Il genocidio degli armeni può ripetersi (Lanuovaqb 25.04.24)
Il giorno prima della nostra ricorrenza della Liberazione, il 24 aprile, per gli armeni è una ricorrenza solenne e drammatica. È la memoria del genocidio armeno, chiamato Metz Yeghern, il “grande male”. Il genocidio può ripetersi. Nonostante l’ottimismo caratterizzi le notizie sull’inizio del negoziato fra Armenia e Azerbaigian per la ridefinizione dei confini, con la nomina di una commissione ad hoc, gli armeni temono di essere spazzati via dalla carta geografica. E hanno fondati motivi per aver paura ancora.
Il 24 aprile del 1915 era il sesto mese dall’entrata in guerra dell’Impero Ottomano al fianco degli Imperi Centrali e gli armeni erano ancora una delle sue più popolose e influenti minoranze cristiane. I Giovani Turchi, che allora governavano l’impero, obbedendo a una logica strettamente nazionalista, ritennero che una grande e ricca minoranza etnica e religiosa non fosse più tollerabile, soprattutto in tempo di guerra. E decisero di cancellarla fisicamente. Già i militari armeni, nei primi mesi del 1915, erano stati epurati dalle unità in cui erano stati arruolati. Nei mesi successivi vennero condotte le prime operazioni di pulizia etnica, in villaggi ormai rimasti senza uomini.
E in quel fatidico 24 aprile 1915, nella capitale Costantinopoli vennero arrestati tutti i membri più influenti della comunità armena, per provocarne una improvvisa decapitazione politica e culturale. Da quel giorno in poi, la deportazione e poi lo sterminio della popolazione armena in Anatolia divennero sistematiche. Nonostante i turchi non vogliano sentir parlare di “genocidio” e non ammettano più di alcune centinaia di migliaia di morti, gli armeni assassinati fra la primavera del 1915 e la fine del 1916 furono circa un milione e mezzo, più della metà dell’intera popolazione.
Si salvarono solo gli armeni che abitavano nell’Impero Russo. Dalle ceneri della Russia imperiale, collassata nel 1917, nacque già un’Armenia indipendente che però, nel giro di due anni, divenne una Repubblica Socialista Sovietica, poi assorbita nell’Urss. Solo nel 1991, collassato l’impero rosso, ritrovò la sua indipendenza. L’Armenia, oggi, rappresenta un residuo di popolo armeno, scampato al genocidio per fortunate coincidenze storiche e geografiche. Ma durerà?
Il Nagorno-Karabakh, una terra armena, al di là del confine dell’Azerbaigian non è sopravvissuto a lungo. Il 1 ottobre 2023 aveva cessato di esistere, dopo aver retto per trentadue anni, circondato da un Azerbaigian musulmano, turcofono, strettamente legato alla Turchia. Nel 2020, dopo una breve guerra, il suo territorio venne fortemente ridimensionato dall’Azerbaigian. Nel settembre 2023, dopo un lungo assedio ed embargo, una seconda offensiva ha portato alla sua cancellazione dalla carta geografica. Più di 100mila armeni che lo abitavano si sono rifugiati nella Repubblica di Armenia. Il Nagorno Karabakh non è mai stato riconosciuto dalla comunità internazionale, l’Azerbaigian ha potuto invocare il principio di integrità territoriale per cancellarlo e nessuno si è opposto. Il problema è che, fisicamente, sta cancellando anche l’eredità culturale lasciata dagli armeni in fuga. Esattamente come venne cancellata ogni traccia (chiese, fortezze, case, monumenti, nomi) della presenza armena in Anatolia dopo il genocidio del 1915.
La chiesa di San Giovanni il Battista a Shushi, città occupata dagli azeri nella guerra del 2020, è stata demolita. Due chilometri più a Sud, un intero villaggio, Karintak, è stato spianato. Al suo posto, gli azeri vi stanno costruendo una grande moschea. Questo è il destino delle terre armene che finiscono nelle mani degli azeri. Lo dimostra anche l’esperienza del Nakhchivan, una terra armena assegnata all’Azerbaigan dopo la dissoluzione dell’Urss. Ebbene, in Nakhchivan non è rimasto più nulla di quel che avevano costruito gli armeni nei secoli, nemmeno il cimitero millenario di Jugha, demolito dagli azeri nel 2006, nonostante le proteste internazionali.
Una volta ri-assorbito il Nagorno-Karabakh, l’Azerbaigian si fermerà? No, stando alle parole dello stesso presidente Aliyev, il quale si riferisce all’Armenia con il termine di “Azerbaigian occidentale”, ad indicare chiaramente come voglia occupare tutto il territorio armeno. Ed è per questo che ritorna la paura, fondata, del genocidio. Un pretesto, un casus belli, si trova sempre. Per placare gli appetiti del vicino, il premier armeno Nikol Pashinyan ha accettato di cedere quattro villaggi di frontiera, tuttora contesi, nonostante le proteste della popolazione locale che non vede di buon occhio gli azeri così vicini alle proprie case. Ma potrebbe non bastare. Da anni, infatti, l’Azerbaigian reclama il pieno controllo di un corridoio di terra per collegare la madrepatria all’exclave del Nakhchivan. E su questo è più difficile che l’Armenia si pieghi, visto che dovrebbe rinunciare alla propria continuità territoriale.
Per invadere l’Armenia e conquistarsi con la forza un passaggio per il Nakhchivan, Aliyev dovrebbe violare il diritto internazionale. Ma gli ultimi due anni ci hanno mostrato come ormai sia tutto possibile. Proprio a causa dell’invasione dell’Ucraina, la Russia di Putin non può più permettersi di proteggere l’Armenia dalle mire azere (e turche). Sentendosi sostanzialmente abbandonato da Mosca, Pashinyan guarda all’Occidente: ha ospitato una prima esercitazione della Nato e ha allacciato rapporti più solidi con l’Unione Europea, forse in vista di una futura adesione. Per questo, però, si è ulteriormente alienato la Russia. Che di sicuro non spenderà neppure una parola per difendere gli armeni, come d’altra parte si è già visto in occasione della cancellazione del Nagorno Karabakh nel 2023.
A 109 anni dal genocidio, dunque, gli armeni sono sostanzialmente indifesi e nelle mire dei discendenti diretti dell’Impero Ottomano. Il genocidio può ripetersi, se nessuno si muoverà per impedirlo.