Il Nagorno-Karabakh: teatro di interessi internazionali (Iari 07.12.24)
Come un conflitto latente pluridecennale nel Caucaso può attirare l’attenzione delle potenze mondiali? Interessi ed opportunità a confronto.
Il conflitto nel Nagorno-Karabakh, regione situata nel Caucaso meridionale, è un’espressione storica delle tensioni etniche e territoriali tra Armenia e Azerbaijan. Il Nagorno-Karabakh, abitato in maggioranza da armeni ma riconosciuto internazionalmente come parte dell’Azerbaijan, è stato al centro di scontri violenti fin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tra il 1988 e il 1994 una guerra tra le due nazioni portò al controllo armeno della regione e di territori circostanti, fino al cessate il fuoco mediato dalla Russia. Nel settembre 2020, un nuovo conflitto su larga scala è esploso, culminato con una vittoria militare dell’Azerbaijan e la riconquista di gran parte del territorio.
Tra il 19 ed il 20 Settembre 2023 il governo dell’Azerbaijan ha ordinato un’offensiva sulla regione separatista dell’Artsakh, all’interno della regione del Nagorno-Karabakh, fermata grazie all’intervento delle forze russe che hanno svolto il ruolo di mediatore imponendo un cessate il fuoco nella regione. Tuttavia la legittimità e la legalità dell’intervento azero ha interrogato la comunità internazionale, spingendo il procuratore della Corte Penale Internazionale Luis Moreno Ocampo a richiamare l’attenzione mondiale sul Washington Post rievocando il rischio di un nuovo genocidio nella regione.
Ad Aprile 2024 ha avuto però inizio la ritirata da parte delle forze di peacekeeping russe che ha fatto registrare un nuovo leggero aumento delle tensioni, seppur limitate, specialmente nel distretto di Kelbecer, Agdam e Lachin. Il corridoio di Lachin, all’interno dell’omonimo distretto, è una strada strategica che collega il Nagorno-Karabakh all’Armenia, che è stata bloccata per mesi, causando il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione armena. A causa della sua geolocalizzazione e il ruolo cruciale che ha per il popolo armeno, l’embargo de facto imposto dall’Azerbaijan ha portato a carenze di beni essenziali, compresi cibo e medicinali. Il corridoio è ora completamente sotto il controllo di Baku.
Identità ed economie nazionali
Fin dall’inizio del conflitto, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e i successivi moti di indipendenza degli ex-stati satelliti, il Caucaso è stato soggetto alle attenzioni e all’influenza straniera. Armenia ed Azerbaijan sono sempre stati due paesi profondamente divisi per motivi etnici e religiosi. L’Armenia è composta in maggior parte da una popolazione di etnia armena (98.1%) e cristiana (95.2%), mentre l’Azerbaijan è in maggior parte di etnia azera (92.5%) e musulmana (97.3%, maggioranza sciita). Questi dati, inizialmente, sono già un indizio sui principali alleati storici dei rispettivi paesi: come più volte riproposto (vedi il caso Serbia) la Russia ha sempre appoggiato un paese straniero proponendo come criterio per il proprio schieramento una comune identità religiosa e, in questo caso, l’Armenia. Analogamente, dunque, l’Azerbaijan invece ha sempre potuto contare sul supporto e la vicinanza di Ankara.
Anche da un punto di vista economico risulta evidente l’interdipendenza e l’importanza delle relazioni politico-economiche tra i paesi del Caucaso e le potenze limitrofe. L’Azerbaijan dispone di un gran quantitativo di risorse naturali che gli permette di tenere testa all’ingerenza di Mosca. I gas naturali, i metalli e soprattutto il petrolio ha portato Baku ad indirizzare l’export principalmente verso l’Italia (a cui arriva il 47% delle esportazioni azere) e verso la Turchia (a cui arriva il 9% dei prodotti azeri), seguiti poi da Israele, India e Grecia. In fase di import invece l’Azerbaijan si affida in ugual misura alle risorse di Russia e Turchia (17% del totale a ciascuno), seguiti poi da Cina, Emirati Arabi e Georgia in quantità minori, importando principalmente grano, medicine e petrolio raffinato. L’Armenia, d’altro canto, dispone di una quantità risorse naturali ben inferiori che la porta ad una dipendenza quasi totale verso la Russia. Il principale prodotto per l’export di Yerevan deriva dalle ridotte miniere presente nel territorio ed è indirizzato verso, come detto, la Russia (41% dell’export totale), ed in misura minore verso gli Emirati Arabi, Cina, Georgia e Svizzera. Così, in materia di import, l’Armenia si ritrova nuovamente dipendente dalla Russia, dagli Emirati Arabi e dalla Cina da cui acquista principalmente gas, petrolio e macchine.
