«I miei esodi da Beirut, tracce indelebili di dolore» (Ilmanifesto 12.08.20)
«Spaventata e terrorizzata, non riuscivo neanche a piangere». Nata a Beirut e trapianta a Roma, Layla Mustapha Ammar è islamologa e si occupa di costruzione della identità femminile nel mondo arabo-islamico. Dopo un dottorato sulla presenza della donna nell’opera di Sayyid Qutb, ha preso parte al volume Protagonismo delle donne in terra d’Islam, Appunti per una lettura storico-politica (a cura di Layla Karami e Biancamaria Scarcia Amoretti, Ediesse 2015).
Come ha vissuto queste giornate?
È accaduto di nuovo, mi dicevo, Beirut è in fiamme, l’apocalisse di un’esplosione nel porto non lontano dal luogo in cui ho vissuto la mia adolescenza, una tragedia che lentamente e da vicino mi ha divorato il cuore, solo al pensiero degli innocenti che avevano perso la vita scomparsi nell’inferno dei capannoni, vittime inghiottite sotto le macerie.
Ha lasciato il Libano nel 1990.
Sì, per fuggire dalla guerra iniziata nel 1973; la scelta della mia famiglia di lasciare Beirut e andare a vivere in un altro paese, in Canada, era stata già presa con grande amarezza nella consapevolezza di non poter fare nulla contro una situazione tanto difficile e senza futuro per noi (siamo cinque figli). La decisione era «lasciare tutto per vivere la vita stessa, in pace». Dopo la guerra del 1973, ho assistito all’invasione d’Israele nel 1983, in seguito i bombardamenti del 13 luglio 2006, la prima volta con i miei genitori e la seconda volta con la mia famiglia. Con i miei figli, nati e cresciuti in Italia, siamo tornati in Libano per fargli visitare il paese, mi è sembrato di rivivere il mio esodo, da ragazza prima e da madre poi. Sono tracce indelebili di dolore, senso di ingiustizia e impotenza.
In che ambiente si è formata?
I nostri vicini erano sunniti, sciiti, cristiani, armeni e palestinesi. Sono cresciuta in un ambiente familiare molto aperto (da parte di mia madre) e molto conservatore (da parte di mio padre), che come tanti libanesi lavorava in Arabia Saudita per mantenerci. In questo contesto io sognavo di volare, allontanarmi da una isteria collettiva che colpiva durante i bombardamenti, quando il rumore assordante delle bombe mandava tutti in delirio e si correva velocemente nei rifugi e ognuno pregava a modo proprio, si sentiva il mormorio della Fatihah da una parte, e si percepiva il segno della croce dall’altra parte, tutti lì in silenzio ore e ore ad aspettare coltivando pazienza, fede e speranza.
Quali sono i ricordi della sua infanzia che le stanno più a cuore?
Dopo la preghiera del mattino, mio nonno Hajj Ibrahim andava per fare la fila e procurarci il pane, si mangiava un solo pasto al giorno e l’altro doveva essere distribuito ai vicini oppure ai poveri. Il ricordo più bello era quello di mia nonna Nena-al-Khansa, con lei avevamo fatto un accordo segreto nel quale ricevevo come ricompensa per ogni giorno di digiuno mezza lira e per ogni preghiera altrettanto, ero la sua preferita e camminavo fiera con lei senza imbarazzarmi del suo velo bianco, ripeteva che potevamo morire in qualunque momento anche senza la guerra.
Ha delle letture a cui ritorna e che le sono di riferimento?
Sono legata alla letteratura del Mahjar (d’emigrazione) che raccoglie la scrittura in arabo prodotta da scrittori libanesi emigranti e sviluppatasi negli Stati Uniti, penso alle parole universali di Khalil Gibran e a quelle di Ameen Al Rihani, entrambi hanno conservato la propria autenticità. Tra i contemporanei mi piace segnalare Elias Khuri, Amin Maalouf. Hoda Barakat nel suo Malati d’amore è talmente realistica, con lo sfondo della guerra civile in Libano, da sembrare quasi irreale. Brava e coraggiosa.
Il suo augurio per Beirut?
Di rialzarsi dalle ceneri. Ferita nel profondo, abbandonata a se stessa e al vento degli invasori, dei traditori eppure ce la farà ancora una volta. Abbiamo speranza, crediamo in Beirut e in chi la abita.