“I baroni di Aleppo”: intervista a Flavia Amabile (Hotelbaron 09.02.21)
Pubblicato nel 1998 da Gamberetti editrice e ristampato nel 2009 da La lepre Edizioni, I baroni di Aleppo è il primo (e finora unico) libro in lingua italiana dedicato all’Hotel Baron di Aleppo. Non potevamo quindi non partire da quelle pagine per tentare di costruire le fondamenta di questo secondo, virtuale Baron. Così come non potevamo non fare due chiacchiere con Flavia Amabile, giornalista de “La Stampa” e autrice -insieme a Marco Tosatti- del volume.
Flavia, come hai scoperto la vicenda dell’Hotel Baron di Aleppo? Che cosa vi ha spinto a scriverne?
Eravamo in viaggio in Siria. Giravo il Paese per scrivere un libro di viaggi. Siamo capitati al Baron’s Hotel seguendo il racconto di un libro sugli alberghi letterari. Arrivavamo da Raqqa, in questi anni nota come capitale dello Stato islamico creato dall’Isis, allora un tranquillo e anonimo paese lungo l’Eufrate. Dopo un viaggio di alcune ore in un minibus stipato di siriani, entrare al Baron’s ci parve un viaggio nel tempo e nello spazio. Il deserto e il Medioriente erano rimasti fuori, dentro si respirava un’atmosfera da Inghilterra degli anni Trenta. La sera abbiamo incontrato il proprietario, ci siamo fatti raccontare la storia dell’albergo e abbiamo deciso di scriverla.
La famiglia armena Mazloumian vive nel villaggio di Anchurty (Turchia orientale), ma è costretta ad abbandonarlo intorno al 1860 a causa delle incursioni dei soldati ottomani che rastrellano i cristiani distruggendo campi e raccolti. Inizia così il viaggio verso Aleppo -allora la seconda metropoli dell’Impero- di Krikor Mazloumian, il patriarca. È proprio lui, appena giunto in città, ad avere l’intuizione che cambierà la sua vita e quella dei suoi discendenti: aprire un hotel che si chiamerà Ararat prima e Hotel du Parc poi. Da dove nasce questa idea?
Da secoli Aleppo era il crocevia dei commerci tra occidente e oriente, chi rimaneva a dormire in città utilizzava i khan, i caravanserragli, non adatti al turismo che avrebbe portato la nuova ferrovia in costruzione con il mitico treno Orient-Express in arrivo da Londra. Di viaggiatori europei infatti ne sarebbero arrivati tanti e il Baron’s divenne l’approdo naturale.
Nel novembre del 1911 gli sforzi congiunti dei due figli di Krikor, Onnig e Armen, portano alla fondazione del Baron’s Hotel, l’hotel dei “signori”. Che cosa offriva di innovativo ai viaggiatori che arrivavano ad Aleppo?
Era un albergo più vicino agli standard occidentali. Aveva vere e proprie stanze, un servizio ristorante, arredi di pregio e un modo di accogliere i viaggiatori che lo rese una tappa obbligata nel viaggio verso Oriente.
Capi di stato, archeologi, nobili europei, soldati: il mondo di inizio secolo prese alloggio nelle camere del Baron. Quali furono gli ospiti più eccentrici?
Ce ne furono molti. Abbiamo cercato di ricostruire nel libro alcune storie, dalla scrittrice Agatha Christie a Lawrence d’Arabia fino allo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini in tempi più moderni.
In media venivano consumate ogni giorno tre casse di champagne, ma il cibo? Che cosa avremmo gustato di speciale durante una cena nella golden age dell’Hotel Baron?
Cibo di tipo europeo. Carni cucinate con sapienza, verdure, dolci raffinati.
Ci ha molto colpito scoprire il ruolo che giocò l’Hotel nell’ostacolare prima e individuare poi alcuni responsabili del genocidio armeno; come andarono le cose?
Il Baron’s fu in prima linea sia nel salvare le vite di tanti armeni che nella fase dell’individuazione dei responsabili. I Mazloumian nascosero Aram Andonian, il giornalista che avrebbe portato le prove del genocidio nel processo che si sarebbe tenuto alla fine della prima guerra mondiale.
Krikor (detto “Koko”) è il figlio di Armen Mazloumian. È lui, terza generazione della famiglia, a rinnovare, dopo un viaggio in Europa, l’Hotel dotandolo di un bar alla moda. É la svolta, vero?
Fu la svolta davvero. Portò a Aleppo l’atmosfera della Londra degli anni Trenta. Creò un Savoy (dal nome del ricercato albergo londinese) nel Medio Oriente.
Poi, nel 1964, con il socialismo di Nasser arriva la crisi: le banche vengono nazionalizzate e a causa di un investimento fallimentare (al quale non avrebbe neppure voluto partecipare), “Koko” è costretto a cedere la proprietà del Baron, pur continuando a gestire l’hotel. La fine di un’epoca che riserva però delle sorprese, come l’arrivo di Pasolini ad Aleppo. Come andò in quell’occasione?
Pasolini è sempre stato molto attento ai luoghi dove ambientava i suoi film. Per girare alcune scene di Medea scelse la cittadella di Aleppo e con l’intera troupe sbarco al Baron’s. Vi rimase a lungo facendo amicizia tra i giovani della città e reclutando molti di loro fra le comparse, anche la figlia di Koko apparve in una delle scene.
Solo nel 1982 “Koko” e il figlio riescono a riacquistare l’albergo, cancellando in parte i debiti pregressi. Ma l’hotel, prostrato dalle infinite battaglie legali, è ormai surclassato dalla concorrenza. Visitandolo nel 2010, appena prima del disastro, lo abbiamo trovato un meraviglioso simulacro del passato. L’hai visitato? Quando? Che impressioni hai avuto?
L’ultima volta che ho visitato il Baron’s è stato durante gli anni Novanta. Ho però parlato diverse volte al telefono con Armen, l’ultimo erede dell’albergo, dopo lo scoppio della guerra. Mi raccontò delle bombe, del cibo razionato, della linea del fronte che passava proprio a pochi metri da lì. Ho scritto alcuni articoli per raccontare quello che stava accadendo al Baron’s e ho trasformato poi questo triste epilogo in un ultimo capitolo che è stato aggiunto alla traduzione tedesca pubblicata di recente.
Da quali libri avete attinto informazioni per stendere “I Baroni di Aleppo”? Quali consigliereste per approfondire? Esistono libri fotografici dedicati al Baron?
Siamo stati i primi a riportare tutta la storia del Baron’s, non c’erano libri da consultare quando l’abbiamo scritto se non per la cornice storica. La nostra fonte è stato il racconto dal vivo di Armen Mazloumian. Per ascoltare i suoi ricordi abbiamo trascorso due settimane ad Aleppo. Quando terminava la sua giornata di lavoro, intorno alle dieci di sera, apriva la porta dello studio e ci faceva entrare. Rimanevamo lì fino a notte inoltrata. Le uniche integrazioni al suo racconto sono stati alcuni materiali trovati in archivi a Parigi.