Centro di interessi
Chi, negli anni, ha avuto gli occhi puntati sul Caucaso meridionale sono stati principalmente Russia, Turchia e l’Unione Europea.
La Russia è il principale alleato dell’Armenia e il garante della sua sicurezza. Mosca ha una base militare in Armenia, a Gyumri, e sono entrambi membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). Nonostante questo, il ritiro delle truppe nel 2024 e la guerra in Ucraina ha distolto l’attenzione di Mosca dal Caucaso, causando diffidenza nelle capacità russe di essere ancora garante della stabilità nella regione. Al contempo, però, la Russia non ha tagliato definitivamente i rapporti economici, soprattutto in materia energetica, con Baku mantenendo alcuni dei suoi interessi in territorio azero.
L’influenza turca nel Caucaso è parte di una strategia più ampia di espansione della sua influenza nelle ex repubbliche sovietiche, in particolare nelle regioni turcofone. La Turchia ha cercato di posizionarsi come un attore regionale dominante, contrastando l’influenza russa. Il Corridoio Meridionale del Gas, che trasporta gas naturale dall’Azerbaijan verso l’Europa attraverso la Turchia, è una componente strategica della politica energetica turca e riduce la dipendenza europea dal gas russo. Inoltre, Ankara sostiene progetti infrastrutturali come la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars, che collega l’Azerbaijan alla Turchia attraverso la Georgia, rafforzando ulteriormente i legami economici e strategici tra i due paesi.
Infine, l’Unione Europea, soprattutto in seguito alle limitazioni dell’importazione di risorse energetiche dalla Russia successive allo scoppio del conflitto in Ucraina, ha interessi fortissimi in Azerbaijan. Il Corridoio Meridionale del Gas rappresenta la possibilità di rendersi sempre più indipendente dalle forniture russe. In materia umanitaria, Bruxelles ha finanziato gli aiuti umanitari in Nagorno-Karabakh, cercando anche di posizionarsi come mediatore per stabilizzare il conflitto e proteggere le popolazioni da abusi e violenze.
Scenari futuri
I possibili risvolti del conflitto in Nagorno-Karabakh sono tre: la ripresa delle ostilità su vasta scala, l’instaurazione di una pace duratura e il protrarsi del conflitto a bassa intensità.
L’instaurazione di una pace duratura è al momento irrealistica: gli sforzi diplomatici e militari che richiede un’operazione di questo genere non sono sostenibili nel breve periodo. Il susseguirsi di tensioni a livello internazionale (principalmente in Ucraina e a Gaza) continua a ridisegnare le priorità delle relazioni estere dei vari attori. Un conflitto come quello nel Nagorno-Karabakh, che ha alla base ragioni anche di carattere etnico-religioso, è molto complicato da approcciare e soprattutto da risolvere instaurando una pace stabile e duratura, e nessuno ha al momento la disponibilità e le risorse da investire in questa regione.
La ripresa del conflitto su vasta scala non conviene a nessuno, in quanto richiederebbe un coinvolgimento attivo nella regione, che sia con azioni di peacekeeping militare o diplomatico, che sia per sostenere una delle due fazioni. La Russia sarebbe l’unico attore a poter trarre dei benefici, avendo l’occasione di reinstaurarsi come potenza mediatrice e organo di controllo nella regione (divide et impera), ma con la guerra in corso in Ucraina Mosca non avrebbe interesse ad aprire un nuovo fronte.
L’opzione più plausibile è quindi, come spesso accade, che non succeda niente e che la situazione rimanga così com’è: un conflitto latente, con dei picchi di violenza occasionali gestititi ad intermittenza da forze straniere e da interventi diplomatici. Da una prospettiva umanitaria è sicuramente l’opzione meno desiderabile perché impedisce, di fatto, una garanzia di sicurezza e protezione per la popolazione, ma geopoliticamente il meccanismo può essere ancora sostenibile.