Due sorelline armene in fuga dal “Grande Male” (Il Giornale 30.04.22)
Lo sterminio degli armeni è uno dei grandi drammi collettivi del Novecento, forse il primo grande dramma di un popolo, tanto che quello armeno ha più volte chiesto che alla sua epopea venisse accordata la definizione di olocausto, al pari di quello degli ebrei. Non a caso, a Erevan, l’odierna capitale dell’Armenia, sorge un monumento in ricordo del Metz Yegern («il grande male»), proprio come a Gerusalemme sorge lo Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto. E, come nel caso del genocidio degli ebrei, ogni anno se ne commemora il carico di sofferenza nel «giorno del ricordo», il 24 aprile.
In un’epoca come la nostra in cui la propaganda si declina a partire dall’uso fuori luogo se non addirittura spregiudicato delle parole «operazione militare speciale» al posto di «guerra» o «genocidio» invece di «strage» la controversia sulla titolarità di un termine come «olocausto» non è cosa da poco. D’altro canto, sul genocidio armeno, consumatosi al crepuscolo dell’impero ottomano, tra il 1915 e il 1923, ancor oggi le parti in causa, ovvero i turchi e gli armeni, non trovano un punto d’accordo, con i primi che negano ogni responsabilità e l’esistenza stessa dei fatti a essi contestati, come pure le cifre delle vittime, nonostante gli storici sostengano che oscillino tra uno e due milioni.
Un’ammissione delle proprie responsabilità metterebbe la fragile democrazia turca in una posizione estremamente imbarazzante, con la questione curda sempre di stretta attualità. E proprio i curdi furono uno dei sinistri strumenti di morte utilizzati dal triumvirato dei Giovani Turchi per realizzare il massacro degli armeni, un popolo presente in Anatolia da ben prima della nascita della religione islamica, ma non assimilabile per il suo profondo credo cristiano e il suo guardare a occidente.
Attraverso L’uccello blu di Erzerum (Fazi Editore, traduzione di Maurizio Ferrara, pagg 520, euro 20), il noirista francese Ian Manook, celebre per la sua trilogia di ambientazione mongola avente per protagonista il commissario Yeruldelgger, traccia un affresco straordinario di un’epoca che in qualche modo ha segnato la sua stessa esistenza, spingendo i suoi nonni a cercare vita e speranza in Francia, una delle destinazioni preferite della diaspora armena. L’unica pecca di questo romanzo ma significa realmente cercare il classico pelo nell’uovo è forse la scelta dell’autore di indulgere eccessivamente in descrizioni di situazioni che, trattandosi dichiaratamente del romanzo del genocidio del suo popolo, rasentano il raccapriccio. E dire che Manook ammette in apertura del libro di aver «accettato di eliminare le due scene di massacro più violente» su richiesta del suo editore.
Protagoniste assolute del romanzo sono due sorelline scampate miracolosamente a uno dei primi pogrom di cui la popolazione armena è vittima e costrette, tra indicibili sofferenze, a unirsi alle carovane di profughi che il triumvirato decide di trasferire in altre zone del Paese. Già nel 1915 l’uso della terminologia veniva fatto con grande scrupolo: guai parlare di deportazione.
Molti storici hanno avanzato la teoria secondo cui il genocidio armeno fu una sorta di prova generale per lo sterminio degli ebrei, tanto che parecchi alti ufficiali dell’esercito tedesco la Germania era alleata della Turchia parteciparono alla pianificazione dei massacri o, comunque, vi assistettero senza mai metterli in discussione. E Ian Manook non è per nulla tenero con i tedeschi, così come non fa sconti ad altri popoli a loro volta coinvolti nei disastri del suo popolo. Il suo torrenziale romanzo, ricco di riferimenti a storia e folklore, contestualizza la vicenda di queste due bambine e di un’altra ragazzina di cui intersecheranno il tragico cammino: il loro percorso di vita si snoderà tra Turchia, Germania, Francia e Unione Sovietica.
L’uccello blu di Erzerum getta uno sguardo disincantato sulla genesi di una follia collettiva che porta a un delirio omicida. Come sappiamo, il XX secolo avrebbe assistito al ripetersi di tale delirio almeno in altre tre occasioni: l’olocausto degli ebrei, l’epurazione dei nemici del popolo da parte dei Khmer Rossi in Cambogia e lo sterminio dei tutsi a opera degli hutu in Ruanda. L’inizio è tristemente comune: il progetto di cancellare un’identità scomoda, facendo leva su paure irrazionali e su spiegazioni storiche fabbricate appositamente per giustificare orrori inammissibili.