in Siria siano riportate indietro, in territorio turco».

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha riconosciuto che i massacri e le persecuzioni commesse dall’Impero Ottomano contro il vostro popolo costituirono un genocidio. Questo che cosa cambia per voi?

«È molto, molto importante. Contribuisce a prevenire possibili ulteriori genocidi. In più questo tipo di decisioni sta cambiando l’atmosfera nella nostra regione. Sono un messaggio: politiche altrettanto aggressive non sarebbero accettate dalla comunità internazionale. Più di un secolo dopo il genocidio la Turchia è percepita ancora dagli armeni come possibile minaccia per la nostra sicurezza. E da circa trenta anni il nostro confine è chiuso dalla parte turca, non dalla nostra. Dal lato armeno è aperto».

Riprenderebbe le relazioni diplomatiche con Ankara?

«Abbiamo detto e ripeto che siamo pronti a riallacciare relazioni diplomatiche con la Turchia senza alcuna precondizione. Non riteniamo il riconoscimento internazionale del genocidio armeno una precondizione per i nostri rapporti con la Turchia. Quello è un processo molto importante che conta non nei nostri rapporti con loro, ma, come dicevo, per una prevenzione globale dei genocidi».

Oggi nel mondo vediamo odio nei social network, episodi di antisemitismo in Francia e altrove, violenze e abusi contro cristiani in parti di Medio Oriente e Africa, casi di razzismo verso profughi e migranti. Dal punto di vista di chi governa un Paese che ha conosciuto un genocidio e ha una diaspora, c’è qualcosa della quale dovremmo essere consapevoli e che non consideriamo a sufficienza?

«Talvolta purtroppo distinguiamo le situazioni molto tardi, quando qualcosa è già andato fuori controllo. Esprimo la mia gratitudine alla Camera dei deputati italiana per aver riconosciuto il genocidio armeno come tale. Noi ci diamo da fare con i nostri partner stranieri per avere il più possibile di riconoscimenti del genere e per ottenerne a livello globale. Però risponderei alla sua domanda collegandola alla nostra situazione attuale. Lei cita l’antisemitismo in Francia e altrove: l’Europa adesso ne è consapevole. Ma nella nostra parte di mondo, per esempio in Azerbaijan, abbiamo un ampio fenomeno di armenofobia. I Paesi europei non ne sono abbastanza informati».

A che cosa si riferisce?

«Per esempio alla finale della Europe Ligue giocata nella primavera scorsa a Baku, capitale dell’Azerbaijan. L’ex giocatore dell’Arsenal, e oggi della Roma, Henrikh Mkhitaryan non poté partecipare. Perché? Perché il suo cognome armeno è un grosso problema in Azerbaijan. Tifosi europei che indossavano magliette dedicate a lui vennero fermati dalla polizia. Una settimana fa un autista, cittadino dell’Azerbaijan, è stato arrestato soltanto perché ascoltava una canzone di un musicista armeno. E l’anno scorso abbiamo avuto casi di cittadini americani, russi, turchi non autorizzati a entrare in Azerbaijan perché avevano cognomi che suonavano armeni. Come si collega questa situazione con la politica ufficiale del governo dell’Azerbaijan?».

L’Azerbaijan accusa voi di aggressione militare per il Nagorno-Karabakh e afferma che lei è particolarmente duro.

«Un ufficiale delle forze armate armene, Gurgen Margarian, venne ucciso a colpi di ascia da un ufficiale azero, Ramil Safarov, mentre stava dormendo. Entrambi erano a Budapest per un seminario della Nato. Fu nel 2004. Pochi anni dopo essere stato condannato all’ergastolo in Ungheria, l’ufficiale azero è stato estradato nel suo Paese. Nella sua patria è stato accolto come eroe nazionale, ha ricevuto la grazia dal presidente Ilham Aliyev, è stato promosso e gli è stato assicurato un appartamento a Baku».

Sulla storia e le sue conseguenze, anche terribili, le vostre valutazioni e quelle dell’Azerbaijan divergono. Da tanto tempo.

«Abbiamo un conflitto e andrebbe risolto. Quando diventai premier proposi una formula. Dissi che ogni soluzione doveva essere accettata dal popolo dell’Armenia, dal popolo del Nagorno-Karabakh e dal popolo dell’Azerbaijan. Sono stato l’unico leader armeno a pronunciarsi così. Ho avuto pesanti critiche nel mio Paese. Molti hanno detto: perché il leader armeno dovrebbe prendersi cura del popolo dell’Azerbaijan?»

La distanza fra le vostre posizioni mi ricorda una osservazione che ascoltai da Shimon Peres, ex presidente di Israele ed ex premier laburista: «L’errore compiuto spesso dalla gente è di credere che un processo di pace cominci come lieto fine. Parte invece da situazioni oscure». Con popoli che si combattono.

