Il buco nero del Nagorno Karabakh, a 25 anni dalla strage di Khojaly (Panorama.it 22.02.17)
Quello di Khojaly è un massacro terribile, un capitolo oscuro in una guerra dimenticata, quella del Nagorno Karabakh. Tra il 25 e il 26 febbraio del 1992, mentre l’attenzione internazionale era concentrata sui Balcani, a Khojaly vennero uccisi 161 civili di etnia azera durante la guerra in Nagorno Karabakh, un fazzoletto di terra tra Armenia e Azerbaijan che dal crollo dell’impero sovietico rivendica la sua indipendenza. Il Nagorno Karabakh, la Repubblica di Artsakh, è considerato dalla comunità internazionale uno Stato “sospeso”, uno Stato che non c’è. L’Azerbaijan lo reclama come suo, l’Armenia lo protegge sostenendone le istanze di autodeterminazione.
Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly
Il conflitto viene definito a bassa intensità e dal 1992 ad oggi non si è mai fermato. Ad aprile dello scorso anno il regime azero è intervenuto militarmente in Karabakh, facendo di fatto saltare ogni fragile tavolo di negoziazione auspicato fino ad allora. In Karabakh la guerra non si è mai spenta e tuttora il Paese vive blindato, irraggiungibile se non dal confine con l’Armenia, e tutti i suoi abitanti sono pronti a combattere ancora, perché la guerra non è mai finita.
Dal massacro di Khojaly è passato un quarto di secolo, ma su quei morti non c’è ancora chiarezza. Secondo il regime azero e alcune organizzazioni internazionali, la strage fu compiuta dalle truppe armene del 366esimo reggimento. Gli azeri dichiarano numeri più alti, 613 civili uccisi tra cui 106 donne e 63 bambini, e gridano al “genocidio”. Ma genocidio non fu.
Khojaly è una pagina terribile e infame nella guerra del Nagorno Karabakh, ma non fu “genocidio”.
E’ noto che il regime azero attua un controllo capillare sulla totalità dell’informazione e dei media azeri. Come riportato da prestigiosi e indipendenti indici internazionali, il regime di Baku è tra i più liberticidi e autoritari al mondo e il presidente azero Ilham Aliyev, dopo aver ereditato il potere dal padre, è giunto al terzo mandato presidenziale consecutivo con l’85% dei voti.
Andiamo ai fatti. Alla fine degli anni Ottanta, incoraggiati dalla relativa libertà di espressione introdotta da glasnost e perestrojka in Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh ribadirono il loro diritto all’autodeterminazione con un referendum per l’indipendenza svoltosi regolarmente il 10 dicembre del 1991, secondo le modalità sancite dalle leggi vigenti e dalla costituzione dell’Urss. Al referendum seguì una vera e propria invasione militare da parte dell’Azerbaijan contro il Nagorno-Karabakh.
Per più di un anno la popolazione civile di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, fu sotto il fuoco diretto di missili Grad e sottoposta a bombardamenti con bombe a grappolo dall’aviazione azera. Il ruolo dell’Armenia nella fase armata del conflitto, in mancanza di forze internazionali di interposizione, era quello di protezione dei civili nonché di assistenza umanitaria, economica e diplomatica. Invece, nelle operazioni militari erano coinvolte le forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh. Il 5 maggio del 1994 fu firmato l’accordo di Bishkek tra l’Armenia, l’Azerbaijan e la Repubblica del Nagorno Karabakh.
Per quel che riguarda i fatti di Khojaly, da più parti vengono rigettate le considerazioni di ong e organismi internazionali che non erano presenti sul posto durante gli eventi e che sostengono che “la strage fu commessa dalle forze armate armene”. Molte fonti azere e molte voci di alcuni giornalisti occidentali attivi in Caucaso in quegli anni parlano di fatti diversi, e la consueta manipolazione dell’informazione attuata dal regime azero porta nella loro direzione.
Il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere che bombardavano la popolazione civile armena. Alcune settimane prima del 25 febbraio 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azere sull’imminenza di una azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili.
Come riportato da fonti azere, quindi non armene, Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dichiara: ”Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono”.
E poi Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dice: “Alle 20.30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città. Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai…”.
Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly: “Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly”.
Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Si parla insomma della cosiddetta shield policy, che è una netta violazione del diritto umanitario internazionale . Inoltre, in una sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile 1992, il deposto Presidente azero Mutalibov afferma: “Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili”.
Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero. Sempre Mutalibov, in un’altra intervista nel 2001 ribadisce: “Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan”, alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly. Quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku.
Dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere e da giornalisti. Il regime azero degli Aliyev ha invece confezionato una “verità” armenofoba e finora i dissidenti azeri che hanno contestato tale “verità” sui fatti di Khojaly sono stati o arrestati o uccisi. Tutto questo, in aggiunta all’uso dei civili come scudo, rende le responsabilità criminali azere ancora più evidenti.
E i numeri sono importanti: negli ultimi sette anni, secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) la spesa militare azera è aumentata del 2.500 %, dati questi comparabili con il riarmo della Germania nazista negli anni trenta.
Tale circostanza, combinata con frequenti violazioni dell’accordo di tregua firmato nel 1994, con dichiarazioni palesemente guerrafondaie dalle più alte istanze dello Stato azero, dagli ambasciatori al Presidente, e con una campagna armenofoba nelle scuole azere promossa dallo Stato, è certamente l’ostacolo maggiore per il successo del negoziato mediato dal Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia) per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh. La retorica guerrafondaia e armenofoba del regime azero ha un sapore anacronistico e rimanda agli anni bui del Novecento.
Purtroppo, per la pace in Nagorno Karabakh quelle di Baku sono parole gravissime e creano instabilità e precarietà in tutto il sistema di sicurezza internazionale.
Oggi l’Azerbaijan si rifiuta di negoziare direttamente con il governo democraticamente eletto del Nagorno-Karabakh e rimanda al mittente le proposte OSCE sul ritiro dei cecchini dalla linea di contatto e sulla messa a punto di un meccanismo congiunto per indagini sulle violazioni del regime di tregua. L’Armenia invece è determinata ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto, soluzione che escluda alla base l’utilizzo dello strumento militare per la composizione finale. Posizione questa condivisa dalla comunità internazionale e richiesta alle parti in conflitto.
A fronte di tutto ciò, a venticinque anni dal massacro di Khojaly, l’augurio è che la classe politica azera trovi una nuova coscienza e possa finalmente condividere quanto scrisse Andrej Sacharov nel 1975 per il discorso di consegna del Premio Nobel per la Pace: “La pace, il progresso, i diritti umani, sono indissolubilmente collegati: è impossibile raggiungerne uno se gli altri sono trascurati”.