Il mondo di ieri: fra i fuoriusciti russi in Armenia (Ilcaffegeopolitico 05.10.22)
In breve
- Un incontro con alcuni russi scappati dalla guerra in Armenia: sono soprattutto giovani, studenti, professionisti che non approvano l’aggressione russa in Ucraina, ma non hanno il coraggio di protestare.
- Dopo le proteste della metà degli anni Novanta, in Russia gli studenti non sono più scesi in piazza.
- Il sistema scolastico e universitario russo punta alla riproduzione del sapere e non alla formazione di un pensiero critico. A questo si aggiungono le difficoltà economiche in cui la maggior parte degli studenti vive.
- Due anni di pandemia e di vita online hanno fatto dei giovani russi – e non solo – degli individui non più in grado di ritrovarsi fisicamente e di organizzarsi politicamente in una qualsiasi forma di collettività.
Analisi – Sono molti i giovani russi che già nei mesi scorsi si sono recati in Armenia per sfuggire alla guerra in Ucraina. L’accoglienza locale nei loro confronti è spesso ostile, mentre l’esilio forzato non fa che rimarcare il loro isolamento e la loro incapacità di influenzare la politica del proprio Paese.
RUSSI A DILIJAN
Dilijan è una città del nord dell’Armenia, a pochi chilometri dal confine con l’Azerbaijan e non lontana dal lago Sevan, il più grande specchio d’acqua del Caucaso. Dilijan si estende lungo la valle scavata dal fiume Aghstev, ed è circondata da montagne coperte di boschi. L’aria pulita, i sentieri dai panorami mozzafiato e la tranquillità del luogo, fanno di Dilijan un centro turistico estivo molto frequentato dai cittadini di Yerevan. Fra le strade del centro si vedono sempre più turisti russi; gente che è scappata dal proprio Paese dopo l’aggressione all’Ucraina e che adesso vive soprattutto a Yerevan e sceglie Dilijan per trascorrere le vacanze e i fine settimana. L’Armenia dipende politicamente e economicamente da Mosca e per questo il Governo non ha condannato l’invasione russa in Ucraina ma, allo stesso tempo, accoglie i russi che fuggono dal proprio Paese. A Dilijan, però, non tutti sembrano essere soddisfatti del comportamente dei nuovi venuti. L’impiegata di una farmacia del centro città, infatti, non nasconde le proprie lamentele: “In Armenia parliamo tutti russo, siamo bilingui, ma in ogni caso la lingua principale è l’armeno. Questi russi pensano di essere a casa loro: vivono qui da mesi e non hanno imparato neppure a dire “Buongiorno” e “Grazie” in armeno. Questo è un segno di arroganza, credono di trovarsi ancora nell’URSS. Per non parlare poi del fatto che il loro Presidente, Putin, ha praticamente venduto il Nagorno-Karabakh all’Azerbaijan e alla Turchia”. Sono in molti a condividere il pensiero della farmacista. Karen, un tassista dal volto magro e scavato, siede alla guida della sua vecchia “Lada”e aspetta i clienti vicino alla stazione degli autobus. Dice amareggiato: “Guardate cosa ci hanno fatto i russi. Guardate quel pederasta di Putin che ci ha voltato le spalle e ha dato il via libera all’attacco dell’esercito azero e non ci ha difesi dai nemici. In Armenia non ci sono più giovani, sono tutti morti, ammazzati dagli azeri. Speriamo che i russi non vincano in Ucraina, speriamo che Zelensky annienti questi schifosi traditori!”. Nell’estate del 2020, l’Azerbaijan è ritornato in possesso dei territori contesi del Nagorno-Karabakh, conquistati dall’Armenia negli anni Novanta. La guerra non è mai finita e, nonostante il cessate il fuoco firmato nel 2020, Baku continua a bombardare i territori non solo del Karabakh, ma anche dell’Armenia, in particolare le zone vicino al lago di Sevan. Alla fine di settembre, l’ennesimo attacco azero si è esteso anche alle zone settentrionali dell’Armenia e il rimbombo delle granate si è sentito persino sui monti vicino a Dilijan.
