Gli Armeni tra Baku ed Istanbul (Gariwo 21.04.16)
Sono arrivato in Armenia l’ultimo giorno degli scontri del 2-5 Aprile tra Armeni e truppe dell’Azerbaigian. Ho avuto, il giorno stesso e quelli successivi, numerose conversazioni con Armeni di tutti i ceti sociali e di tutti i livelli culturali e sono rimasto colpito dal misto di preoccupazioni attuali e ansie antiche. In quanto alla situazione obiettiva erano menzionati la ripresa di una guerra interrotta da più di venti anni, il numero notevole di vittime, lo squilibrio delle forze, il ruolo ambiguo della Russia e il silenzio della direzione politica armena. Ma s’intravedeva anche il fantasma pesante di un passato sanguinoso: la paura di perdere l’ultima unità territoriale abitata dagli Armeni fuori dalla Repubblica d’Armenia, il risveglio dei ricordi dei pogrom di Sumgait, Baku, Kirovabad, fino al trauma del 1915 e alle sue conseguenze umane, morali, politiche disastrose, e questo a pochi giorni dalla commemorazione del centunesimo anniversario del genocidio.
Esiste naturalmente il rischio di mescolare tutto, cedendo alla confusione o a reazioni estremiste incoraggiate da un’esplosione di emozioni fuori controllo. Abbinare il genocidio, la vicenda con la Turchia e quella con l’Azerbaigian e l’Alto Karabagh, al punto di nominare gli Azeri « Turchi », vuol dire mischiare dati, contesti storici e geopolitici che sono totalmente diversi. Tale sovrapposizione nutre ed è nutrita dal complesso della vittima eterna, un giogo che, accecando le coscienze, può portare a dei passi erronei e alla lode della violenza redentrice – elementi che non aiutano certamente a trovare soluzioni durevoli a entrambi i problemi.
Tuttavia, in questo periodo di commemorazione del 24 Aprile 1915, non possiamo non chiederci se questo stato d’animo ambiguo sia totalmente sbagliato. La Turchia ha da anni legato la risoluzione della questione armena con quella del conflitto tra l’Armenia, l’Alto Karabagh e l’Azerbaigian, essendo questo l’alleato etnico, politico più vicino alla Turchia. Ammettiamo che la Turchia abbia almeno parzialmente ragione; troveremo allora la forza del significato morale e simbolico della rivendicazione del Karabagh per gli Armeni nel legame con la memoria ferita del genocidio e nella convinzione che il riconoscimento del carattere armeno dell’Alto Karabagh sia un perno delle giuste compensazioni alle conseguenze tragiche dello sterminio. Sbagliano totalmente?
Spiegamoci. Il filosofo francese Paul Ricœur accennava in un articolo, Perplexités sur Israël (pubblicato nella rivista Esprit, nel Giugno 1951), alle condizioni di legittimità della fondazione dello Stato d’Israele dopo la Seconda guerra mondiale. Scartando qualsiasi tipo di fondamento religioso o nazionalistico che pretenderebbe di giustificare un diritto di proprietà del popolo ebraico sulla Palestina, faceva fuoco su un motivo morale: il debito della comunità internazionale nei confronti del popolo ebraico, dovuto alla sua incapacità a tenerlo al riparo dalla Shoah – dunque la volontà di assicurare un rifugio sicuro agli Ebrei. Credo che possiamo spostare almeno in parte questo schema al caso armeno. Molti esprimono perplessità sul conflitto dell’Alto Karabagh: «picrocolino» (dalle guerre pigrocoline nel Gargantua di Rabelais) fra popoli vicini, che si strozzano per un territorio appena equivalente a una provincia italiana, a un «département» francese (4000km quadrati) e una popolazione di circa 150000 abitanti. Molti si lamentano della rabbia nazionalistica che nel Caucaso non è stata superata nemmeno dopo tante stragi. Tutto questo è vero: i popoli della regione sono prigionieri di una storia in gran parte distorta, fatta di prepotenza, sciovinismo, odio e violenze. Ma ciò nonostante vorrei accennare a due ragioni fondamentali che potrebbero accreditare l’assennatezza delle aspirazioni armene.
