Dall’Olocausto alle foibe, dagli armeni ai nativi americani, cosa e quando è genocidio? Flores: “Serve l’intenzione di distruggere un gruppo in quanto tale” (Ildolomiti.it 30.12.21)
TRENTO. Erano passati 3 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale quando le Nazioni Unite approvarono la Convezione internazionale sul genocidio. Il termine era stato coniato nel 1944 da un giurista polacco, l’ebreo Raphael Lemkin, che di fronte a quanto stava accadendo in Europa aveva sentito la necessità di creare una parola capace di riassumere l’intenzione deliberata a eliminare un gruppo etnico o religioso.
Da quel momento, questa sinistra parola sarebbe entrata nel diritto internazionale, nominata durante il Processo di Norimberga ai criminali nazisti e poi definitivamente fissata con la Convenzione del 1948 – non senza dei paletti stabiliti in maniera interessata da parte delle principali potenze, dall’Unione sovietica alla Gran Bretagna. La categoria di “genocidio”, nondimeno, avrebbe fatto capolino anche in altre discipline, come la storia, dando avvio a discussioni su quali eventi potessero esservi fatti rientrare.
Cosa s’intendeva precisamente con questa parola? “Quello che sta scritto nella Convezione del 1948, poi ripreso dallo statuto della Corte penale internazionale, è che per genocidio s’intende la distruzione parziale o totale di un gruppo etnico o religioso con l’intenzione di eliminarlo in quanto tale. Nella considerazione genocidiaria, dunque, il gruppo non deve più esistere. Questa era l’idea dei nazisti nei confronti degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale e degli hutu nei confronti dei tutsi nel Ruanda degli anni ’90”, spiega lo storico Marcello Flores d’Arcais al nostro giornale.
“Se questa è la definizione dal punto di vista internazionale, poi ne abbiamo un allargamento sia da parte dell’opinione pubblica che degli studiosi – prosegue – è un termine che si presta infatti ad essere utilizzato per tutti i grandi massacri della storia quando si vuole evidenziare la tragicità dell’evento. Adottato a livello giuridico nel 1948, in realtà non poteva essere utilizzato per i crimini avvenuti prima di quella data. E questo nonostante un evento come i massacri degli armeni durante la Grande Guerra avesse tutte le caratteristiche”.
Quali sono dunque i genocidi riconosciuti come tali nei tribunali internazionali? “Sotto questa categoria rientrano secondo delle sentenze dei tribunali internazionali la Shoah, i massacri in Ruanda, a Srebrenica – ma non tutta la politica dei serbi in Bosnia – in Cambogia, in Guatemala, con i massacri nei confronti dei maya promossi dal presidente e generale Ríos Montt. Inoltre, alcuni tribunali nazionali hanno stabilito che degli eventi potessero rientrare in questa categoria, come ad esempio in Argentina l’uccisione e la sparizione dei dissidenti politici. Vi sono poi le uccisioni degli armeni da parte dei turchi, non riconosciute come genocidio dalla stessa Turchia, e i massacri del popolo herero, nell’attuale Namibia, da parte dei colonizzatori tedeschi”.
L’uso disinibito di questa categoria da parte dell’opinione pubblica o degli studiosi crea però delle problematiche non indifferenti, appiattendo la conoscenza critica del passato e l’analisi delle motivazioni e dei fenomeni che portarono a determinati e tragici fatti. “Genocidio” diventa così un termine utilizzato retroattivamente, ammantando specifici eventi di sfumature più sinistre, così come un’arma dialettica utilizzabile strumentalmente.
“La conquista delle Americhe vista dalla prospettiva della distruzione di gruppi etnici può prestarsi in generale all’utilizzo del termine genocidio, non da quello giuridico però – spiega Flores – in Nord America non ci fu alcuna volontà di eliminare i nativi in quanto tali ma di eliminarli perché occupavano delle terre di cui ci si voleva impossessare, con uccisioni dirette o indirette, legate alle malattie o alla privazione di risorse. L’elemento di cui bisogna tenere presente è dunque l’intenzione di distruggere un gruppo per quello che è o era”.
