Dzyunashogh: ricordi infranti dell’Azerbaijan (Osservatorio Balcani E Caucaso 23.11.18)
La strada per Dzyunashogh è lunga e difficile. I ricordi degli abitanti di questo villaggio remoto, incastonato tra le montagne dell’Armenia e della Georgia, sono come queste strade tortuose.
Trent’anni fa, quando Dzyunashogh era popolata da azerbaijani, il villaggio veniva chiamato Qizil Shafaq o “Alba Rossa”. Ma con l’acuirsi delle tensioni tra Armenia e Azerbaijan nella regione di Nagorno Karabakh, verso la fine degli anni ’80, gli abitanti del villaggio scelsero di scambiare le loro case con quelle di armeni che vivevano nel villaggio di Kerkenj, in Arzebaijan, distante circa 540 chilometri.
È a seguito del massacro degli armeni nella città di Sumgayit, in Arzebaijan, nel febbraio del 1988, che si diffuse l’idea di abbandonare il paese, racconta un ex abitante di Kerkenj.
“Un giorno, mentre stavamo lavorando, un azerbaijano arrivò e disse che dovevamo lasciare il villaggio”, spiega il 63enne Sashik Vardanyan. “Non potevamo crederci. Tutto è iniziato dopo Sumgayit”.
L’obiettivo era quello di tenere unito il villaggio. Un comitato informale iniziò quindi a cercare dei luoghi disponibili in Armenia, dove stabilire la comunità. Si sperava nella Valle dell’Ararat, una ricca pianura agricola situata ai piedi del Monte Ararat, un simbolo culturale per gli armeni. Ma quei villaggi erano già stati occupati da altri armeni sfollati dalla capitale dell’Azerbaijan, Baku.
Rimaneva disponibile Qizil Shafaq (Dzyunashogh), situata circa 52 chilometri a nord di Vanadzor, terza città dell’Armenia. Come gli abitanti di Kerkenj, anche gli abitanti di Dzyunashogh, azerbaijani, avevano lo stesso desiderio, vivere uniti e in pace.
A tutte le 250 famiglie di Kerkenj il comitato propose delle abitazioni in villaggi armeni, ricorda la moglie di Vardanyan, Sonia, 58 anni. In seguito ogni famiglia andò a Qizil Shafaq per parlare direttamente con gli abitanti azerbaijani.
Per entrambi la priorità era assicurarsi la protezione dei cimiteri. Mostrare rispetto per i defunti è una questione di profonda importanza e di onore. Un impegno di responsabilità collettiva preso dai due villaggi, basato sulla fiducia reciproca.
“Fino ad oggi ci siamo presi cura dei cimiteri e abbiamo spiegato ai nostri figli che anche loro dovrebbero farlo”, racconta Sashik Vardanyan.
Ora un cimitero di abitanti armeni sorge accanto a un cimitero azero abbandonato.
Lo scambio degli abitanti avvenne in modo pacifico, tra il maggio e l’agosto del 1989. Governo e partito comunista in carica non svolsero nessun ruolo in questo scambio e non espressero nessun interesse al riguardo, spiega un abitante.
Con poche automobili, lo scambio non fu una questione semplice. Spesso gli abitanti azerbaijani arrivavano a Kerkenj con la stessa macchina presa in prestito che aveva portato gli abitanti di Kerkenj in Armenia, raccontano alcuni abitanti.
Nel caso della famiglia di Sonia Vardanyan, un giovane di Kerkenj che già si era trasferito in Armenia ha fatto ritorno in Arzebaijan, “ed è con lui alle 2 del mattino che abbiamo lasciato il villaggio”, dice. L’ora è stata scelta per motivi di sicurezza. Lo stesso vale per il percorso, invece di attraversare il confine amministrativo azerbaijano con l’Armenia, i migranti viaggiavano a nord verso la Georgia, passando per la regione azerbaijana occidentale di Qazakh e poi a sud verso il nuovo villaggio.
“Siamo stati gli ultimi a lasciare il villaggio (Kerkenj) e le cose erano già peggiorate”, dice Vardanyan. “Non riuscivamo a trovare un’automobile e i nostri bagagli erano già pronti”.
Quando gli abitanti di Kerkenj si trasferirono a Qizil Shafaq il nome del villaggio venne cambiato. Non è chiaro il motivo della scelta di Dzyunashogh.
I pareri in merito al trasferimento erano divergenti. Il clima sulle montagne dell’Armenia del nord era più rigido rispetto a quello di Karkenj. In Armenia erano bestiame, patate e grano – piuttosto che l’uva – le principali fonti di guadagno.
Sonia Vardanyan ricorda che quando gli abitanti di Kerkenj arrivarono dall’Azerbaijan trovarono i terreni già coltivati, con patate orzo e grano.
“Ci siamo dati da fare e chiunque sapesse mungere una mucca lo faceva. Io lavoravo nelle stalle d’inverno e portavo al pascolo il bestiame d’estate, sulle montagne”.
Oggi, le 27 famiglie che ancora vivono qui vendono latte per guadagnare. Solo otto di queste sono originarie di Kerkenj.
Ma a Dzyunashogh il tempo sembra essersi fermato all’epoca dello scambio. La maggior parte delle case sono in rovina o abbandonate.
I migranti armeni provenienti da Baku “non sapevano fare nulla, erano ex abitanti di città”, racconta Sonia. “Quindi le persone iniziarono ad andarsene dal villaggio, una ad una. Sono andati tutti in Russia”. Restarsene qui significava affrontare grandi difficoltà. Nessun trasporto pubblico, nessuna fornitura di gas.
“C’era il servizio di autobus ma non c’è più,” spiega Sonia. “C’era un negozio dove compravamo il pane, chiuso. Tutto è stato privatizzato e spezzettato”.
I nativi di Kerkenj ora vedono Dzyunashogh come casa loro, ma nutrono ancora nostalgia per il villaggio che hanno lasciato.
A parte quelle portate dai giornalisti che visitano entrambi i villaggi, raccontano di non aver modo di ricevere notizie da Kerkenj.
“Abbiamo vissuto fianco a fianco per così tanti anni!” esclama Sonia pensando ai suoi ex colleghi e vicini azerbaijani.
Ricorda i “veri” matrimoni armeni che ogni fine settimana portavano a Kerkenj persone provenienti da ogni parte delle aree vicine. “Il cantante e il batterista erano del nostro paese, il fisarmonicista e il clarinettista di un villaggio armeno vicino. Diventarono amici e ogni settimana suonavano nel nostro villaggio. Ci riunivamo con i vicini e ci divertivamo molto”.
Sashik Vardanyan ricorda la terra. “Kerkenj significa ‘più duro della pietra’ nel dialetto armeno che parlano gli abitanti del villaggio, i cui avi provenivano perlopiù dalla città iraniana di Khoy,” spiega Sashik. “Ma non si trovava nemmeno una pietra là. Tutt’intorno c’erano terra nera, vigneti e acqua dalle sorgenti…”.
Tra gli abitanti resta accesa la speranza che un giorno, in qualche modo, vedranno di nuovo il luogo in cui hanno vissuto in Arzebaijan. Per ora rimangono solo i ricordi a legarli a quello che hanno lasciato.