E’ IL TEMPO DELLE DONNE- Vittoria Ravagli: E’ il tempo di Sonya Orfalian (Cartesensibili.it 01.11.17)
Non ho conosciuto di persona Sonya Orfalian, ma l’ho sentita parlare in pubblico, in teatro a Sasso Marconi, ai ragazzi delle scuole medie ed alle loro insegnanti. Il suo intervento faceva parte di un progetto teso alla conoscenza del genocidio armeno attraverso la lettura di un libro di favole scritto da Sonya, “A cavallo del vento“, ma è stato molto di più: ha portato ad approfondire la conoscenza della cultura e delle tradizioni armene, che i sopravvissuti tramandano e diffondono incessantemente. Ne ho scritto su Cartesensibili dopo aver analizzato il lavoro incredibilmente bello, ricco, interessante fatto da insegnanti e ragazzi .
Quel 22 aprile, in teatro a Sasso, Sonya mi è sembrata “…quasi uno spirito parlante, per me che ascoltavo incantata…”
Ci siamo scritte; dopo la lettura di un suo articolo apparso nel 2009 sulla rivista di Psicologia analitica N.80 “L’anima dei luoghi”, mi è sembrato di avere capito di più, così si è confermato forte il desiderio di farle un’intervista. Mi avvicino a lei quasi con timore, perché il grande dolore che si porta dentro, che ha ereditato, con cui convive, che segna la sua vita, mi fa sentire a mia volta spaesata in un mondo dove l’umanità si sta perdendo in un mare di ipocrisia e di retorica, per nascondere l’indicibile.
Cara Sonya, quali emozioni sono nate dall’incontro con i nostri ragazzi/e? Il loro mondo chiaro pare rendere possibile il gettare ponti?
Sono arrivata a Sasso Marconi lo scorso aprile, in occasione delle celebrazioni dell’Anniversario del Genocidio degli Armeni, e della delibera del Consiglio Comunale di Sasso Marconi che ha riconosciuto il Genocidio impegnando la Giunta Regionale a sostenere progetti di approfondimento storico e di divulgazione sul tema. In quella occasione ho tenuto una conferenza-lezione aperta al pubblico dal titolo Il genocidio armeno: una lezione di sopravvivenza.
Incontrare i giovani suscita sempre emozione e grande entusiasmo, specie quando sono così tanti, tutti insieme, raccolti in un teatro, come è avvenuto a Sasso. Entrata in teatro, li osservo: si siedono per poi alzarsi subito, si muovono, si agitano, sorridono, si salutano, sono felici di essere in un teatro e di non essere costretti all’interno delle aule scolastiche. Questo lo capisco. Ma poi quando tutto ha inizio scende la quiete, e ascoltano tranquilli. Hanno studiato, hanno letto e hanno lavorato su un tema così terribile, quello del genocidio armeno. A partire dal racconto di tradizione si sono avvicinati al mio popolo e hanno scritto e disegnato moltissimo con delicatezza, con coraggio e con semplicità. Guidati dalle loro insegnanti che li hanno spinti su nuovi percorsi, lungo la via di nuove conoscenze, in territori mai battuti, hanno trovato le parole e la forma giuste.
In definitiva, sono tutti dei piccoli ponti colorati che si allungano al di là del loro orizzonte. Tanti piccoli ponti uniti a formarne uno gigante, un grande arcobaleno inafferrabile ai burocrati che avrà la forza di circoscrivere la nostra terra da un polo all’altro senza mai trovare barriere, sfruttando la sola energia solare e la magia dell’acqua.
Ma ancora un’emozione, mi doveva regalare Sasso. Finita la mattinata in teatro, mi hanno portato a visitare il Borgo di Colle Ameno e lì ho avuto un incontro magico che sembrava uscito dalle pagine del mio libro di fiabe. Camminavo tra le case silenziose e ben ristrutturate quando un principino dalla chioma bionda si è avvicinato con passo di gazzella e mi ha chiamato per nome. Mi sono girata, incredula. Non aveva potuto essere presente in teatro, mi ha detto, ma mi ha riconosciuto dalla voce. Così ha detto: “dalla voce”.
Ero confusa, non capivo.
Mi conosceva già perché mi aveva visto e ascoltato sul web, dato che le professoresse avevano consigliato di guardare più materiale possibile per prepararsi a quell’incontro in teatro.
Alunno diligente.
