Il doppio dramma degli armeni siriani (Il Giornale d’Italia 23.05.16)

L’arcivescovo di Aleppo racconta la situazione della sua comunità, vittima del genocidio ottomano prima e delle bombe jihadiste oggi

Genocidio. E’ questa, purtroppo, la parola che viene subito in mente quando si parla degli armeni. Un dramma che quel popolo ha vissuto esattamente cent’anni fa: era infatti il 1915 quando l’impero ottomano mise in atto deportazioni e stermini, che causarono un milione e mezzo di morti. Questa terribile pagina della loro storia, che gli armeni chiamano “Grande crimine” e che commemorano il 24 aprile, oggi viene rivissuta in Siria.

Qui, prima dello scoppio della guerra, vivevano più di centomila armeni. Una minoranza perfettamente integrata nella società siriana in quanto, come ha spiegato a Sputniknews il professor Baykar Sivazliyan, Presidente dell’Unione Armeni d’Italia e docente di lingua armena presso l’Università degli studi di Milano, abitavano nel Paese già molto prima che esso divenisse uno Stato indipendente. La stragrande maggioranza degli armeni di Siria “è costituita da sopravvissuti al Genocidio e loro discendenti. L’ultima fermata delle deportazioni era infatti il deserto siriano, tanto che a Dir al Zor vi era una chiesa armena che fungeva da memoriale” e che custodiva le reliquie delle vittime del 1915. Un luogo sacro, che i terroristi di al Nusra hanno distrutto. Oggi il numero di armeni siriani si è ridotto a sedicimila, “concentrati per lo più ad Aleppo, a Damasco e in Latakia, nella zona del villaggio di Kessab – ha detto ancora il professore – più volte caduta nelle mani del Califfato e liberato dalle forze siriane”.

Aleppo dunque, che le cronache delle ultime settimane vedono al centro di una furiosa battaglia. Alla quale, per la popolazione, si aggiunge il dramma della mancanza anche di generi di prima necessità. A poco sembra essere servita, in questo senso, la fragile tregua che si sta tentando in tutti i modi di mantenere. E il futuro non appare per niente roseo.

Sembra esserne convinto l’arcivescovo degli armeni cattolici della città, che in un’intervista rilasciata a Zenit.org ai margini della sua recente visita a Roma, ha espresso tutta la sua disperazione per le sorti della popolazione di Aleppo. La situazione in città attualmente “è molto drammatica. Il cessate il fuoco è ormai terminato e sono ricominciati i bombardamenti” ad opera dei ribelli jihadisti che controllano una parte della città: “sono loro a lanciare missili, bombe e colpi di mortaio – spiega monsignor Boutros Marayati – sui quartieri controllati dall’esercito regolare, dove vivono le comunità cristiane e i musulmani moderati. Il punto è che i ribelli hanno in mano la centrale elettrica e l’acquedotto, dunque controllano gli approvvigionamenti e non consentono di farli arrivare a noi. Chi paga il prezzo di questa contrapposizione tra i due blocchi siamo noi civili, soprattutto i bambini”. E nonostante le Chiese stiano cercando di “aiutare la gente a rimanere, sta avvenendo un nuovo esodo da Aleppo. Del resto manca tutto. La nostra speranza è che ci siano i margini affinché le parti in conflitto si mettano d’accordo. Il popolo di Aleppo sogna la fine di queste atrocità, è davvero stanco di subire” dice ancora l’arcivescovo. Che, per quanto riguarda il contesto internazionale, si dice convinto che la soluzione del conflitto “è nelle mani delle grandi potenze” ovvero Usa e Russia. “Dobbiamo solo augurarci che si arrivi ad un’intesa tra loro per aprire un futuro di speranza per la Siria”.

E anche per l’Europa. Perché risulta evidente che fino a che non si apriranno scenari di pace, la crisi dei profughi nel Vecchio Continente è destinata a peggiorare. “Se c’è davvero interesse a risolvere questo dramma – dice monsignor Marayati – bisogna impiegare ogni energia per far cessare la guerra in Siria” ovvero “impegnarsi ad aiutare i profughi a non fuggire dalla propria terra. Ricordo sempre che prima che iniziasse questa guerra, noi siriani non eravamo mai stati dei profughi. Al contrario, era la Siria ad aver sempre ricevuto persone che fuggivano dalle guerre: dal Libano, dalla Giordania, dall’Iraq. E ora è arrivato il nostro turno. Una cosa che sembrava davvero impensabile, perché la Siria è storicamente un Paese di convivenza, di pace, di cultura”.

Le Chiese cristiane per arginare l’esodo “stanno dando un grande contributo” in termini di aiuti. “Ma la gente è stanca di soffrire. I siriani non vogliono più piangere i loro morti, non vogliono più veder scorrere fiumi di sangue. Ciò che chiediamo è che l’impegno che viene profuso per mandarci gli aiuti venga impiegato per far pressione alle potenze internazionali affinché cessino i bombardamenti”.

Cristina Di Giorgi