“Genocidio degli armeni, l’allarme inascoltato dell’ambasciatore italiano a Costantinopoli ” (Lastampa.it 24.04.19)
Laura Mirakian
È il 28 agosto 1896 quando da Costantinopoli l’ambasciatore Alberto Pansa, accreditato presso la Sacra Porta e decano del corpo diplomatico, trasmette a Roma un telegramma del seguente tenore: «Ho testé inviato al Sultano, anche a nome delle Grandi Potenze, una urgente missiva per descrivere i massacri, gli assassini, le violenze in atto contro gli armeni. Stermini nelle strade e altresì nelle case sono in corso nella Capitale e in altri villaggi del Bosforo. Ho chiesto che egli dia ordini immediati, precisi, categorici, perché si metta fine allo stato delle cose, che è tale da condurre alle conseguenze più disastrose per il Suo impero».
E prosegue, l’ambasciatore Pansa, informando Roma che se non otterrà risultati «entro domani» si recherà personalmente con i cinque colleghi ambasciatori dal Sultano stesso per confermare la «più formale protesta». E a fine pagina annota che, mentre sta scrivendo, «due armeni sono stati assassinati davanti all’Ambasciata».
Questa preziosa testimonianza, un testo redatto in francese secondo il costume dell’epoca, in due fogli consunti dal tempo ma perfettamente leggibili, è stata inserita per la prima volta tra i documenti storici esposti nella vasta rassegna in corso alla Farnesina a cura del Servizio storico del ministero degli Esteri sulla diplomazia italiana. È corredata da stralci delle note personali dell’ambasciatore, ove trapelano senza mezzi termini forte riprovazione e scandalo.
Onore all’ambasciatore Pansa, esempio di coraggio, sensibilità, dirittura morale, lealtà al giovane Stato italiano. Testimonianza preziosa, perché poco è stato rivelato delle persecuzioni, deportazioni, spoliazioni di beni, l’immensa tragedia (Metz Yeghern) di quegli interminabili anni, conclusisi solo nel 1922 con gli incendi dei quartieri di Smirne abitati dagli armeni, che vi erano approdati alla fine di lunghe marce forzate attraverso l’intera Anatolia. Quegli incendi segnarono l’esodo definitivo dalle loro terre di insediamento.
La deportazione degli armeni
Solidarietà con gli ebrei
Oggi che papa Bergoglio ha pubblicamente riconosciuto il genocidio, e che negli anni molti parlamenti europei (Germania, Francia, Svizzera, Austria, Svezia e altri, ivi incluso il Parlamento europeo) hanno formalmente statuito che di questo si è trattato, possiamo commemorare insieme quel 24 aprile 1915 in cui l’intera intellighenzia armena fu appesa ai pali dell’impiccagione. Lo facciamo in totale solidarietà con il popolo ebraico, tragicamente erede di quel primo genocidio del XX secolo, rabbrividendo di fronte alle parole beffarde di Hitler mentre ne sanciva la «soluzione finale»: «Chi ricorda più lo sterminio degli armeni?».
Un popolo sconfitto? Certamente no. Esiste, in un lembo di Caucaso, una giovane Repubblica di Armenia che nell’aprile del 2018 ha dato prova di saper transitare pacificamente verso una modernizzazione economica e politica, nella ricerca di un difficile equilibrio geopolitico tra Oriente e Occidente. Una «rivoluzione colorata», si direbbe, che ha condotto al potere Nikol Pashinyan, attivista dei diritti e delle libertà democratiche. Trai suoi primi gesti, i contatti con l’Azerbaigian per rafforzare il cessate-il-fuoco nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, aprire canali di comunicazione, lasciar transitare aiuti umanitari. Ed esiste una diaspora armena in Europa e nel mondo che, fin dalla prima ora, ha dato prova di grande vitalità nel percorrere un modello di piena, fruttuosa integrazione nei Paesi di accoglimento senza mai sconfinare nell’assimilazione.
Gli armeni sono impegnati in una straordinaria, silenziosa battaglia contro l’oblio. Sorretta dalle croci rosa di pietra intagliata (khachkars) di cui hanno costellato le loro terre e dalle preziose miniature religiose degli amanuensi medievali, e dall’amore per l’arte, la musica e la cultura, in una visione liberale e aperta a quella degli altri.
Tra due imperi
Tutto mirabilmente documentato nella mostra al Metropolitan di New York intitolata semplicemente «Armenia». Sorretta da una storia che li ha collocati tra due grandi imperi, romano e persiano, arricchita dai contatti con le città mesopotamiche e con gli antichi greci, giù dalle montagne fino al Mediterraneo, e più tardi snodo cruciale dei grandi circuiti commerciali sul tragitto della Via della Seta, fino a Venezia. E sorretta soprattutto dalla religione cristiana, adottata fin dal 312 d.C. precedendo Costantino. No, il progetto di pulizia etnica e ingegneria sociale che ha colpito gli armeni nel passato non ha potuto spegnerne la forza d’animo, non ha potuto annientarli. Noi ne siamo i fieri e orgogliosi figli.