FOCUS ARMENIA La questione armena e l’Osservatore Romano (AciStampa 10.08.24)
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Lo scorso 5 agosto, la diocesi dell’Artsakh della Chiesa Apostolica Armena ha protestato ufficialmente contro un articolo pubblicato a fine luglio dall’Osservatore Romano. Lo stesso quotidiano della Santa Sede ha ospitato l’1 agosto un dettagliato articolo di precisazioni dell’arcivescovo Khajag Barsamian, liaison della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede.
Per chiarire, la diocesi di Artsakh è quella del Nagorno Karabakh. Artsakh è, infatti, l’antico nome armeno della regione. Il conflitto recente ha consegnato sotto il controllo dell’Azerbaijan il territorio del Nagorno Karabakh che si era garantito una sorta di indipendenza, pur non essendo mai riconosciuto come Stato nemmeno dalla stessa Armenia.
L’articolo cui si fa riferimento è stato pubblicato il 24 luglio, a firma della studiosa Rossella Fabiani, con il titolo: “Viaggio nell’antica Albania caucasica. Alle radici del cristianesimo”.
Gli armeni lamentano un “genocidio culturale” in atto nella regione da quando, a partire dal 1918, fu data all’amministrazione dell’Azerbaijan, e dettagliano la scomparsa di diversi manufatti cristiani nell’ultimo secolo. Da parte sua, l’Azerbaijan lamenta parimenti la scomparsa di diverse moschee da quando l’etnia armena aveva preso il controllo della regione, e sottolinea la presenza antica di una etnia “albaniana”, ricostruzione sempre negata dagli armeni.
La questione dell’articolo dell’Osservatore Romano si inserisce in questa situazione, ed ha comunque ripercussioni molto forti su una popolazione provata da anni di conflitto e spaventata dal fatto di perdere parte delle proprie vestigia cristiane. È anche una questione diplomatica, perché l’Azerbaijan ha mantenuto cordiali rapporti con la Santa Sede, la fondazione del presidente Aliyev ha finanziato importanti restauri in Vaticano ed è stata aperta anche una ambasciata presso la Santa Sede – prima c’era un ambasciatore non residente.
Ma tocca anche la parte armena, impegnata a difendere l’eredità cristiana del Paese, laddove ai contatti diplomatici dell’ambasciata di Armenia presso la Santa Sede – che è posto di prestigio nella carriera diplomatica armena – si aggiungono quelli ecumenici con la Chiesa Apostolica Armena che più volte hanno toccato il tema dell’Artsakh.
Le proteste, dunque. La diocesi dell’Artsakh della Chiesa Apostolica Armena ha rilasciato il 5 agosto una dichiarazione ufficiale in cui “considera un articolo del giornale vaticano ufficiale L’Osservatore Romano che descrive le famose chiese armene del Nagorno Karabach come ‘albaniane’ una distorsione della storia e un servizio alla propaganda azerbaijana”.
La diocesi ha sottolineato inoltre che “prima di pubblicare un articolo di propaganda, l’autore avrebbe dovuto almeno familiarizzare un minimo con gli eventi che hanno avuto luogo appena qualche mese fa, i loro motivi, e perciò la reale storia di Dadivank, Gandzasar e Kathravank (antichi monasteri armeni in Nagorno Karabakh, ndr) e cercare di capire in quale linguaggio sono le iscrizioni e perché sono armene”.
L’1 agosto, l’arcivescovo Barsamian ha risposto pubblicamente sulle pagine dell’Osservatore Romano, sottolineando che “sorprende, per esempio, la definizione geografica dell’antica Albània caucasica come il territorio che ‘si estendeva dalle montagne, a nord, al fiume Aras a sud e dal mar Caspio, a est, ai confini della Georgia (allora Iberia) a ovest’.”
La sorpresa risiede nel fatto che “si ignora l’esistenza dell’Armenia, uno degli antichi regni caucasici con cui, secondo tutte le fonti classiche e armene, confinava l’Albània. Dall’altro canto, l’estensione dell’Albània fino all’Aras (l’Arasse nelle fonti classiche) contrasta con la testimonianza di quelle stesse fonti. Esse parlano, piuttosto, di un’Albània estesa a nord del fiume Kura, dove si trovavano il centro politico e religioso del Paese, la Chiesa tradizionalmente ritenuta come prima Chiesa albana e dove sono state rinvenute le uniche sette iscrizioni albane a oggi note. Solo alla fine del IV secolo furono inglobate nel territorio albano originario le terre che si stendevano a meridione, fin verso il fiume Arasse”.
