Il genocidio dimenticato dei Greci in Turchia (Vanillamagazine 28.09.21)

Da quando i primi gruppi di Homo erectus lasciarono l’Africa nella prima grande migrazione umana, chiamata dai paleoantropologi Out of Africa I, all’incirca 1,8/1,3 milioni di anni fa, si può affermare senza tema di smentita che la storia dell’uomo è una storia di migrazioni e di colonizzazione.

Andando avanti veloce nel tempo si arriva al VII secolo a.C., in Grecia, che certo è un luogo meraviglioso, baciato dagli dei, ma che purtroppo non ha sufficiente terra coltivabile per garantire la sussistenza di tutti i suoi figli. Accade allora che gruppi di cittadini di una stessa polis decidano di partire alla ricerca di nuove terre fertili dove fondare una colonia, non prima però di aver chiesto il parere dell’oracolo di Delfi.

Sorgono così, in Italia ad esempio, le meravigliose città della Magna Grecia che, pur indipendenti, continuano ad essere legate alla città madre da vincoli, a volte solo religiosi, in qualche caso politici. Una sola cosa unisce sempre e dovunque chi è rimasto e chi è partito: la lingua madre.

Il Mediterraneo intorno al IV secolo a.C: gli insediamenti greci sono colorati in rosso

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Prima ancora di volgersi a occidente, verso l’Italia e, in misura minore, Spagna e Francia, i Greci guardano a oriente, verso il Mar Nero e le opposte sponde del Mar Egeo. Nascono tante città che oggi appartengono a nazioni diverse (Russia, Ucraina, Romania, Bulgaria), ma che si concentrano sopratutto nell’attuale Turchia: Smirne, Efeso, Alicarnasso, Trebisonda e moltissime altre dai nomi meno conosciuti.

Le Colonie greche sul Mar Nero

Immagine di Simen 113 via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0

Tutte queste colonie fondate da città-madri in gran parte ioniche e doriche, da polis indipendenti, diventano via via soggette a diverse dominazioni: prima dei Persiani e poi dei sovrani che si dividono l’impero di Alessandro Magno, dopo dei Romani e degli imperatori bizantini, fino ad essere completamente assoggettate dai turchi ottomani.

Loro però, i discendenti di quei coloni del VII secolo, sono e si sentono greci, praticano la religione cristiana ortodossa e continuano a parlare la loro lingua. Saranno chiamati, all’inizio del XX secolo, i Greci del Ponto, dalla storica regione sulle coste meridionali del Mar Nero.

La regione del Ponto


Perché dare una connotazione così marcatamente etnica a comunità stabilite lì da millenni, e che lì hanno casa e lavoro, producono ricchezza e cultura?

Perché è proprio l’appartenenza ad etnie minoritarie, di fede ortodossa, a dare inizio a una tragedia che non coinvolge solo i Greci del Ponto, ma anche Armeni e Assiri (o Siriaci), come poi tutti i Greci della Turchia.

Famiglie greche del Ponto dell’inizio del XX secolo

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A seguito della conquista ottomana dell’Impero Romano d’Oriente (nel 1453 cade Costantinopoli), nel 17° e 18° secolo, molti gruppi di persone appartenenti alle comunità greche emigrano in Russia, ma chi rimane si ritrova isolato, tanto che la loro lingua – il greco pontico – differisce sostanzialmente da quella parlata oggi in Grecia e non è reciprocamente comprensibile.

Tuttavia, a metà ‘800 e fino a inizio ‘900, le comunità elleniche del Ponto sono fiorenti, sia dal punto di vista economico sia da quello sociale: costruiscono chiese e scuole, danno vita a circoli culturali e crescono a livello demografico.

La squadra di calcio greca del Ponto, chiamata ‘Pontos’

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Al contrario, l’impero ottomano è in declino: perde gran parte dei suoi territori (Bulgaria, Serbia, Romania, Montenegro e molti altri), alcuni dei quali sono annessi da stati Europei (l’Italia, ad esempio, si prende la Libia).

La situazione è tanto drammatica quanto instabile. Il sultano Abdul Hamid II non ha più il sostegno del popolo e soprattutto quello dell’esercito, al cui interno nasce, per iniziativa di Mustafa Kemal (poi conosciuto come “Atatürk”, il padre della Turchia moderna) il primo nucleo del movimento poi chiamato dei “Giovani Turchi”.