Però quella mattina non aveva potuto venire in teatro come gli altri. Quando ho capito meglio, gli ho detto di getto: “Le hurì mi hanno portato a te!”
Sorrideva il principino biondo e con le mani nelle tasche muoveva la testa un po’ imbarazzato, ma neanche troppo…
Mi ha fatto tante domande, non solo sulle fiabe. Poi con la testa curva ha detto che capiva il mio dolore perché ogni anno sotto casa sua, a Colle Ameno (il luogo che nel 1944 venne utilizzato come campo di concentramento e smistamento per prigionieri civili), su “quel muro”, mi disse indicando il muro che era lì accanto, si mimava la fucilazione di uomini liberi. Lui guardava ogni anno quei gesti ripetuti, e ora gli sembravano proprio i gesti tragici del genocidio del mio popolo.
Mi sono emozionata. Mi parlava di dolore, mi ha detto che gli dispiaceva molto per mio nonno che aveva dovuto lasciare da bambino la madre sofferente in un letto, a casa, e seguire la via dell’esilio forzato, parlava come un fiume in piena ma lo faceva in modo lieve e semplice… Ero basita, senza parole, sorpresa e commossa; ho cercato in tutti i modi di non darlo a vedere cercando aiuto negli occhi dei miei accompagnatori che prontamente hanno compreso e mi hanno “soccorso”…
Vorrei che mi dicesse qualcosa delle sue origini e di quello che ancora oggi la porta ad andare indietro, scavando nei ricordi.
Io sono nata già rifugiata, due volta rifugiata. Figlia di rifugiati armeni in Palestina, a Gerusalemme, e poi di nuovo rifugiati, dopo l’occupazione di Israele, in Libia. Doppiamente rifugiati. Prima vittime dell’Impero Ottomano e dei turchi, poi dello Stato di Israele.
Non scavo nei ricordi, ci vivo dentro, vivo tra la realtà e la veglia del ricordo. Lo veglio e vigilo affinché non svanisca. I ricordi vanno tenuti vivi, nutriti, altrimenti evaporano. Vanno curati attraverso la ripetizione, la fissazione nella mente, nello sguardo interno. Come un sogno bello che non deve scomparire e quindi si ripete, si racconta, si fissa nella memoria. Una condizione tra veglia e sonno. Proprio come accade al nostro santo Mesrop nel mito di creazione dell’alfabeto armeno. Il mito racconta che Mesrop quando ebbe la visione delle lettere del nostro alfabeto si trovava in una condizione transitoria: né come un sogno nel sonno, né come una visione in stato di veglia.
Ecco, questa condizione diventa il mio presente necessario per non soccombere al dolore dell’assenza, all’impossibilità del ritorno nella terra e nella città dove sono nata per caso o nei luoghi dove sono nati i miei genitori…
L’infanzia perduta è un luogo mentale con cui non è facile fare i conti: più difficile ancora è per l’esule, per il rifugiato, per chi non può più tornare fisicamente nei luoghi che lo hanno visto bambino. Così mi tengo stretta a questi ricordi e ogni volta mi stupisco di quanto sia presente tutto il mio passato. Ha proprio ragione la scrittrice Eva Hoffman quando afferma che la perdita è uno straordinario strumento di conservazione: “Il tempo si ferma al momento del distacco e le impressioni successive non inquinano il quadro che avevi in mente. La casa, il giardino, il paese che hai perduto restano per sempre come li ricordi. La nostalgia si cristallizza attorno a quelle immagini come ambra.”
Le favole sono per lei un utile modo per tramandare abitudini, principi, idee sociali, tradizioni e per fare capire concetti fondamentali a bambine e bambini? O cos’altro?
Sono come una sorta di filosofia di vita. Le mie fiabe non sono solo per i bambini: sono lo specchio della società armena, contengono regole sociali, modi di agire, esempi di grazia infinita e di misericordia ma anche alto senso di giustizia e di doveri, di punizione e di riconoscimento di uno status elevato di intelligenza collettiva che passa attraverso gli strati sociali.
Una ragazza se è saggia potrà sposare il figlio de re, non importano più le sue origini umili. Non è forse un riconoscimento altissimo della dignità umana? E la graziosa giovane contadina potrà rifiutare di sposare un re sostenendo che non si accompagnerà mai con un marito che non ha un mestiere in mano. La vita pratica ha il suo peso e il re sarà costretto a imparare un mestiere e adeguarsi così a tutto il suo popolo. Si stabilisce un principio politico di eguaglianza e di dipendenza. Sembra così di sentire quel motto dei moschettieri: “Uno per tutti, tutti per uno! ” Anche in Italia mi sembra ci sia un detto che recita: “Anche la regina ha avuto bisogno della vicina”.
