Il risveglio del vino armeno: una rivoluzione tra storia e geopolitica (Gamberorosso.it 19.11.24)

Sarà che gli armeni sono un popolo che ha vissuto il peggio – il genocidio del 1915, la dittatura sovietica, la perdita del Nagorno Karabakh; una ferita recente – ma l’energia che emana dal mondo del vino cresce, sale, monta e non si arrende neanche davanti ai cortocircuiti della storia. In cinque anni il settore è letteralmente esploso: piantare una vigna, aprire una cantina, produrre vino, farlo degustare e accogliere i turisti è diventato un investimento remunerativo; oltre che figo, moderno, occidentale e di tendenza. Lo sanno bene nella capitale Yerevan dove spopolano i winebar come InVino, 600 etichette armene; il Decant WineShop&Bar, un localino più intimo su Moskovyan street, cuore della movida; e il Mov, ristorante di design con bella carta di etichette autoctone. 

Un patrimonio millenario tra rischi geopolitici

La matematica, si sa, non è un’opinione: in Armenia il numero di cantine è sestuplicato, erano 25 nel 2019 e già 150 a settembre 2024; sempre che nel frattempo non siano spuntati altri “funghetti”. Perché in larga parte sono piccoli produttori, a volte piccolissimi; vigneron da poche migliaia di bottiglie, a volte centinaia.
Ottimo! Se ci non fossero l’incertezza e l’incognita degli sviluppi geopolitici; nel caso dell’Armenia gli scomodi vicini e i conflitti internazionali. La piccola Repubblica – 2,7 milioni di persone, il primo Paese cristiano al mondo (301 d.C.) – è situata nel Caucaso meridionale.
A est c’è l’Azerbaijan, che nel 2023 ha conquistato l’ultimo lembo di Nagorno Karabakh, dopo due guerre seguite al crollo dell’URSS; di cui entrambe i Paesi facevano parte.
A ovest c’è la Turchia, relazioni gelide e confini chiusi dai tempi del genocidio “negato” di 1,5 milioni di armeni, sotto l’Impero Ottomano. A nord per fortuna c’è la Georgia, in sana competizione soltanto sul vino. A sud, però, c’è l’Iran, buoni rapporti commerciali e diplomatici, ma non certo il posto sicuro del momento. Da Teheran, tra l’altro, arriva gran parte del flusso turistico internazionale; tanti iraniani che qui possono bere “in libertà”. Aggiungi l’influenza e le interferenze della vicina Russia – primo importatore, l’80% dell’export di vino armeno – e capisci che essere artefici del proprio destino è una frase molto bella. 

“La guerra è una preoccupazione costante anche per la viticoltura, perché molti vigneti si trovano vicino ai confini e quindi è molto pericoloso anche soltanto prendersene cura, oltre all’incognita di non sapere con certezza se potremo mantenerli in futuro. Però siamo forti, manteniamo lo spirito giusto e continuiamo a fare il meglio. Siamo certi che i nostri progetti avranno successo”. 

A parlare è Zaruhi Muradyan, direttrice di Vine and Wine Foundation of Armenia (VWFA), a margine dell’ottava Conferenza Internazionale sul Turismo del Vino, organizzata dalle Nazioni Unite (UN Tourism), proprio in Armenia, lo scorso settembre, nel Paese dove l’enoturismo è il fenomeno emergente del post Covid. “Prima non esisteva”, sottolinea la Muradyan, che è anche produttrice con la piccola Zara Wines e figura di punta di un embrione di “donne del vino” armene. La VWFA è invece l’agenzia governativa nata nel 2016 per promuovere la rinascita enologica, innescata a inizio 2000 dagli investimenti dei ricchi armeni “figli” della diaspora (altri 8 milioni nel mondo). Su tutti l’imprenditore “argentino” Eduardo Eurnekian, proprietario di Karas (“anfora”), 400 ettari nella regione vinicola dell’Armavir, vista sul monte Ararat – la “montagna sacra”, da un secolo in territorio turco – e consulenza enologica di Michel Rolland.

Vini naturali e turismo: l’Armenia guarda al futuro

Degustazione Monte Dimats

Il settore vinicolo, con i suoi 16mila ettari e 14 milioni di litri (il doppio del 2014), è oggi controllato da una manciata di grandi cantine. Tra queste l’Armenia Wine Companyfondata nel 2006: con 12 milioni di bottiglie tra vino, cognac e brandy, la più grande e l’unica con un wine museum. Un’altra è Armas, della famiglia Aslanyan, 100 ettari di vigne tra 700 e 1.800 metri d’altezza, e consulenza dell’enologo italiano Emilio Del Medico. E ancora: Noa, dello svizzero Jakob Schuler, già azionista di maggioranza al Castello di Meleto, a Gaiole in Chianti, folgorato dai vini di uve areni sulle vie del Vayots Dzor, l’area più pregiata e soleggiata, un terroir ricco di argilla e pre-fillosserico, con altitudini tra i 1.200 e 1.800 slm. In questa regione nel 2007 fu scoperta tra l’altro dagli archeologi la cantina più antica del mondo: la grotta di Areni, con anfore e reperti del 4.100 a.C. 

Grotta Areni

Troviamo poi tante piccole e giovani aziende, mosse dalla voglia di fare e da un senso di riscatto e recupero di una tradizione millenaria, interrotta soltanto sotto il dominio sovietico (1921-1991), quando Stalin puntò sulla Georgia per il vino e sull’Armenia per il cognac e i distillati. Fu espiantato allora un ricco patrimonio di autoctoni per far posto alle uve bianche kangoun. Tra le varietà sopravvissute, in maggioranza uve da tavola, 31 oggi sono quelle vinificate: a parte la rossa areni e la bianca voskehat, tanti vitigni dai nomi difficili, haghtanakkhndoghnikhatoun kharji e altre fertili materie prime per cantine come Trinity, ex boutique winery nata nel 2016. Produce 100mila bottiglie – la metà per vigneron privi di macchinari – e qualche migliaio di ancestrali in anfora, senza lieviti aggiunti. L’enologo Artem Parseghyan “si diverte” a far ascoltare ai vini musica classica e spirituale in fase d’affinamento, rock e Pink Floyd in fermentazione.

Hrachya, Samvel e Aram Machanyan

Il filone degli autoctoni e dei naturali è cavalcato anche da Alluria Wines, dei fratelli Hrachya, Samvel e Aram Machanyan, tempo fa andati in Turchia orientale a cercare il vigneto del nonno, nella terra perduta con la pulizia etnica del 1915-16, e riportare a casa qualche barbatella. I tre facevano un altro mestiere e giocavano con il vino, poi nel 2017 la “svolta imprenditoriale” e la consulenza di enologi georgiani. Oggi fanno enoturismo e 42mila bottiglie, tra cui un rosso da uve del Nagorno Karabakh: il khndoghni (“che ci sia la gioia”), un paradosso etimologico a vedere come è andata con l’Azerbaijan. Partita chiusa: 120mila profughi a settembre 2023 scappati dall’ultimo lembo di terra contesa.
C’erano pure le vigne di Grigori Avetissyan, vignaiolo-combattente in prima linea, “ritiratosi” in Armenia con Kataro Wine. Gli islamici azeri gli hanno postato i video di sfregi e sversamenti di vasche e botti. Il vino è proprio una bevanda da cristiani. 

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