Fig. 1 – La città di Dilijan | Foto: Christian Eccher
INNA, VLADIMIR E GLI UCRAINI
In una giornata di fine agosto, Inna e Vladimir tornano da una passeggiata fra i monti che chiudono e proteggono la conca lungo la quale si estende Dilijan. Inna trema, piange e sembra non riuscire a calmarsi, nonostante Vladimir la stringa a sé e cerchi di rincuorarla e farle coraggio. Sulle alture di Dilijan ci sono dei poligoni di tiro e spesso l’esercito armeno prova le armi che verranno poi usate per la difesa del territorio al confine con l’Azerbaijan: si tratta soprattutto di granate. Il rombo cupo degli spari e il fumo delle esplosioni hanno raggiunto anche l’arcipelago dell’inconscio della ragazza e le hanno ricordato le immagini della guerra in Ucraina viste alla televisione, un trauma di cui non era forse neppure consapevole. I due entrano nel caffè centrale di Dilijan e si siedono a un tavolino. Originari di una piccola città siberiana, Inna e Vladimir si sono conosciuti ai tempi del Liceo e si sono fidanzati molto presto, come d’abitudine in Russia. Insieme si sono trasferiti a Novosibirsk per completare gli studi universitari, poi Inna è andata a Mosca per gli studi specialistici e Vladimir, che nel frattempo si è laureato, l’ha seguita. Allo scoppio della guerra, la ragazza ha convinto il fidanzato a lasciare la Russia per la paura che il Cremlino ordinasse una mobilitazione improvvisa. Da allora, la vita della coppia è stata completamente stravolta: “Sono rimasta a Mosca per tre mesi da sola, fino alla fine del semestre. A giugno ho raggiunto Vladimir a Yerevan. A febbraio c’era un clima strano nella capitale, io sono scappata in Siberia, dove raramente succede qualcosa. Vladimir ha raggiunto Yerevan e adesso lavoriamo online, da qui, per una ditta di Mosca”. Alla mia domanda se avessero mai pensato di rimanere a Mosca e di protestare, Inna risponde piangendo e, improvvisamente, il suo sguardo mite e triste assume un’espressione inaspettata di odio e di disperazione: “Ma che ne sai tu di quello che accade in Russia? Tu che ti diverti a fare il reporter, vieni dall’Italia e per un giornale serbo vai in Ucraina a scrivere stupidi reportage? Stai una settimana sotto le bombe, senti l’adrenalina e poi te ne torni a casa. Per te la guerra è un gioco, che ne sai di come ci sentiamo noi? La settimana scorsa Vladimir e io siamo stati a Tbilisi, in un ristorante non ci hanno serviti perché siamo russi. Che ne sai tu di che cosa si provi a stare dalla parte sbagliata? Il mio mondo è completamente crollato, mai avrei pensato che la mia gente avrebbe attaccato un popolo fratello. Tutto in quello in cui credevo, la patria, il rispetto reciproco, la fratellanza fra i popoli, tutto questo non esiste più. Presto dovrò tornare in Russia per finire gli studi di laurea specialistica, e non ne ho voglia, ho paura, non dormo più la notte“. Dal tavolo vicino, una donna sulla quarantina, magra, dagli occhi verdi e fulgenti, si rivolge inaspettatamente ad Inna: “Volete venire da noi, a Mikolaiv, da dove siamo dovuti scappare? Non vi servono nei ristoranti, poverini! Da noi bombardano i palazzi, abbiamo dovuto lasciare la città e l’Ucraina. Le nostre case, la nostra gente, e adesso siamo profughi. Chi sta peggio? Noi o voi? Voi russi siete in grado solo di scappare, perché non scendete in piazza? Se per le strade di Mosca si riversasse un milione di persone, cosa potrebbe fare Putin? Spedire tutti in Siberia? Svegliatevi, fermate questa carneficina! Codardi!”. Alla mia proposta di sedersi con noi, la donna ucraina e il suo compagno si alzano, mi ringraziano e lasciano il locale. Nel caffè subentra un silenzio surreale. Anche gli altri avventori, armeni, hanno sentito il dialogo e guardano sottecchi Inna e Vladimir, mentre fingono di continuare a bere il caffè. I due ragazzi si alzano, chiedono il conto e se ne vanno.