Io sono nata in un regno, il regno del re Idriss, in Libia, questo lo dico perché anche da noi, come in Italia, si diceva:” l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re”. Così, quando passavamo sotto le mura del palazzo reale, io sbirciavo tra le sbarre e pensavo: l’erba voglio…
Non dobbiamo dimenticare che il racconto di tradizione serve come apprendimento, così come il gioco è apprentissage, il racconto è la formula del modo di vivere giusto in una determinata società. Insegna anche a saper cogliere le sfumature: spesso le persone sagge si riconoscono intuitivamente e tra loro s’instaura un discorso silenzioso ed elevato. Nelle fiabe si racconta il conflitto tra il bene che è luce e l’oscurità che è male. Quando si disobbedisce si cade nel buio, nelle tenebre e il percorso verso la luce è salvifico, è una cosa giusta e buona.
In questo modo avviene la trasmissione dei valori: la fedeltà, il rispetto, la derisione dello stolto, il giudizio verso i potenti ingiusti. C’è tutto: la politica, il denaro, la famiglia, gli amici, le divinità, i tabù…
Da poco ha stampato un altro libro di fiabe. Ce ne vuole dire?
Sempre per Argo Editrice è appena stata data alle stampe una nuova edizione ampliata della mia raccolta di fiabe armene A cavallo del vento. In questa seconda edizione, come accenno nella nota editoriale, il mosaico di fiabe tradizionali armene che ho raccolto e raccontato si arricchisce di qualche altro tassello colorato: si tratta di un piccolo pugno di fiabe antiche che trovano posto accanto alle precedenti per ravvivare la voce e recuperare le narrazioni di quegli armeni che oggi non sono più tra noi. La loro assenza diviene manifesta attraverso questi racconti, come una involontaria testimonianza.
La nuova edizione comprende anche un’ampia postfazione di Corrado Bologna, un bellissimo testo che analizza e commenta le varie fiabe e che sostiene che il lavoro di raccolta che ne è alla base “è in certa misura ‘epocale’, giacché distingue e nel contempo collega due stati incommensurabili: quello dell’oscillazione orale, secolare, infinitamente frammentata e imprendibile, e quello della fissazione per iscritto, che stabilizza e cristallizza il testo in una ‘forma’ invariabile.”
Cosa l’ha portata a vivere in Italia?
Il destino, qualcosa di indipendente dalla mia volontà. Sono una viaggiatrice per destino. Sono un’armena della diaspora, e quindi porto con me quell’esperienza del viaggio forzato che fa parte della storia del mio popolo e in particolare della mia famiglia. Non ho scelto l’Italia: è andata semplicemente così. Qui si è fermato il mio destino per ora.
Siamo sempre stati un po’ precari nei luoghi che abbiamo via via abitato. Siamo stati costretti a viaggiare. A fare quei viaggi last minute di sola andata che di divertente avevano ben poco. Parlo al plurale perché sono stati viaggi condivisi, viaggi di massa, di deportazione collettiva. Viaggi di famiglie smembrate, ma pur sempre di sopravvissuti, e che dunque hanno avuto un lieto fine come nelle fiabe. Abbiamo fatto come quegli eroi che intraprendono un viaggio avventuroso e alla fine raggiungono l’albero dalle mele dorate o la fonte dell’acqua miracolosa che rende eterna la vita.
Gar u cigar: “c’era e non c’era una volta”, così iniziano le fiabe armene, e così proiettano l’ascoltatore in un tempo sospeso. Il viaggio del principe nella fiaba serve a conoscere il mondo e imparare a vivere. Ma, naturalmente, quando dalla fiaba si passa alla realtà, e alla realtà della diaspora, le cose prendono un’altra piega.
Nelle tappe del mio viaggio di armena diasporica ci sono molte città, molte case-rifugio che via via abbiamo costruito, sempre con lo stesso zelo, con la stessa dedizione e con la stessa speranza di abitarle per sempre.