«Una soluzione può reggere se considera le tre parti in conflitto. Speravo che il presidente Aliev pronunciasse dichiarazioni analoghe alle mie. Aspetto da oltre un anno e non ne ho notizia. Ma se lo farà avremo un vero progresso nei negoziati. Spero che i partner europei e il gruppo di Minsk dei presidenti incoraggino Aliev ad accogliere questa formula: ogni soluzione del Nagorno-Karabakh dovrebbe essere accettata dai popoli di Armenia, Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Comprenderei che il presidente azero prima di tutti citasse il popolo azero. Andrebbe bene».

L’Azerbaijan è uno dei principali fornitori di energia per l’Italia. Costituisce un problema per le vostre relazioni con il nostro Paese?

«Abbiamo relazioni abbastanza buone e speriamo di renderle anche migliori. Ma direi che l’Azerbaijan non è un fornitore di energia. Lo è di petrolio e gas. Oggi il significato della parola “energia” sta cambiando molto rapidamente. Presto per l’Italia e dovunque il principale fornitore di energia sarà il sole. Dunque dobbiamo considerare i fatti e il futuro».

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Se le frontiere tra Armenia e Turchia fossero aperte e voi armeni poteste attraversare il territorio turco, il suo Paese disterebbe dalla Siria mezza giornata di auto. Che cos’è per voi adesso la Siria?

«Una terra da aiutare. Per noi è innanzitutto una questione di aiuti umanitari. Il nostro Paese all’inizio dell’anno ha mandato lì una missione apposita: personale sanitario, sminatori civili».

Quella in Siria è una delle comunità importanti della vostra diaspora, formata in totale nel mondo da circa nove milioni di persone. Quanti profughi siriani hanno trovato rifugio da voi?

«Ventimila. E siamo tre milioni di abitanti. Assistere i rifugiati siriani per noi è una sorta di missione morale».

Risponde così Nikol Pashinyan, primo ministro di Armenia, quando si parla di una delle guerre più lunghe di questo secolo, quella cominciata nel 2011 come rivolta popolare contro il regime del raìs di Damasco Bashar el Assad, diventata presto guerra civile e poi resa scontro internazionale tra Stati da interventi palesi o coperti di alcuni vicini e potenze lontane. Ex giornalista, 44 anni, attivo una decina di anni fa di campagne contro assetti politici armeni che gli sono costati quattro mesi di latitanza e undici di carcere, protagonista nel 2018 del terremoto elettorale chiamato a Erevan «rivoluzione di velluto» – espressione già impiegata per Praga nel 1989 – Pashinyan è stato ricevuto venerdì scorso dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ed è ripartito dopo una visita in Italia di tre giorni.

Il suo Paese ha una storia incastrata per molto tempo tra due imperi dissolti: la Turchia, dalla quale è stata sanguinosamente colpita nella fase finale dell’Impero Ottomano, e l’Unione Sovietica. Fu il frantumarsi del potere sovietico, di fatto imperiale anche se non si definiva così, a togliere il freno alla guerra tra Armenia e Azerbaijan, entrambe repubbliche dell’Urss, per il Nagorno-Karabakh, un’enclave a maggioranza armena oltre i confini azeri. Nessun risolutivo accordo di pace è ancora riuscito a spegnere del tutto questo conflitto. Nonostante la guerra, la vita di entrambi i Paesi ha anche una routine fatta di esportazioni, affari, diplomazia. E questi passano, tra l’altro, per l’Italia.

Può spiegare perché aiutare siriani è per gli armeni una sorta di missione morale?

«Ai tempi dell’Impero Ottomano il popolo siriano salvò tanti armeni dalle forze militari imperiali. Perciò in questi tempi nei quali i siriani soffrono noi non potremmo stare in disparte. Sono felice che possiamo onorare il nostro debito morale. Il nostro personale medico ha eseguito numerosi interventi chirurgici. Tante donne e tanti bambini siriani sono stati curati da medici armeni. A bambini siriani sono stati procurati spazi nei quali possano giocare in sicurezza».

Che cosa vi preoccupa di più adesso guardando verso la Siria?

«Siamo preoccupati dall’invasione turca. L’abbiamo condannata. Crediamo che la comunità internazionale debba intraprendere azioni affinché le forze turche oggi in Siria siano riportate indietro, in territorio turco».

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha riconosciuto che i massacri e le persecuzioni commesse dall’Impero Ottomano contro il vostro popolo costituirono un genocidio. Questo che cosa cambia per voi?

«È molto, molto importante. Contribuisce a prevenire possibili ulteriori genocidi. In più questo tipo di decisioni sta cambiando l’atmosfera nella nostra regione. Sono un messaggio: politiche altrettanto aggressive non sarebbero accettate dalla comunità internazionale. Più di un secolo dopo il genocidio la Turchia è percepita ancora dagli armeni come possibile minaccia per la nostra sicurezza. E da circa trenta anni il nostro confine è chiuso dalla parte turca, non dalla nostra. Dal lato armeno è aperto».

Riprenderebbe le relazioni diplomatiche con Ankara?