Barsamian sottolinea che “la penetrazione del cristianesimo nel Caucaso e la relazione tra le tre Chiese nazionali — albana, armena e georgiana — formatesi in quella regione è un argomento complesso, non del tutto chiarito”.
Le Chiese della regione – spiega Barsamian – fanno tutte risalire il cristianesimo caucasico al I secolo, e tutti condividono la ricostruzione storica che nota come nel IV secolo le élite adottarono il cristianesimo come religione di Stato, ma per questo “risulta singolare che si parli dell’importante scoperta dei palinsesti albani del Sinai, asserendo che essi confermano l’esistenza delle prime chiese dell’Albània caucasica già nel I secolo”, perché queste dimostrano piuttosto che “le fonti armene, in particolare lo storico Koryun, fossero nel giusto quando parlavano dell’esistenza nel Caucaso di tre alfabeti — armeno, albano e georgiano — usati per tradurre le scritture già agli inizi del V secolo”.
Barsamian nota anche la difficile convivenza tra Chiesa armena e Chiesa Albana, la quale subì una forte influenza da quella armena, e questo sin dagli inizi e non, come dice l’articolo ‘incriminato’, agli inizi del XIX secolo a seguito del trattato di Turkmenchay del 1828 e dell’abolizione della Chiesa d’Albania e la sua subordinazione a quella armena nel 1836, per volontà dello zar Nicola I.
L’arcivescovo Barsamian nota che le chiese dell’Artsakh riportate nell’articolo “portano solo iscrizioni armene che datano almeno dal XI – XII secolo, mentre non c’è traccia di iscrizioni albane? Infatti, il migliaio di iscrizioni studiate dall’orientalista Iosif Orbeli e appartenenti alla Chiesa albana citate nell’articolo, sono tutte in armeno e risalgono a molti secoli prima della presunta ‘armenizzazione’ di quella Chiesa agli inizi del 1800”.
Insomma, conclude l’arcivescovo, “trattare questi argomenti pone una questione etica, in particolare quando la storia irrompe nel presente, e bisogna fare attenzione a non alimentare ulteriormente tensioni che hanno già causato migliaia di morti e indotto decine di migliaia di armeni a lasciare la propria terra, abitata da tempi immemorabili”.
Da cosa nasce la questione armena? Dalla scelta sovietica di attribuire all’Azerbaigian le regioni contese di Nakhichevan e Nagorno- Karabakh – la prima a prevalenza azera, la seconda con una schiacciante maggioranza armena – che ha rafforzato una ostilità da Azerbaijan e Armenia presente già d prima della Rivoluzione Russa.
Nel 1988, gli armeni del Nagorno Karabakh chiesero di unirsi all’Armenia. Prima, ci furono massacri di armeni nelle città azere di Sumgait e Baku, quindi tra il 1992 e il 1994 scoppuò una guerra, che portò alla nascita dalla Repubblica Armena dell’Artsakh, non riconosciuta a livello internazionale che includeva territori in precedenza abitati da azeri.
Dopo tre decenni, l’Azerbaijan ha ripreso il controllo della regione, prima con la guerra del novembre 2020 e poi con un breve intervento militare nel settembre 2023, mentre l’intera popolazione armena del Nagorno Karabakh è stata costretta a fuggire.
Ora, negli occhi c’è il precedente del Nakhicevan, dove si parla dell’annientamento di circa 90 chiese e 10.000 khachkar, le croci di pietra caratteristiche dell’arte sacra armena.
Per quanto riguarda il Nagorno Karabakh, il programma di ricerca Caucasus Heritage Watch, realizzato dagli archeologi delle università statunitensi di Cornell e Purdue, ha documentato (dati al settembre 2023) che sui 452 siti monitorati, già 57 risultano distrutti, danneggiati o minacciati.
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