Il fatto è che questo ‘per sempre’ è sempre fuggito e ci ha portato muoverci ancora di città in città, di paese in paese in cerca di sicurezza. Dall’epoca del genocidio che abbiamo subìto per mano dei turchi nel 1915 e che ci ha strappato alla nostra terra l’Armenia, siamo diventati nostro malgrado un popolo errante, un popolo in fuga. Non siamo zingari, nel senso che la nostra cultura non ci fa obbligo di spostarci in continuazione. Per loro la stasi, la stanzialità è la morte della propria cultura. Per noi armeni no. Il viaggio, in questo senso, è per noi rischioso: ci fa correre il pericolo di perdere qualcosa, la memoria collettiva, la conoscenza e il ricordo del nostro passato e delle nostre radici. Certo, si dice che il viaggio è conoscenza. E io ho conosciuto molti luoghi. Ho attraversato molte porte, le porte che chiamano frontiere e che sono i cancelli degli Stati.
Se vado a casa di un amico, attraverso la sua porta di casa. Se devo recarmi in un paese oltre frontiera devo attraversare un’enorme porta invisibile: se non hai un pezzo di carta con la tua fotografia, un libretto con scritto sopra “passaporto”, non puoi entrare. Cioè non puoi oltrepassare quella soglia, e se ti trovi nella condizione del fuggiasco, se stai scappando, da un lato non ti puoi mettere in salvo da chi minaccia la tua esistenza, dall’altro non puoi conoscere. Non puoi capire cosa c’è oltre la soglia.
Se dico “viaggio” vedo frontiere invalicabili. Passaggi a livello con sbarre che non si alzano. Per anni, oltrepassare ogni confine statale è stato molto complicato per una come me, profuga e apolide. Ma ho un bellissimo ricordo di un passaggio tra la frontiera francese e quella tedesca. Diversi anni fa mi trovavo a Strasburgo e appena ho capito che il passaggio tra i due Stati era vicinissimo e soprattutto libero, senza più controlli frontalieri, ho preso il primo autobus e sono scesa all’ultima fermata francese e ho voluto percorrerlo a piedi. Il confine passa sul grande ponte sul fiume Reno da Strasburgo a Kehl, simbolo della riconciliazione franco-tedesca e del processo d’integrazione europea. Un ponte che non a caso è stato chiamato “Ponte d’Europa”. Piano piano ho camminato verso la Germania percorrendo tutti i duecentoquarantacinque metri con un bel senso di soddisfazione. Solo una linea tracciata a terra al centro del ponte ricorda la frontiera tra i due Paesi: ecco in fin dei conti cosa rimane delle invalicabili barriere che gli uomini pretendono di dover porre tra sé e gli “altri”, un semplice segno sulla terra nuda.
C’è però un viaggio che possiamo fare tutti senza spostarci di un millimetro, eppure ampliando il nostro sguardo sul mondo ed esercitando il gusto del confronto: è il viaggio nelle cucine tradizionali, il viaggio culinario. Anche così si passano tante frontiere senza controlli né passaporti. A casa mia la cucina era il luogo in cui tutte le guerre e i risentimenti razziali avevano fine; il luogo in cui le pietanze di popoli in eterna lotta tra loro convivevano pacificamente. Dove ci si incontrava, ci si conosceva e ci si riconosceva nella comunanza dei sapori e degli ingredienti comuni. Un territorio franco: ciascuno poteva dire la sua e tutti erano ben felici di ascoltare: Armeni e Turchi, Palestinesi e Israeliani, Russi, Arabi, Indiani, orientali e occidentali, chiunque era ben accetto alla soglia della nostra cucina.
La cucina come frontiera valicabile e come viaggio sempre possibile, senza divieti, senza costrizioni: è un ideale praticabile quotidianamente. In questo caso l’itinerario ha inizio da una frontiera naturale comune a tutti: la bocca, quella frontiera che si apre per accogliere i nutrimenti, ma anche per comunicare in tutte le lingue del mondo. La cucina può dunque essere pensata come strumento di trasmissione: vi si produce consapevolezza e incontro. Memoria di sé e scoperta dell’altro: dalla propria condizione storico-culturale ci si pone in modo assai naturale in una posizione di dialogo con gli altri. E’ il melting pot, cioè la “mescolanza nel tegame”: dove ciascun sapore conserva la propria integrità e tutti insieme creano un piatto gustoso.
