Il Giornale – La strage degli armeni. Un popolo cristiano prigioniero dell’islam.
Al Vittoriano di Roma è possibile ammirare la cultura del “popolo dell’Arca” che è un bastione dell’Occidente Ma viene abbandonato a se stesso
Il genocidio degli armeni, è stata la prima immensa strage del 900. Ci appartiene. Forse gli armeni sono un indizio del nostro destino. Furono eliminati per odio religioso e razziale dai musulmani turchi. Quest’anno se ne celebra il centenario, nella data simbolica del 24 aprile.
La stupefacente mostra che si inaugura domani al Vittoriano, nella corpo stesso dell’Altare della Patria, è insieme di oro e di sangue. Ci sono tesori antichi e la voce di italiani che denunciarono la strage sin da pochi mesi dopo gli eccidi di Anatolia e Cilicia. Un milione e mezzo di morti. Paolo Kessisoglu (quello di Luca e Paolo: è figlio di sopravvissuti del genocidio scampati in Italia) leggerà le pagine di Filippo Meda, Antonio Gramsci, del console d’Italia a Trebisonda, Giacomo Guerrini.
Preme subito dirlo. Non è una mostra sul genocidio. Le testimonianze al proposito occupano solo una delle sette sezioni. Domina da ogni parte il monte biblico Ararat, dove si arenò – dicono oramai anche gli archeologi – l’Arca di Noè. Insomma: l’Armenia non è il luogo del Diluvio Universale, ma della rinascita dopo la tragedia. E prima ancora che diventassero cristiani, quando nacquero come popolo, tramandarono nel settimo secolo avanti Cristo di essere discendenti di Noè, da Iafet, che diede il primo vino al mondo attraverso gli armeni. E il distillato Ararat, che se ne ricava, ha un profumo uguale e diversissimo dal cognac. Sa di miele di roccia ma di albicocca. Fu da qui che i romani la portarono in Italia, ed in Veneto si chiama ancora «armellino». Venezia in particolare ha mescolato la sua laguna con le acque caucasiche e orientali di questi cristiani a cui fu donata un’isola, san Lazzaro, dove stamparono i loro libri meravigliosi con quell’alfabeto che a solo guardarlo induce a pensare il dolore del mondo.
Non è una mostra sul genocidio, ma lo spiega. Si capisce perché li odiano. Perché li vogliono distruggere. Gli armeni non si sottomettono, non possono farlo. C’è un fuoco dentro questo popolo. Da loro sgorga una bellezza nell’arte, nella lingua, nei libri, nelle loro liturgie insopportabile per chi sia convinto che fuori dal Corano non c’è salvezza.
Ma visto che è il centenario non possiamo prescindere da quell’abisso di male. Eppure la croce armena è fiorita. Non è mai scolpita, disegnata, colorata, senza contenere un germoglio (una parte della mostra è dedicata a questo susseguirsi di strane croci). Come si dice in un testo liturgico tradotto sin dal 1816 in italiano si spiega perché: «Fin dal principio dei tempi apparve la Croce fiorita nel Paradiso piantato da Dio: segno di consolazione a Set, e pegno di speranza al padre Adamo». Gli armeni non riescono a non vedere, a differenza degli ebrei di cui condividono il marchio della persecuzione, spuntare un fiore dal male assoluto. Si racconta che Komitas, il genio musicale armeno, sopravvissuto per miracolo al genocidio, dopo quella tragedia sia rimasto in silenzio: per vent’anni, fino alla morte. Bisogna romperlo quel silenzio. Parlare dell’Armenia.
Gli armeni! Che ne sappiamo? Poco. A Venezia c’è la loro meravigliosa biblioteca dove stanno monaci dalle grandi barbe. Nei film americani sono figure simpatiche di numerosa famiglia. È un popolo dalla schiena diritta. Sono stato in Armenia e ne ho studiato (poco) la storia. Il sole è accecante, la terra arida, che si dischiude su acque di laghi turchese. Nella capitale Erevan c’è il monumento dell’orrore, avvolto di pietà, perché gli armeni coltivano anche il perdono. Popolo grande, ma l’Armenia è ridotta a un fazzoletto di terra, meno di 30mila km quadrati, inferiore alla decima parte dell’Italia, in realtà meno del 90% del territorio che storicamente le apparterrebbe, ma è di dominio turco. Che bella gente quella armena. Chiedono che la Turchia chiami le cose con il loro nome, omicidio l’omicidio, genocidio il genocidio. Il Parlamento italiano, nel 2000, all’unanimità ha riconosciuto il genocidio armeno. Ma ora, per non turbare la Turchia, il governo italiano è molto timido sul tema. Sulla verità non lo si dovrebbe mai essere. Per ragioni strategiche dovremmo tollerare una Turchia che non riconosce l’orrore della propria storia? Tirarci in Europa una realtà di menzogna?
Bisogna ricordare. Ricordiamolo a noi stessi, mettiamolo nell’agenda del nostro governo. Nel cuore del Caucaso c’è un piccolo Stato cristiano. Noi non lo sapevamo – non sappiamo mai niente di importante – ma è l’ultima propaggine dell’Europa e dell’Occidente. Anche se le cartine della geografia dicono Asia, questa è Europa. Prima che noi diventassimo cristiani, loro lo erano già. È un cristianesimo che non è cattolico latino ma non si è mai separato aspramente da Roma: c’è dai tempi del Vangelo. Gli armeni hanno avuto la sfortuna di essere abitanti di un territorio troppo strategicamente decisivo: tra il Mar Nero e il Mar Caspio, difesi dalle montagne a Nord e Sud. Chi possiede questa terra ha in mano il perno dell’Asia e dell’Europa. I romani avevano già preso sotto di sé questa regione con Pompeo, nel 69 avanti Cristo. Data dal 301 la decisione di dichiarare il cristianesimo religione di Stato, primi al mondo. Arrivarono mongoli, turchi, arabi, persiani e poi ancora turchi, a divorarsela, quindi i comunisti sovietici: ma questo punto di cristianesimo e di occidente, di valore dato all’individuo e al popolo che lo difende, ha tenuto. Si rifugiavano sulle montagne o fuggivano all’estero, portando con sé i loro libri e trascrivendoli. La loro cultura è infinita. Non solo nel senso della quantità, ma in quello strabiliante della forza dell’identità. Questi sanno chi sono. Per questo sono un patrimonio imperdibile proprio per noi che non sappiamo più chi siamo ma guardando loro abbiamo nostalgia. Ora questo popolo, che ha ritrovati magri confini, è circondato dall’Islam. Ha preservato una roccaforte di straordinaria bellezza tra i monti azeri, il Nagorno Karabakh, ma muore praticamente di fame e di solitudine. Scrive lo storico armeno Leonzio nel medioevo: «Ormai secche le rose e le violette armene». Ma rifioriscono ogni volta.
– – – Al Vittoriano in Roma la mostra Armenia. Il popolo dell’Arca . Da venerdì 6 marzo al 3 maggio aperta al pubblico