Il corridoio di Lachin e il groviglio caucasico (Osservatorio Balcani e Caucaso 15.02.23)
Prosegue il blocco del corridoio di Lachin che isola di fatto il Nagorno Karabakh e i 120mila armeni che vi risiedono. In settimana ha preso inoltre il via la missione UE in Armenia. Intanto, nell’area, rapporti tesi tra Iran e Azerbaijan
Sono ormai due mesi che il Nagorno Karabakh è isolato. I così detti ambientalisti azeri presidiano – bloccandolo – ancora il tratto di corridoio di Lachin. Il blocco ha creato un tracollo nella sicurezza sanitaria e alimentare della piccola repubblica secessionista, nonché ha dato il via ad una pesante crisi economica. Sono migliaia i servizi e negozi che non sono in grado di lavorare. Inoltre luce e forniture di gas sono discontinue. I soli mezzi che passano sono quelli dei peacekeepers russi e della Croce Rossa.
Il Nagorno Karabakh non è riconosciuto come indipendente da nessun paese al mondo, formalmente nemmeno dall’Armenia. I rapporti fra Stepanakert, la capitale (Khankedi in azero) e Mosca sono particolari, soprattutto in questo momento. I peacekeepers russi sono allo stato attuale i soli garanti della sicurezza dei 120.000 armeni del Karabakh e Stepanakert non manca di esprimere apprezzamento per la loro presenza, a differenza di Yerevan. Ma non è il solo distinguo fra i due “stati” armeni. Dal 2019 a Yerevan non c’è un uomo del Cremlino. Nikol Pashinyan non è una scelta politica di Mosca, ha raggiunto il potere attraverso una rivoluzione pacifica largamente basata su richieste di rinnovamento dello stato in una direzione più legalista, anti corruzione e contro lo strapotere dell’oligarchia.
Invece a Stepanakert è arrivato un uomo che con Mosca ha rapporti di ferro. Ruben Vardanyan è un oligarca sotto sanzione in Ucraina, con affari in Russia nella finanza ma anche in industrie strategiche del paese. Dopo aver vissuto tutta la propria vita professionale in Russia nel 2021 si è spostato nella nativa Armenia e per un certo periodo è sembrato poter diventare un antagonista politico di Pashinyan. Invece si è poi trasferito in Karabakh, ha rinunciato alla cittadinanza russa ed è diventato uno dei ministri dell’attuale governo de facto. L’Azerbaijan e i suoi manifestanti lo indicano apertamente un uomo di Mosca, paracadutato a Stepanakert a preservare gli interessi russi e ad assicurarsi che nessuna soluzione confligga con i piani e la presenza del Cremlino nell’area. Varadanyan sarebbe stato a Mosca nella seconda settimana di febbraio, trasportato fuori dal Karabakh attraverso un convoglio di peacekeeper. Secondo alcune fonti pare che anche il presidente de facto del Karabakh – Arayik Harutyunyan – abbia a sua volta usato lo stesso mezzo per andare a Mosca.
Intanto questa settimana si attiva sul terreno la Missione dell’Unione Europea in Armenia (EUMA). Il 31 gennaio è stato nominato un capo missione provvisorio, la sede principale della missione sarà a Yeghegnadzor con vari uffici sul campo a Goris e altre città armene. I monitor dovrebbero iniziare le pattuglie entro la fine del mese di febbraio.
Russia, Nagorno Karabakh, Iran e Azerbaijan
Secondo molti analisti l’aggressione contro l’Ucraina ha condannato la Russia a un significativo ridimensionamento della propria capacità di influenza. Questo, secondo gli azeri, è il motivo che ha spinto la Russia a mandare un personaggio come Vardanyan in Karabakh, proprio per non perdere terreno. Altri attori regionali infatti hanno sempre giocato un ruolo importante nel Caucaso e possono subentrare al protagonismo russo, in primis la Turchia, che ha trovato nell’Azerbaijan un presidio territoriale importante e vincente. Ma non solo: anche l’Iran.
Proprio i rapporti iraniano-azeri si fanno sempre più tesi, al punto da sfociare in aperte minacce rimbalzate e alimentate dai media. A gennaio è girato un video , e non sarebbe l’unico, con un coro di bambini iraniani in tenuta militare che cantava minacce contro il vicino su un ponte verso l’Azerbaijan.
I rapporti si erano distesi con un intenso lavorio diplomatico a fine mese con l’incontro dei rispettivi ministri degli Esteri a Tashkent e un incontro fra l’ambasciatore iraniano a Baku con il consigliere per la Politica estera all’ufficio del Presidente nella capitale azera. Ma proprio quando i toni si stavano abbassando, un uomo armato ha fatto irruzione nell’ambasciata azera di Teheran uccidendo una guardia. L’attentato all’ambasciata, che potrebbe avere un movente privato, ha riacceso i tizzoni della retorica aggressiva. Baku ha accusato l’Iran di non aver saputo proteggere l’ambasciata e di ignavia nelle indagini, se non di essere il mandante dell’attentato . Nel giro di pochi giorni un’operazione di polizia speciale ha portato all’arresto in Azerbaijan di quasi quaranta iraniani accusati di essere gli uomini dei signori della droga di Teheran che operano in loco.
Il terremoto
Nel pieno di questo groviglio si è verificato il terremoto in Siria e Turchia del 6 febbraio. Il drammatico evento ha molto colpito le opinioni pubbliche regionali, ognuno dei paesi caucasici enumera propri cittadini sotto le macerie turche e siriane. La reazione al terremoto ha riavvicinato le capitali, e non esclusivamente lungo le faglie geopolitiche. Azerbaijan e Georgia hanno mandato immediatamente squadre e aiuti. In questa occasione si è registrato il riavvicinamento fra Yerevan e Ankara, i cui tentativi di ricostruire un rapporto transfrontaliero sono resi molto più complessi dal blocco di Lachin. Il primo ministro Nikol Pashinyan e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si sono sentiti telefonicamente e squadre di soccorso armene hanno raggiunto sia la Turchia che la Siria. È da ricordare peraltro che la martoriata città di Aleppo è sede di una numerosa comunità armena, i cui numeri si erano già diradati però a causa della guerra.
L’Armenia è stata a sua volta vittima di un grande terremoto, nel 1988, e in quella occasione la Mezzaluna Rossa aveva attraversato il fiume Aras ad Alican, punto di ingresso in Armenia, per prestare aiuto. Sarebbe stata l’ultima volta che la frontiera fra i due paesi sarebbe stata aperta. Poi la guerra, l’interruzione delle relazioni diplomatiche e la chiusura dei confini avrebbero trasformato Alican in un passaggio invalicabile fra Armenia e Turchia.
Adesso, 35 anni dopo, di nuovo per un tragico terremoto, il passaggio di Alican è stato aperto , questa volta in direzione opposta, con le squadre di soccorso armeno che sono entrate in Turchia a ricambiare la solidarietà di tre decadi fa. Un gesto che ad Ankara non è passato inosservato.