Nel 1913, quando ormai si sono concluse le guerre balcaniche, gli ottomani sono praticamente spariti dall’Europa e conservano una presenza non rilevante tra le province arabe. Insomma i Turchi, che temono per la sopravvivenza stessa della loro nazione, decidono di espellere tutte le minoranze di fede cristiana (alle quali imputano la colpa del declino del sultanato) dal Ponto, dalla Cappadocia e dalla Ionia. A soffrire di questa decisione sono greci, armeni e siriaci.

Censimento ottomano del 1905/6 – le barre in rosso indicano i musulmani, quelle in nero i greci

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I greci in particolare, sono ritenuti colpevoli di aver collaborato, nel corso della guerra russo-turca, proprio con l’antagonista impero russo, che tenta di espandere la cristianizzazione nell’area della Turchia settentrionale. Quando nel 1916 i russi riescono a occupare Trebisonda, iniziano a fare pressioni per la creazione di una Repubblica del Ponto indipendente (poi si ritirano perché il loro paese è alle prese con la rivoluzione del 1917), già agognata dal vescovo Chrysanthos Filippides.

La posizione di Trebisonda nella mappa della Turchia

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Intanto i Turchi non se ne stanno con le mani in mano e procedono a una pulizia etnico-religiosa che colpisce le comunità di cristiani ortodossi che non si convertono all’islam.

Oggi si conosce bene il primo dei genocidi che hanno funestato il XX secolo, quello degli armeni, ma pochi sanno che anche i greci del Ponto subirono lo stesso dramma: la deportazione nelle poco ospitali terre interne dell’Asia Minore (su suggerimento del consigliere militare tedesco Liman Von Sanders ), i famigerati battaglioni di lavoro, composti da uomini che non si volevano arruolare nell’esercito e perciò spediti a lavorare nelle miniere o alla costruzione di strade in condizioni disumane. Secondo una stima di un funzionario del Foreign Office britannico, nel 1918

“più di 500.000 greci furono deportati, di cui relativamente pochi sopravvissero”

L’ambasciatore statunitense scrive in un rapporto:

“Ovunque i greci si radunavano in gruppi e, sotto la cosiddetta protezione dei gendarmi turchi, venivano trasportati, la maggior parte a piedi, nell’interno. […] Quanti sono stati dispersi in questo modo non è noto con certezza, le stime variano da 200.000 a 1.000.000”.

Quando nel 1919 viene discussa, alla Conferenza di pace di Parigi, la creazione della Repubblica del Ponto o, in alternativa, di uno stato greco-armeno, il governo turco decide che è arrivato il momento di procedere con una soluzione definitiva (si potrebbe dire finale): il genocidio dei greci, condotto attraverso marce della morte, privazioni e torture, come anche esecuzioni a sangue freddo e l’incendio dei villaggi, che costano la vita a oltre 350.000 greci solo nel Ponto, mentre la loro cultura viene cancellata, con la distruzione di chiese, circoli e attività economiche.

Sotto, Città fantasma di Kayakoy (Livisi), un tempo insediamento greco. Secondo la tradizione locale, i musulmani si rifiutarono di ripopolare il luogo perché “era infestato dai fantasmi dei Livisiani massacrati nel 1915”

Immagine di William Neuheisel via Wikipedia – licenza CC BY 2.0

A rendere ancora più drammatica la situazione, c’è contemporaneamente anche la guerra greco-turca, chiamata dagli storici ellenici “catastrofe dell’Asia Minore”. Ai Greci, alla fine della prima guerra mondiale, erano stati promessi i territori dell’Asia Minore, così l’esercito ellenico, nel 1919, tenta di prenderseli, iniziando da Smirne.

Soldati greci a Smirne, maggio 1919

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D’altronde, in tutta la Turchia vivono all’incirca due milioni e mezzo di ellenici che, secondo il parere del governo greco, rischiavano di essere sterminati. In realtà c’è di mezzo anche l’ambizioso progetto di dare vita alla Megali Idea (Grande Idea), una grande Grecia sulla falsariga dell’impero bizantino, legata soprattutto alla convinzione che Costantinopoli dovesse tornare alla cristianità.