Qual è oggi il suo status? Immagino che la burocrazia approfondisca lo stacco e aumenti il disagio di chi entra nel nostro paese. Nell’articolo che ho citato scrive tra l’altro: ” …Non sono alla ricerca della mia identità. So bene chi sono e da dove vengo. Sono nata in un luogo e cresciuta in un altro. Ho vagato e volentieri vago per le tante città che recano memoria e traccia dei miei “noi”. Continuerò così perché non ho scampo e perché il cammino è la spinta vitale, come un viandante che sbaglia strada e che paga il suo errore consumando le piante dei piedi: il cammino è la mia felice condanna… ”
Ci dice meglio, di più?
Un raccontino molto diffuso tra gli armeni della diaspora per spiegare la nostra condizione vuole che un giorno due signori si incontrino in un aeroporto e inizino una piccola conversazione. Uno chiede all’altro: “Lei da dove viene?” E quello: “Vengo da Gerusalemme!”
“Allora lei è ebreo!”
“No!”
“Allora è arabo”
“No, sono armeno”
“Allora viene dall’Armenia”
“No!”
Ecco: un armeno che vive nella diaspora è armeno ma non viene dall’Armenia. E ciò ha significato per me vivere fuori dalla mia terra, spostarmi da un paese ad un altro, senza cittadinanza, senza passaporto, spesso senza diritti, se non il diritto a una nostalgia indicibile. Ci si abitua? Forse sì, forse tutto questo porta a vivere una condizione diversa dagli altri, ma si stabilisce comunque un rapporto con le cose, con gli uomini e i luoghi della realtà, anche se spesso il nostro sguardo si rivolge verso luoghi invisibili, verso cose che gli altri non possono vedere. Dopo essere stata per tanti anni una apatride come dicono bene i francesi, una “senza patria”, e dopo che per ben due volte le autorità mi hanno rifiutato la cittadinanza, oggi sono infine cittadina italiana. Questo ha reso semplici alcune cose come ad esempio il non dover più andare ogni anno a rinnovare il permesso di soggiorno o viaggiare liberamente senza molti problemi. Anche se ultimamente dovendo recarmi negli USA sono rientrata – io armena cristiana – nel famigerato Muslim Ban proclamato dall’attuale presidente Trump, a causa della mia nascita in Libia, con tutte le complicazioni e le difficoltà del caso. Mi è stato rifiutato il cosiddetto visto turistico Esta e ho dovuto fare la domanda presso la sezione consolare dell’ambasciata degli Stati Uniti a Roma. Una trafila non particolarmente piacevole, dato che la mia cittadinanza italiana non ha avuto alcun valore per le autorità statunitensi.
Per la cronaca, alla fine ho comunque ottenuto il visto. Questo lieto fine però non ha avuto per me il sapore di un successo dato che il rifiuto iniziale mi ha come fatto ripiombare in un passato difficile, nel tempo del vagare, nel tempo dell’incertezza… Dopo tanti anni tutto cominciava di nuovo ad essere complicato a causa del mio status di nascita e di provenienza. Situazione irrisolta e irrisolvibile che in fondo continua a svilupparsi nei modi più disparati. Non resta che attendere la prossima forma che prenderà.
Come si trova a vivere qui, quale il rapporto con le persone che frequenta? Le dirò che io stessa mi sento felice di vivere in questo luogo bellissimo ma non sono affatto “integrata”; mi sento “un’indiana nella riserva” e questo è possibile in modo quasi indolore solo perché sono vecchia.
In Italia c’è un grande dibattito sull’opportunità o meno di ospitare le persone che arrivano e che per lo più vogliono andare oltre. Mi sgomenta questa marea che cerca opportunità o fugge dalle oppressioni e dalle guerre; uomini donne bambini che per farlo sono disposti a morire, a subire persecuzioni umiliazioni, fatiche, violenze. Credo che nei tanti nostri paesi lasciati vuoti dalle giovani generazioni, ci sarebbe posto per chi vuole ricrearsi una vita. Ma questo richiederebbe impegno in chi ospita, collaborazione, aiuto. Sarebbe positivo per tutti, un arricchimento vero. C’è qualche realtà in Calabria di cui quasi mai si sente parlare. Mi pare che manchi la volontà politica ossia la scelta di fare. Cosa pensa di tutto questo?
