I Poeti armeni uccisi dal genocidio, vivi nella fede e nella poesia (ACIstampa 08.04.18)
Sono nati intorno agli anni ’60-’80 dell’Ottocento. Anni diversi, in luoghi diversi, con vite e destini diversi: chi proviene da famiglie agiate, che hanno permesso loro di studiare e viaggiare. Chi invece da famiglie modeste, che non avrebbero potuto permettere un’educazione approfondita per i propri figli, che hanno avuto la fortuna di incontrare sacerdoti e benefattori che li hanno aiutati. Alcune cose però li accomunano: sono armeni e sono poeti, scrittori, giornalisti, insegnanti, avvocati. Intellettuali. E se le loro date di nascita sono diverse, la loro data di morte è quasi la stessa, atrocemente in comune: sono morti tutti nel 1915.
Questo è l’anno del genocidio armeno, durante il quale almeno un milione di persone sono state deportate e poi brutalmente uccise per volontà del regime turco. I loro nomi sono Daniel Varujan, Siamanto’, Rupen Sevag, , padre Garabed der Sahaghian, Harutiunian, Hrant, Yerukhan, Rupen Zartarian, Ciogurian, Tlgadintzi, Parseghian. Nomi che, purtroppo, sono quasi del tutto sconosciuti alla maggior parte dei lettori italiani, ma che rappresentano il cuore della grande, appassionata cultura armena, che in particolare nella poesia ha raggiunto i suoi esiti più alti.
Per far risuonare ancora quelle voci soffocate nel sangue, per far vibrare il limpido ritmo di quel canto interrotto, è stata pubblicata una ricca antologia. Si intitola “Benedici questa corona di spighe. ..”, edita da Ares, è stata curata dalla Congregazione Armena Mecharista, con la collaborazione di Antonia Arslan, la scrittrice che forse più di chiunque altro, in questi ultimi anni, ha contribuito a far conoscere la verità della tragedia del popolo armeno, a partire dal suo bellissimo e commovente romanzo “La masseria delle allodole”.
Ricorda la Arslan, nel suo Invito alla lettura dell’antologia, che “come una folgore improvvisa”, come “un terremoto inaspettato che apre voragini e scuote ogni cosa”, è giunta quella fatidica notte del 24 aprile 1915, quando furono arrestati uno dopo l’altro a Costantinopoli i principali esponenti della comunità armena che si era costituita nell’impero ottomano. “Le ombre degli scrittori assassinati sono riemerse un poco alla volta”, spiega la scrittrice, “sono diventati personaggi reali, protagonisti del racconto infinito di quella tragedia incombente che venne realizzata giorno dopo giorno, con l’astuzia di tenere i prigionieri all’oscuro del loro destino”.
I loro versi e le pagine dei romanzi e racconti rievocano, tra il dolore e la sofferenza generati da un destino di oppressione e di violenza – i massacri di armeni non sono certo iniziati nel 1915 – un mondo straordinario spazzato via: quello dei villaggi di campagna e di montagna, delle piccole città e dei quartieri dell’antica Costantinopoli in cui gli armeni hanno vissuto creando bellezza e cultura, attraverso la forza fondante della fede cristiana, della prima nazione cristiana della storia.
Nei versi di Varujan ( il più noto di questi letterati nel nostro Paese, grazie alle bellissime traduzioni curate dalla Arslan), di Sevag, di padre Garabed e di Hrant, di tutti coloro di cui oggi possiamo rileggere la parole, rivediamo i contadini felici nella loro terra, anche quando diventa arida e crudele, ascoltiamo il loro canto d’amore elevato a Dio, lo sguardo rivolto alle pietre delle chiese antichissime e adorne di fiori e di spighe, con la speranza è la forza della preghiera.
Un’eco della preghiera armena fatta canto e poesia ora potrà riecheggiare entro le mura vaticane. Il 5 aprile, infatti, è stata inaugurata una statua di San Gregorio di Narek nei giardini vaticani, con una cerimonia solenne alla presenza di papa Francesco, e con incontri con il presidente del l’Armenia , Serzh Sargsyan, del Catholicos di tutti gli armeni, Karekin II e il Catholicos di Cilicia, Aram I. Un momento importante, all’insegna dell’ecumenismo, che lo stesso Pontefice ha definito “ecumenismo del sangue”.
Con un senso tangibile: quella statua dedicata al grande santo, il monaco armeno vissuto nel X secolo, proclamato proprio da Papa Francesco dottore della Chiesa e considerato tale anche dalla Chiesa apostolica armena. Leggendo i poeti nell’antologia appena pubblicata la mente potrà vagare anche tra la pace dei giardini all’ombra del Cupolone, sotto lo sguardo gentile del grande Gregorio e di là volare verso le valli incantate ai piedi del monte Ararat, dove ogni cuore armeno vuole sempre tornare. E dove ogni cuore che anela all’ infinito vorrebbe riposare.