«Abbiamo detto e ripeto che siamo pronti a riallacciare relazioni diplomatiche con la Turchia senza alcuna precondizione. Non riteniamo il riconoscimento internazionale del genocidio armeno una precondizione per i nostri rapporti con la Turchia. Quello è un processo molto importante che conta non nei nostri rapporti con loro, ma, come dicevo, per una prevenzione globale dei genocidi».

Oggi nel mondo vediamo odio nei social network, episodi di antisemitismo in Francia e altrove, violenze e abusi contro cristiani in parti di Medio Oriente e Africa, casi di razzismo verso profughi e migranti. Dal punto di vista di chi governa un Paese che ha conosciuto un genocidio e ha una diaspora, c’è qualcosa della quale dovremmo essere consapevoli e che non consideriamo a sufficienza?

«Talvolta purtroppo distinguiamo le situazioni molto tardi, quando qualcosa è già andato fuori controllo. Esprimo la mia gratitudine alla Camera dei deputati italiana per aver riconosciuto il genocidio armeno come tale. Noi ci diamo da fare con i nostri partner stranieri per avere il più possibile di riconoscimenti del genere e per ottenerne a livello globale. Però risponderei alla sua domanda collegandola alla nostra situazione attuale. Lei cita l’antisemitismo in Francia e altrove: l’Europa adesso ne è consapevole. Ma nella nostra parte di mondo, per esempio in Azerbaijan, abbiamo un ampio fenomeno di armenofobia. I Paesi europei non ne sono abbastanza informati».

A che cosa si riferisce?

«Per esempio alla finale della Europe Ligue giocata nella primavera scorsa a Baku, capitale dell’Azerbaijan. L’ex giocatore dell’Arsenal, e oggi della Roma, Henrikh Mkhitaryan non poté partecipare. Perché? Perché il suo cognome armeno è un grosso problema in Azerbaijan. Tifosi europei che indossavano magliette dedicate a lui vennero fermati dalla polizia. Una settimana fa un autista, cittadino dell’Azerbaijan, è stato arrestato soltanto perché ascoltava una canzone di un musicista armeno. E l’anno scorso abbiamo avuto casi di cittadini americani, russi, turchi non autorizzati a entrare in Azerbaijan perché avevano cognomi che suonavano armeni. Come si collega questa situazione con la politica ufficiale del governo dell’Azerbaijan?».

L’Azerbaijan accusa voi di aggressione militare per il Nagorno-Karabakh e afferma che lei è particolarmente duro.

«Un ufficiale delle forze armate armene, Gurgen Margarian, venne ucciso a colpi di ascia da un ufficiale azero, Ramil Safarov, mentre stava dormendo. Entrambi erano a Budapest per un seminario della Nato. Fu nel 2004. Pochi anni dopo essere stato condannato all’ergastolo in Ungheria, l’ufficiale azero è stato estradato nel suo Paese. Nella sua patria è stato accolto come eroe nazionale, ha ricevuto la grazia dal presidente Ilham Aliyev, è stato promosso e gli è stato assicurato un appartamento a Baku».

Sulla storia e le sue conseguenze, anche terribili, le vostre valutazioni e quelle dell’Azerbaijan divergono. Da tanto tempo.

«Abbiamo un conflitto e andrebbe risolto. Quando diventai premier proposi una formula. Dissi che ogni soluzione doveva essere accettata dal popolo dell’Armenia, dal popolo del Nagorno-Karabakh e dal popolo dell’Azerbaijan. Sono stato l’unico leader armeno a pronunciarsi così. Ho avuto pesanti critiche nel mio Paese. Molti hanno detto: perché il leader armeno dovrebbe prendersi cura del popolo dell’Azerbaijan?»

La distanza fra le vostre posizioni mi ricorda una osservazione che ascoltai da Shimon Peres, ex presidente di Israele ed ex premier laburista: «L’errore compiuto spesso dalla gente è di credere che un processo di pace cominci come lieto fine. Parte invece da situazioni oscure». Con popoli che si combattono.

«Una soluzione può reggere se considera le tre parti in conflitto. Speravo che il presidente Aliev pronunciasse dichiarazioni analoghe alle mie. Aspetto da oltre un anno e non ne ho notizia. Ma se lo farà avremo un vero progresso nei negoziati. Spero che i partner europei e il gruppo di Minsk dei presidenti incoraggino Aliev ad accogliere questa formula: ogni soluzione del Nagorno-Karabakh dovrebbe essere accettata dai popoli di Armenia, Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Comprenderei che il presidente azero prima di tutti citasse il popolo azero. Andrebbe bene».

L’Azerbaijan è uno dei principali fornitori di energia per l’Italia. Costituisce un problema per le vostre relazioni con il nostro Paese?

«Abbiamo relazioni abbastanza buone e speriamo di renderle anche migliori. Ma direi che l’Azerbaijan non è un fornitore di energia. Lo è di petrolio e gas. Oggi il significato della parola “energia” sta cambiando molto rapidamente. Presto per l’Italia e dovunque il principale fornitore di energia sarà il sole. Dunque dobbiamo considerare i fatti e il futuro».