I popoli si sono sempre spostati, le migrazioni sono sempre esistite. Quando si scappa dalla fame, dalla guerra e dalla morte non ci si fanno troppe domande. Morirò in mare? Si ribalterà la barca? Partorirò in mare? La speranza per una vita migliore, o anche solo per avere salva la vita, spinge le persone ad allontanarsi dal pericolo. Lo stupore verso questi avvenimenti è solo nostro, lo stupore è occidentale. Noi siamo ricchi, ben pasciuti e troppo spesso ignoranti di tutto. Non sappiamo niente di cosa c’è oltre il nostro naso. Il nostro naso finisce all’orizzonte del mar Mediterraneo. Al di là esiste invece un continente immenso, dal nome femminile quanto misterioso: Africa.
Cristoforo Colombo, appassionato navigatore e uomo curioso, ha scoperto l’America, voleva andare al di là del possibile e ha trovato terre emerse e popoli. Conoscere le mete turistiche non significa conoscere il mondo. Soprattutto qui si finge di non conoscere il proprio passato di italiani migranti. Eppure non è trascorso molto tempo. Ed è strano che proprio quelli che hanno migrato di più – ricordo ad esempio gli emigrati veneti in Libia – siano oggi così chiusi e impauriti da coloro che arrivano e che tanto somigliano, nelle loro speranze e nelle loro necessità, ai loro nonni.
A questo proposito mi viene in mente una breve fiaba armena che si intitola: “Ne sa di più chi vive a lungo o chi ha più viaggiato?”. Il re e il visir un giorno iniziarono una lunga discussione. Il re diceva: «Visir, chi ha molti anni conosce molte cose!». Il visir rispondeva: «No! Chi viaggia molto sa molte cose!». Allora il re ordinò: «Conducete qui al palazzo dieci persone anziane e altre dieci che hanno viaggiato molto. Vediamo chi sa più cose!». I servi ubbidirono e portarono dieci persone per ogni tipo. Il re fece preparare una pietanza liquida. Fecero sedere prima gli anziani intorno al tavolo, cinque di qua e cinque di là. Intanto il re aveva fatto costruire dei cucchiai con il manico lungo quanto due braccia aperte. Il re si avvicinò al tavolo e ordinò: «Su, mangiate!». Quelli presero i cucchiai per mangiare ma il cucchiaio dell’uno colpiva il viso dell’altro. Videro che non era possibile mangiare e posarono i cucchiai. Il re insisté: «Mangiate! Perché non mangiate?». «No, noi non mangiamo!». «Allora alzatevi e spostatevi!», ordinò il re. Vennero quelli che avevano molto viaggiato e si sedettero intorno al tavolo. Il re disse: «Adesso mangiate voi». Quelli presero il cucchiaio dal lungo manico, e si tuffarono nel cibo imboccandosi l’un l’altro. Il re disse al visir: «Hai ragione, chi ha viaggiato di più sa molte più cose!».
Sapere molte più cose in quanto popolo di emigranti dovrebbe far aprire le porte all’accoglienza. Tanto è vero che negli anni Sessanta e Settanta in Calabria, come ricorda lei, vi è stata una grande linea di emigrazione verso il nord Italia. E nel Sud, specie in Puglia, lo straniero viene chiamato “lu cristiano”, non perché lo si voglia battezzare, ma perché con quel termine egli viene immediatamente accomunato e accolto in quanto essere animato, un quanto uomo: una cosa che la dice lunga sui sentimenti più autentici e spontanei dell’accoglienza. In ogni caso penso che in questo come in molti altri contesti problematici, siamo tutti vittime dei padroni dell’economia. Gérard Chaliand sostiene che il libero scambio, con tutte le sue contraddizioni, sarebbe un beneficio per tutti, ricchi e poveri, e che più che la mondializzazione, è l’assenza o l’insufficienza di regole dell’economia a creare i problemi. Ecco, qualcuno non vuole darsi e darci regole giuste…
Il melograno è un simbolo importante dell’Armenia. Spesso nella mia vita ho sentito parlare di questo frutto da parte di donne, di gruppi, che in esso vedevano un segno di comunanza. Amo questo frutto bellissimo ed il suo fiore. Lo sente come rappresentativo anche per lei?
