Diario del genocidio armeno (Ilgiornale.it 11.12.20)
Tra il 1915 e il 1916 ebbero luogo le deportazioni e le eliminazioni compiute dall’impero Ottomano, più note come il genocidio degli armeni.
Al pari di tutti i crimini contro l’umanità, anche questo Olocausto ha i suoi negazionisti. La questione è ancora d’attualità, ove si pensi che il governo turco di Erdogan non ammette che vi sia stato il genocidio, mentre in Francia è reato negarne l’esistenza. Sappiamo però per certo che esso costò al popolo armeno un milione e mezzo di morti e fu scatenato dall’ascesa al potere nell’impero ottomano dei «giovani turchi», i quali temevano un’alleanza armena coi nemici russi. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, i turchi compirono i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. Continuarono nei giorni successivi: in un mese oltre mille intellettuali, tra giornalisti, scrittori, poeti, furono deportati nell’interno dell’Anatolia e massacrati. Il Maggiore Generale dell’impero Ottomano Friedrich Bronsart von Schellendorf, tedesco, è considerato l’iniziatore delle deportazioni. Le sue sinistre «marce della morte» sono la prova generale delle marce della morte naziste.
Esce in questi giorni Mia nonna d’Armenia di Anny Romand, con prefazione di Dacia Maraini e alcune struggenti foto d’epoca (La lepre, pagg. 128, euro 16; trad. Daniele Petruccioli). Riordinando le cose di famiglia, Anny Romand attrice, scrittrice e fotografa ha rinvenuto un diario di settanta pagine, scritto in armeno, francese e greco dalla nonna materna. In esso è descritto il viaggio terribile di un gruppo di donne e bambini armeni, costeggiando l’Eufrate, lungo le strade dell’Anatolia. Una «marcia della morte» raccontata da una vittima sopravvissuta. In quelle scarne paginette, Anny riconosce il racconto della nonna Serpouhi, ascoltato tante volte da piccola, contro il volere della madre. «Mia madre era molto contrariata quando ci trovava in lacrime, una nelle braccia dell’altra: la farai impazzire, questa bambina!».
Nessuno ascolta la nonna, quando racconta. Solo Anny. L’anziana donna nasce in una famiglia armena borghese di Samsun, sul Mar Nero e segue il padre in Palestina, ingegnere. Tornata in patria alla sua morte, è maritata a 15 anni a un turco di Trebisonda. Che si rivela un buon marito e a cui darà quattro figli. Due di questi sono vivi nell’aprile 1915, all’inizio del genocidio. Durante il quale vengono uccisi, prima il marito, poi la figlioletta di quattro mesi. Serpouhi è spinta a forza col figlio di quattro anni in una delle carovane della morte dirette a Sud. Le atrocità cui assiste sono inenarrabili: vede scaraventare nell’Eufrate due carretti pieni di bambini piccoli. Di fronte ai corpicini dei piccoli che annegano e ai carnefici che li guardano con sorrisi sarcastici, scrive in armeno: «Oh Dio mio, ti scongiuro lasciami vivere per vedere quegli infelici vendicati». Decide allora di lasciare suo figlio a una famiglia di sconosciuti contadini, per offrirgli una possibilità di sopravvivenza. Poi, scappa due volte, arriva sul Mar Nero, se ne sta nascosta due anni; va a Costantinopoli. Fa di tutto per ritrovare il figlio. Lo ritrova in un orfanotrofio nell’attuale Georgia.