Oltre a “genocidio”, altre parole si muovono ai margini. “Pulizia etnica è un concetto che si muove al confine con il genocidio, perché non c’è la volontà di distruggere totalmente un gruppo ma di non averla in un determinato territorio. Altre categorie vengono invece escluse dalla definizione giuridica, come il ‘genocidio culturale‘ o il ‘genocidio politico‘. La convezione è infatti un pilastro ma fu frutto di un determinato contesto, con le forze coloniali da una parte e l’Unione sovietica dall’altra che non avrebbero potuto accettare l’introduzione di questi specifici aspetti”.
Entrato nel linguaggio comune, il termine “genocidio” presta il fianco alle strumentalizzazioni politiche. L’operazione del Giorno del Ricordo, non a caso stabilito in un data molto vicina alla Giornata della Memoria, si caratterizza proprio per toni analoghi, mescolando in un unico calderone vittime di processi storici ben differenti. “Chi parla di genocidio per il confine orientale lo fa in modo cinico e con uno scopo politico e ideologico – spiega Flores – non è che pochi morti non valgano, ma quando si parla di distruzione di un popolo bisogna prendere in considerazione le cifre. Sono numeri alti, anche se talvolta in termini relativi. Quando si parla di foibe, invece, si ha a che fare con poche migliaia di vittime, uccise senza che ci fosse l’obiettivo di distruggere un gruppo etnico”.
“Le uccisioni sul confine orientale, nonostante anche le autorità abbiano cominciato a utilizzare dei termini forti come ‘genocidio’, dal punto di vista storico non sono catalogabili così. Quelle erano vittime della violenza rivoluzionaria o erano compromessi con il fascismo. L’equivoco se vogliamo nasce nel momento in cui la Giornata della Memoria e il Giorno del Ricordo diventano date vicine. Ma dal punto di vista storico, e anche morale, è scorretto fare paralleli di questa natura”.
Nel mondo ebraico, l’esperienza della Shoah ha rappresentato d’altronde un punto di non ritorno, tanto da incidere sulla stessa visione del mondo di una comunità profondamente colpita da quanto accaduto in Europa nel primo scorcio del ‘900. “Ancora oggi una parte delle comunità ebraiche considera l’Olocausto come un genocidio unico, senza paragoni – spiega lo storico padovano – io credo invece che il confronto tra i diversi genocidi permetta di comprenderli meglio”.
Con la Shoah in particolare, del genocidio si scopre l’altra faccia della medaglia: la sua negazione. “Molti studiosi considerano la negazione come l’ultimo colpo inferto alle vittime. È l’insulto oltraggioso ulteriore a chi si è cercato di eliminare. Il negazionismo nasce come termine proprio rispetto alla Shoah. Nasce subito dopo la guerra e diventa un luogo occupato dai gruppi oltranzisti ed estremisti per continuare a calunniare le categorie che si volevano annientate. Nel caso armeno, è curioso vedere come il governo erede di quello responsabile abbia sempre negato. Il genocidio era infatti un passaggio della costruzione dell’identità nazionale che non si è voluto affrontare. Ciò avveniva fino a 30 anni fa, mentre ora si riconoscono le uccisioni ma non si accetta il termine genocidio”, conclude.
Questo articolo è il secondo di un ciclo di interviste e riflessioni sulla memoria e le ricorrenze che marcano questa parte dell’anno. Memory: 27/1-10/2, rubrica di approfondimento giunta alla sua “seconda edizione” vuole interrogarsi sul senso, le potenzialità e i rischi dell’insistenza sulla memoria nello scenario pubblico. La sua prorompente ascesa, infatti, si è accompagnata alla parallela scomparsa o alla riduzione dello spazio delegato alla Storia, come analisi critica del passato. Memory consiste nel mostrare come le “tessere” della memoria – i ricordi – non coincidano mai perfettamente tra loro.