Sì, senza dubbio il melograno rappresenta molto per me e per tutti gli Armeni. E’ il mio dono preferito: mi piace regalare un alberello di melograno, quando le case in cui vado hanno un piccolo spazio per accoglierlo e dimorarlo. Questo frutto rappresenta simbolicamente proprio l’Armenia e gli Armeni. Il grande regista Sergeij Paradjanov ha fatto del melograno e del suo colore il titolo stesso del suo film più visionario: Sayat Nova. Nelle immagini che scorrono, il melograno regna sovrano: l’opera inizia con l’immagine di un pugnale che, fendendo una melagrana, ne fa schizzare il succo, che a sua volta intride di rosso il telo posto sotto al frutto. La macchia si dilata disegnando i confini dell’Armenia lacerata, mentre i chicchi si sparpagliano in mille direzioni: è trasparente il riferimento al genocidio, al sangue versato e alla diaspora. Per noi è la Regina dei frutti: è la sua forma stessa che ce lo suggerisce con la coroncina regale che la sovrasta. In occasione del Novel of the world ho avuto modo di scrivere che “spesso la melagrana e il suo albero si appropriano, nella nostra tradizione, del ruolo del melo come albero-simbolo della vita. Secondo una credenza diffusa tra gli armeni, questo frutto conterrebbe esattamente trecentosessantacinque grani, uno per ogni giorno dell’anno. Così, se tengo una melagrana sul palmo della mano, posso pensare di sostenere il peso di un anno intero. Il pomo che contiene i destini del mondo, cela il colore del sangue e nel tempo si è trasformato in un’icona. Nelle nostre case questo frutto è un simbolo riconosciuto da tutti, ci si rispecchia come in un cristallo di memoria storica.”
Grazie Sonya, è stata per me una gioia incontrarla. Non perdiamoci di vista!
Vittoria Ravagli
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Sonya Orfalian è nata in Libia da genitori armeni. Figlia della diaspora, dagli anni Settanta vive a Roma dove ha coltivato la ricerca attorno alle proprie radici culturali. È artista visiva ed espone i suoi lavori in Italia e all’estero. Studiosa di favolistica, tiene conferenze sulla tradizione della fiaba nella tradizione orale armena e seminari nelle scuole medie inferiori e superiori sul tema del genocidio armeno, sul significato della diaspora e più in generale sulla cultura armena.
Ha pubblicato diversi volumi tra i quali: La cucina d’Armenia. Viaggio nella cultura culinaria di un popolo, Ponte alle Grazie, 2009; A cavallo del vento. Fiabe d’Armenia, Argo Editrice, 2014 (seconda edizione aumentata, 2017); C’era e non c’era. Fiabe dalla terra d’Armenia, Aurelia Editrice, 2016.
Ha curato e cura per la Discoteca di Stato, il progetto di documentazione sonora sulla diaspora armena in Italia.
Per la Società Italiana di Psicologia Analitica, nel 2007, ha tenuto in occasione dell’iniziativa “Le nuove frontiere della cura in una società multietnica” un workshop dal titolo: “1915: Destinazione Morte” le testimonianze dei sopravvissuti al genocidio armeno.
Ha inoltre pubblicato vari articoli. Tra i molti:
– L’ora del buio, rivista di Psicologia Analitica n. 36
– Sono vasto, contengo moltitudini, rivista di Psicologia Analitica n. 28.
– Spezzare la clessidra – genocidio, memoria e testimonianza. Dialogo con Janine Altounian, Vivarium
Tra le sue molte consulenze, quella per il film La masseria delle allodole dei fratelli Taviani (2007) e per lo spettacolo teatrale Una cena armena di Paola Ponti, ispirato al suo libro La cucina d’Armenia.
Per la fondazione Mondadori, in occasione dell’Expo – Milano 2015 ha pubblicato per Il Romanzo del Mondo il racconto C’era e non c’era una volta.
E’ autrice de L’Eclisse, un melologo scritto in occasione del centenario del genocidio del popolo armeno (voce recitante Maria Paiato, Sala A via Asiago, Radio 3 Roma, 2015). Sono state in seguito rappresentati altri suoi testi teatrali: La cucina armena (voce recitante Elena Pau, Palazzo Siotto, Cagliari, 2016); Né come in sogno, né come in veglia (voce recitante Sergio Anrò, Cagliari 2016); Nino! Nino! (interpretato da Graziano Piazza, con le musiche originali di Riccardo Giagni). Quest’ultimo spettacolo ha debuttato al Teatro Massimo di Cagliari nel maggio 2017 ed è ispirato alla vicenda umana e politica di Antonio Gramsci. Gramsci, di antiche origini albanesi, non disdegna di occuparsi di temi universali e la sua visione internazionalista lo porta a concentrarsi con generosa passione anche su dolorose questioni che riguardano altri popoli, genti lontane e spesso dimenticate. Tra questi, anche gli Armeni e il loro genocidio.