In Armenia cittadini e attivisti contro la miniera d’oro di Amulsar (Nuova ecologia 28.01.21)
Da anni intorno al sito minerario centinaia di persone si oppongono a uno scempio annunciato. In un clima di tensione lontano anni luce dalla rivolta di velluto del 2018
Dal mensile di dicembre 2020 – È il 27 agosto 2020. Nei giorni del controesodo estivo e delle prime avvisaglie della risalita dei contagi da Covid-19, arriva in redazione una segnalazione che a un primo sguardo potrebbe passare inosservata. L’email parla dell’aumento delle tensioni attorno alla miniera d’oro di Amulsar, situata in Armenia, circa 170 km a sud rispetto alla capitale Yerevan, nella regione di Vayots Dzor. Il mittente è Francesco Cara, rappresentante in Italia del Climate reality project, la rete di attivisti guidata da Al Gore. Intuiamo che c’è una storia su cui indagare, passata sottotraccia in Italia.
Francesco Cara conosce bene i contorni di questa annosa vertenza ambientalista e, soprattutto, può metterci in contatto con chi, sul posto, si batte per impedire la costruzione di una nuova miniera in Armenia. L’ennesima, considerato che nel Paese del Caucaso meridionale a oggi ve ne sono 630, altamente inquinanti, con emissioni nell’aria, nel suolo e nelle acque di enormi quantità di sostanze tossiche (metalli pesanti, gas nocivi e polveri sottili), i cui effetti sono devastanti per l’ambiente e per la salute delle comunità che lo abitano.
Gli affari sporchi nella miniera d’oro di Amulsar, in Armenia
Grazie a Francesco iniziamo uno scambio di comunicazioni, documenti e foto con Vahram Ayvazyan, attivista armeno per i diritti umani, anche lui membro del Climate reality project. Vahram ci permette di ricostruire, pezzo dopo pezzo, la tribolata storia del sito di Amulsar e di quantificare la rilevanza degli affari che gravitano attorno alla Lydian international, la società anglo-canadese che nel 2016 ha iniziato a esplorare il sottosuolo di quest’area in cerca di oro. Un’impresa che la multinazionale ha inizialmente potuto portare avanti forte di importanti appoggi economici, come quelli della International financial corporation, organizzazione che fa parte di Banca Mondiale, e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), nonché delle coperture politiche garantite dall’establishment dell’ex presidente e primo ministro Serž Sargsyan, costretto a fare un passo indietro in seguito alla rivoluzione di velluto del 2018.
La nomina a premier di Nikol Pashinyan e il cambio di proprietà non hanno scalfito il piano di sfruttamento dell’area
Con la nomina a premier di Nikol Pashinyan, in prima linea nelle manifestazioni popolari, il progetto della miniera ha iniziato a vacillare. Nel dicembre del 2019 Lydian international ha dichiarato fallimento, poi lo scorso giugno il sito di Amulsar è passato sotto la gestione della Lydian Canada ventures corporation. Il cambio di proprietà non ha smussato di una virgola il piano di sfruttamento dell’area, che una volta messo a regime dovrebbe dare occupazione a 750 persone, creare altri tremila posti di lavoro grazie all’indotto e, nell’arco di dieci anni, garantire entrate per lo Stato armeno pari a circa 430 milioni di euro.
Attivisti ambientali e cittadini si oppongono alla miniera di Amulsar
Le cordate che vogliono a tutti i costi questa miniera non hanno però fatto i conti con la resistenza a oltranza opposta al progetto dalle comunità locali e da diverse reti di attivisti ambientali. Fra questi c’è anche Vahram. «Il progetto della miniera è stato di fatto congelato da quando, nel maggio 2018, Pashinyan è salito al potere», conferma Vahram proprie nelle ore in cui il suo Paese sta vivendo una delle pagine più buie della sua storia recente, con i combattimenti incessanti nella regione del Nagorno Karabakh fra truppe armene e azere (vedi intervista a pag. 49). «La popolazione del posto e gli attivisti hanno bloccato la strada che consente l’accesso al sito. Gli effetti di questa miniera sull’ambiente saranno devastanti. Jermuk, la città termale turistica situata vicino alla miniera, sarà gravemente colpita da tutto ciò. Ci sono già arrivate segnalazioni di gravi problemi di salute per la gente che vive lì».