Innanzitutto la volontà della popolazione armena del Karabagh di uscire dall’Azerbaigian, causata dalla minaccia di una politica nazionalistica fondata sull’odio degli Armeni. Questo fatto rinvia al principio di autodeterminazione, che non è mai stato respinto dalla comunità internazionale a proposito del Karabagh. Si tratta di evitare la sorte degli Armeni del Nakhitchevan, regione autonoma tra l’Armenia e la Turchia, anch’essa consegnata all’Azerbaigian da Stalin, mentre la Turchia fu ammessa come garante della decisione: gli Armeni che, all’inizio degli anni trenta, rappresentavano il quaranta per cento della popolazione totale, sono stati costretti poco a poco a lasciare le loro terre. Non bisogna dimenticare che il carattere armeno della regione dell’Alto Karabagh era già stato riconosciuto tramite lo statuto di «regione autonoma» conferito da Stalin. Almeno due volte – per il Kosovo e il Sud Sudan – la comunità internazionale ha consentito a violare il principio dell’integrità territoriale, quando ha giudicato che la vita delle popolazioni era minacciata da uno Stato intollerante e omicida. Nello stesso modo, gli Azeri hanno risposto con pogrom al movimento di secessione degli Armeni, e civili armeni sono stati uccisi e mutilati durante gli scontri recenti. Purtroppo pochi dubitano che, se gli Azeri riuscissero a impadronirsi del Karabagh, la rabbia della vendetta e la loro cultura dell’odio indurrebbero molti a commettere delle atrocità.
In secondo luogo, c’è un elemento di cui tutti gli Armeni, siano dentro o fuori dall’Armenia, sono consapevoli: l’Alto Karabagh è l’unica restituzione territoriale e umana possibile a mo’ di compensazione parziale della castastrofe del 1915 e della caduta nell’ abisso fino al 1923, al Trattato di Losanna, accanto alla formazione dell’Unione Sovietica. La comunità internazionale – innanzitutto le grandi potenze europee, americana, russa, politicamente responsabili del retaggio tragico degli Armeni e della situazione attuale – non può ignorare questo peso storico-morale. Oggi, quando il processo di democratizzazione in Turchia è insabbiato nella deriva autocratica di Erdogan, che nuoce anche alla promozione dei diritti della minoranza armena e a una sincera rilettura del passato, la comunità internazionale, cominciando dai Paesi europei, deve capire l’urgenza di un intervento in una zona già incandescente, e mandare un messaggio chiaro alla Turchia tramite il suo alleato azero.
Queste considerazioni incitano a promuovere l’accelerazione del processo pacifico di negoziazione dentro al gruppo di Minsk dell’Osce. Una soluzione ragionevole dovrebbe assicurare, fuori dalla sovranità Azerbaigiana, tanto la continuità territoriale dell’Armenia col Karabagh – unica garanzia minima della sopravvivenza degli Armeni nella regione-, quanto il ritorno degli Azeri laddove rappresentavano la maggioranza relativa. Non si dovrebbero escludere delle concessioni territoriali da entrambe le parti.
Ma un’ultima domanda emerge: perché sollecitare l’Azerbaigian e non la Turchia? È vero che l’Azerbaigian non era partecipe del processo genocidiario intrapreso contro gli Armeni dell’Impero ottomano, ma possiamo proporre elementi di risposta:
– lo stesso valeva per Israele: perché colpire la Palestina e non la Germania? Perché era l’unica via di compenso concepibile, visto che gli Ebrei reali, non i loro fantasmi, vivevano già su questa terra che avevano scelto come terra d’insediamento.
– i legami tra Turchia e Azerbaigian sono antichi. I governi dei due Paesi ripetono lo slogan famoso: «una nazione, due Stati». Abbiamo in mente le parole di Erdogan del 3 aprile, in mezzo alla breve guerra di quattro giorni : la Turchia sosterrà l’Azerbaigian « fino alla fine », conferma la volontà permanente, da parte del governo turco, di abbinare la sua propria questione armena e la vicenda tra l’Azerbaigian e l’Armenia. Inoltre, Baku non esita da anni a farsi capofila spietato del negazionismo del genocidio armeno.
– la rivalità secolare tra la Turchia e la Russia, quella che regnava già sulla regione all’inizio del Novecento, emerge di nuovo. Queste potenze si affrontano influenzando tutti i conflitti della zona, in particolarmente quello dell’Alto Karabagh. Non possiamo lasciare che i popoli del Caucaso – e sopratutto gli Armeni che hanno sofferto al massimo grado di questa concorrenza regionale – paghino per questa resa dei conti.
Solo l’accettazione di tale necessità permetterebbe un passo avanti decisivo verso la pace, essendo la via più sicura affinché si trovi una soluzione ragionevole per tutte le parti, che offrirebbe anche alla comunità internazionale la possibilità di far capire ai governanti turchi l’importanza di riconoscere le piaghe del passato per risolvere i problemi del presente, comprese le stragi di Daesh nella regione. Per questo occorre lo sforzo di tutti, cominciando dall’Europa e gli Stati Uniti, per costringere le parti – Russia compresa – ad accettare una logica di compromesso autentico, permettendo di risparmiare tante vite e di fare un passo avanti nella stabilizzazione della regione, anche da parte della Turchia, alla luce di una rilettura illuminata del passato.