Sono due anni di guerra che, dopo un’iniziale avanzata greca, si concludono con la riscossa dei turchi. L’ultimo atto è la riconquista di Smirne, da qualche settimana estremo rifugio di greci e armeni, che vi si riversano al ritmo di 20.000 persone al giorno. Mustafa Kemal ordina al suo esercito, il 9 settembre 1922, di non lasciarsi andare a violenze contro la popolazione civile. D’altro parere è il suo sottoposto, Nureddin Pascià, che invece decide di sterminare tutti i cristiani rifugiatisi a Smirne.

Dopo quattro giorni di violenze e stupri, il 13 settembre inizia a divampare un incendio estinto solo nove giorni dopo: si stima che tra le fiamme abbiano perso la vita un numero di persone, tra greci e armeni, che varia da 10.000 a 125.000.

L’incendio di Smirne

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Il quartiere greco e quello armeno vengono completamente distrutti, mentre pochi danni subisce quello turco. Della città cosmopolita, dove fino ad allora avevano convissuto turchi, greci (che costituivano la maggioranza), armeni, ebrei e arabi, rimane poco.

Smirne, dopo il Grande Incendio del 1922

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Le potenze straniere che hanno in rada le loro navi, messe lì per scoraggiare atrocità da parte dei turchi, in realtà non intervengono, nemmeno quando viene torturato e fatto a pezzi il vescovo di Smirne, proprio sotto gli occhi dei soldati francesi.

Smirne è l’inferno: donne e bambini che urlano, tanti che scappano dagli edifici in fiamme vengono mitragliati dai soldati turchi, le ragazze e i ragazzi più giovani sono rapiti per essere mandati negli harem. Sulla banchina del porto si riversa una massa di disperati che tenta di salvarsi sulle navi, ma tanti muoiono annegati.

Barche sovraffollate con profughi in fuga dal fuoco

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Alla fine, tra il 1914 e il 1922, il numero dei greci uccisi in tutta la Turchia può avvicinarsi a 900.000, almeno secondo una stima statunitense (i numeri cambiano molto in base ai vari studiosi). Per il governo ottomano però, sono solamente vittime di guerra.

I corpi di Greci del Ponto disposti davanti a una chiesa greca in Asia Minore nel 1916

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Nel gennaio del 1923 i governi di Grecia e Turchia firmano a Losanna una “convenzione relativa allo scambio di popolazioni greche e turche”, uno scambio obbligatorio che stravolge le vite di almeno 1.600.000 persone: oltre un milione e duecentomila greci ortodossi lasciano l’Asia minore, la Tracia orientale, il Ponto e il Caucaso, mentre all’incirca 400.000 musulmani sono allontanati dalla Grecia.

Bambini profughi greci e armeni vicino ad Atene

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Questo scambio si basa – apparentemente – solo sulla religione praticata: devono lasciare la Turchia tutti i cristiani ortodossi, sia greci sia armeni, come pure quelli di lingua turca. D’altra parte anche i musulmani di lingua greca vengono espulsi dai paesi dove erano nati e vissuti.

Rifugiati musulmani

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L’odissea dei Greci provenienti dalla Turchia non si conclude con lo scambio del 1923, anzi: la Commissione per i Rifugiati non è a conoscenza dei dati reali, né sul numero dei profughi né sui territori dove ricollocarli. Per di più quei disperati che hanno dovuto abbandonare tutto, subito violenze indescrivibili, patito perdite di figli, genitori e parenti, non sono accolti benevolmente nella patria ancestrale. Hanno abitudini diverse, parlano una lingua poco comprensibile, e soprattutto costano troppo al governo greco, che deve pesantemente indebitarsi per garantirne la sussistenza, tanto che politicanti di pochi scrupoli definiscono i rifugiati come parassiti.

Vittime del Grande incendio di Smirne

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Oggi, tutto questo non sarebbe possibile, secondo le attuali norme di diritto internazionale, che vietano l’espulsione collettiva e garantiscono la libera circolazione, almeno sulla carta.

Allora forse vale la pena mettere in evidenza la ricchezza economica e culturale che caratterizzava la Turchia multietnica tra metà ‘800 e inizi del ‘900, e riflettere sulla follia di chi vede nell’altro da sé un nemico da sterminare.

Non per niente la creazione dello stato nazionalista di Kemal (odierna Turchia) e i genocidi di armeni e greci costituiscono un modello a cui si ispira la politica di Hitler: “La nazione tedesca un giorno non avrà altra scelta che ricorrere anche ai metodi turchi”. Tanto, come ebbe a dire il führer “chi si ricorda degli armeni?”, o dei Greci della Turchia?

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