Fig. 2 – Palazzi di epoca sovietica a Dilijan | Foto: Christian Eccher
LA PROFESSORESSA DI TOMSK E LA FINE DI OGNI PROTESTA
A quel punto, mi si avvicina una donna, alta, dinoccolata, sulla cinquantina. Chiede se si può sedere: è una professoressa del Politecnico di Tomsk, in Armenia in vacanza, ha sentito il drammatico dialogo fra i russi e gli ucraini e vuole parlare con me. Lei non è scappata perché non saprebbe dove andare: “Noi in Siberia, almeno noi della vecchia generazione, siamo sempre stati contro. Siamo abituati a essere contro il potere centrale di Mosca. Adesso abbiamo paura, è vero, ma quei due ragazzi vanno capiti”. Le ultime proteste da parte dei giovani, sostiene la professoressa, risalgono a metà anni ’90, quando nelle Università delle principali città della Federazione si venne a creare un movimento spontaneo che chiedeva a gran voce programmi sociali che garantissero borse di studio, case dello studente e riduzione delle tasse universitarie: “A poco a poco, le autorità hanno comprato e corrotto i rappresentanti degli studenti dando loro privilegi e denaro. Sono così riusciti a smorzare le proteste”. Continua la professoressa: “Le borse di studio sono miserrime, circa 80 euro al mese, e vengono date in base ai risultati e non al reddito. Ovvio che i figli delle famiglie più ricche, che possono permettersi di pagare ripetizioni e hanno un maggiore accesso alla cultura, ottengono risultati migliori e quindi camere nei dormitori e l’esenzione dalle tasse. In ogni caso, uno studente fuori sede che viva in una grande città della Federazione, se non ha genitori più che benestanti, per mantenersi agli studi deve trovare un lavoro”. È quello che è accaduto anche ad Inna: nonostante abbia una borsa di studio, deve lavorare per sopravvivere. “In una simile situazione – aggiunge la professoressa – gli studenti hanno poco tempo per informarsi, per leggere un giornale. Vivono in maniera meccanica. Fra lavoro e studio. A Tomsk, le lezioni della laurea specialistica sono tutte concentrate la sera: si sottintende che, dopo il bachelor, quasi tutti gli studenti lavorino. Se a questo aggiungete i programmi scolastici e universitari vecchi che impongono di riprodurre il sapere e non di sviluppare un pensiero proprio, il lavaggio del cervello da parte delle tv e dei mezzi di informazioni, la politica di promozione dei valori familiari che spinge i giovani a sposarsi e ad avere figli molto presto, avete un quadro completo della situazione in Russia: i giovani vivono in una bolla di stress e di impegni frenetici, che non permette loro di porsi criticamente davanti alla realtà. Chi dovrebbe protestare in Russia, se non loro, e in particolare gli studenti? Non sono in grado, non sono capaci né di capire cosa stia succedendo né di organizzarsi anche perché, dopo due anni di pandemia e di vita online, non hanno neppure contatti con i propri compagni e commilitoni. Essere giovani è sempre stato difficile, ma mai come oggi in Russia”, conclude la professoressa.
IL MONDO DI IERI
Amareggiato, saluto la professoressa e lascio il locale; il mio pensiero va a Inna e Vladimir, che adesso passeggiano soli, chissà dove, per Dilijan. Sono “Schöngeist”, anime belle, come diceva Hegel, che fuggono dalle difficoltà con l’unico, egoistico scopo di vivere bene o sono vittime del sistema? Su una panchina, un ragazzo, probabilmente un turista straniero, legge un libro in tedesco. Riesco a malapena a sbirciare il titolo: è “Il mondo di ieri”, il romanzo di memorie che Stefan Zweig scrisse dopo essere fuggito dalla Germania nazista e poco prima di suicidarsi, insieme alla moglie, in una sperduta città del Brasile.