L’impatto della miniera di Amulsar su aria, acqua e suolo
I timori sull’impatto ambientale pesantissimo che il sito di Amulsar avrà su tutto il territorio circostante sono ampiamente fondati, come ha certificato una perizia indipendente chiesta dal nuovo governo di Pashinyan e redatta dalla società di audit libanese Elard. In questa miniera a cielo aperto, l’oro estratto viene prima trasferito a un impianto di frantumazione e successivamente caricato su dei nastri trasportatori che lo versano in vasche di lisciviazione, dove viene separato per mezzo di solventi, una soluzione di cianuro altamente tossica. Gli effetti sull’inquinamento dell’aria, del suolo e soprattutto della rete idrica che attraversa l’intera area sono facilmente immaginabili. La miniera è situata infatti dove scorrono i fiumi Arpa e Vorotan e nei pressi dei bacini idrici Spandaryan e Kechut, con quest’ultimo che alimenta il grande lago Sevan, considerato una risorsa fondamentale per l’economia e la conservazione della biodiversità dell’intera Armenia. Parte della miniera sorge inoltre all’interno di un sito classificato nella Rete Smeraldo dalla Convenzione di Berna, poiché ospita habitat naturali da preservare e specie protette in via d’estinzione. A dimostrare quanto potrà essere elevata la carica nociva della miniera anche sulla salute una volta che l’ultimo 25% dei lavori di realizzazione sarà terminato, sono le tante segnalazioni di cui ha parlato Vahram: attacchi d’asma, malattie polmonari, problemi dermatologici, emicranie, insonnia, causati soprattutto dalle operazioni di scavo e movimento terra e dalla conseguente emissione di polveri nell’area. Disagi a cui si sono aggiunte pressioni e minacce sugli abitanti del posto, costretti in molti casi a svendere i propri terreni agricoli per far largo alla miniera.
La lotta pacifica dei “difensori di Amulsar”
Di fronte a questi soprusi migliaia di abitanti di Jermuk, Kechut e Gndevaz hanno deciso di non restare a guardare e, nell’estate 2018, hanno bloccato pacificamente l’accesso al sito, impedendo così che potesse entrare in funzione. Un’azione forte che presto ha contagiato l’intero Paese, portando la causa dei “difensori di Amulsar” fino alla capitale Yerevan, con sit in di protesta di fronte alla sede del Parlamento.
Dall’estate 2018 cittadini e attivisti bloccano l’accesso al sito. Sono state raccolte 26mila firme per spingere i finanziatori a ritirarsi dal progetto
Con il cambio di proprietà i rischi per gli attivisti sono però aumentati. La scorsa estate i guardiani armati dell’agenzia privata a cui Lydian Armenia, succursale locale di Lydian Canada ventures corporation, ha delegato la sicurezza dei cantieri, hanno forzato a più riprese i picchetti predisposti dai manifestanti agli ingressi al sito, venendo più volte allo scontro fisico con loro. I tafferugli hanno portato all’arresto di decine di attivisti ma anche di alcuni agenti privati. Il movimento civico Armenian environmental front ha inoltre denunciato l’uso di violenza da parte della polizia durante le repressioni delle manifestazioni. Negli ultimi mesi diverse iniziative di protesta, organizzate sia nei pressi di Amulsar che a Yerevan, non sono state autorizzate dalle autorità armene per il rischio di disordini. «Le pressioni sugli attivisti ambientali sono sotto gli occhi di tutti, alcuni sono stati persino picchiati dalle guardie di sicurezza di Lydian finendo in ospedale – riprende Vahram – Si parla molto della prosperità che questa miniera porterà alla regione di Vayots Dzor e all’Armenia. Io penso che ciò non accadrà: la ricchezza uscirà presto fuori dai confini del nostro Paese. Per non parlare dei gravi danni ambientali a lungo termine con cui dovremo fare i conti per decine, se non centinaia, di anni».
La guerra nel Nagorno Karabakh e le indecisioni del premier armeno Nikol Pashinyan
Nonostante il clima di tensione palpabile attorno alla miniera, e il rischio concreto che la guerra nel Nagorno Karabakh finisca per relegare questa crisi a emergenza di secondo piano, i “difensori di Amulsar” non hanno alcuna intenzione di indietreggiare. Sul web la protesta non si placa, con l’hashtag #SaveAmulsar che ha preso d’assalto le bacheche di Facebook, Instagram, TikTok e Twitter di decine di migliaia di utenti armeni e non solo. Inoltre, una petizione che ha raccolto finora 26.000 firme promette di spingere sempre più finanziatori internazionali a tirarsi indietro dal progetto della miniera. Un appello recepito ad agosto anche dalla Bers, dopo le ultime violenze sui manifestanti, come segnalato da Open Democracy.
Gli occhi sono ora puntati sul primo ministro Nikol Pashinyan. Nei mesi caldi della rivoluzione di velluto Pashinyan aveva promesso che, qualora fosse salito al potere, si sarebbe opposto al piano di Lydian. Una volta eletto ha ordinato un’ispezione indipendente nel sito per verificarne i reali livelli di inquinamento. Ma nell’ultimo anno i suoi passi indietro sulla questione sono apparsi a molti evidenti. Lasciare soli in questa battaglia cittadini e attivisti significherebbe tradire proprio quegli ideali che hanno spinto in avanti la “sua” rivolta del 2018. Sarebbe un passo indietro che dopo decenni di dittatura prima e di governi corrotti poi, l’Armenia non può permettersi. Neanche per tutto l’oro del mondo.