Dall’Italia al Caucaso, la storia di Gianluca Proietto: “Generare risorse da reinvestire in progetti sociali” (Ilgazzettinodisiclia 28.02.18)
Avrete sentito parlare molte volte di fuga dei cervelli dall’Italia o di esodo dei giovani. Di solito immaginiamo le classiche tappe di lavoro, Usa, Inghilterra, paesi arabi, ma nessuno immaginerebbe che c’è chi ha deciso di andar via non per lavoro, ma per realizzare una piccola opera a metà tra l’umanitario e la voglia di dare una struttura stabile a chi vive nel precariato umano e di guerra.
Gianluca Proietto è un ragazzo che ha fatto una scelta coraggiosa, ha deciso di andare a vivere nel Caucaso e realizzare qualcosa in un territorio pieno di conflitti. Gli abbiamo fatto qualche domanda ed è venuta fuori una realtà scomoda a volte poco conosciuta in occidente
Gianluca, allora, chiariamo subito, tu sei uno dei ragazzi che è fuggito dall’Italia, ma invece di cercare lavoro nei posti convenzionali o leggermente atipici come Svezia o Danimarca, hai scelto di andare nel Caucaso, posti comunque non proprio facili da vivere, spiegami cosa fai lì.
La scelta di abitare nel Caucaso – come dici – è senz’altro atipica per un italiano. Lo testimonia quotidianamente lo stupore dei Georgiani ed Armeni che scoprono le mie origini e la mia scelta di vita. Anche loro, come stai facendo tu, mi chiedono cosa spinge un ragazzo a lasciare un paese tutto sommato ricco e democratico per trasferirsi nel complicato spazio post-sovietico. Partiamo da un presupposto: in Italia avevo un lavoro, degli amici ed una vita normale. Non è stata la fame a portarmi lontano dal Belpaese, ma il bisogno di trovare il mio posto nel mondo. Questo mi ha portato a viaggiare, fare volontariato e lavorare in molte aree dell’Asia: dal Caucaso al Sud Est Asiatico, dal Medio Oriente alle infinite steppe dell’Asia Centrale. Durante un lungo viaggio in Mongolia in bicicletta, ho capito che ormai era giunto il momento di fermarmi ed insediarmi in una terra problematica e bellissima che da alcuni anni aveva rubato il mio cuore: il Caucaso, appunto. Mi sono stabilito tra queste montagne con l’intento di sfruttare le potenzialità turistiche e culturali di questi paesi ancora poco conosciuti per generare risorse da reinvestire in progetti sociali tangibili.
Per chi come me si intende di calcio, ci sono due particolari che mi ricordano quelle zone, uno è il Qarabag, squadra del Nagorno, che per il conflitto criptato ancora in corso, non gioca nella sua città. L’altro è il curioso sponsor che regna sulle maglie dell’Atletico Madrid, Azerbaijan land of fire. Piuttosto singolare. Perché in Europa si parla di territorio Azero?
È il risultato di una strategia adottata dalla famiglia Aliyev, la quale detiene le redini del governo azero saldamente nelle proprie mani da 25 anni. Bisogna fare una premessa: l’Azerbaijan è un paese che nell’ultimo decennio ha iniziato a disporre di ingenti capitali da reinvestire, provenienti dall’esportazione del gas e di altre materie prime. Il presidente Aliyev ha quindi deciso di rifarsi il trucco spendendo grosse somme di denaro nello sport e nell’organizzazione di eventi internazionali per presentarsi al mondo come paese moderno, ricco ed in ascesa. La sponsorizzazione dell’Atletico Madrid rientra proprio in quest’ottica. L’Azerbaijan ha anche ospitato la prima edizione dei Giochi europei nel 2015 e dal 2017 ospita il Gran Premio d’Azerbaijan di Formula Uno. Il caso del Qarabag invece è un po’ più complicato, ma per capirlo dobbiamo riavvolgere il nastro e tornare al 5 luglio 1921, ai tempi dell’Unione Sovietica della quale Armenia, Azerbaijan e Nagorno Karabakh facevano parte. Quel giorno Stalin – all’epoca era commissario del popolo per le nazionalità – decretò la sovranità territoriale dell’Azerbaijan sul Nagorno Karabakh, un territorio storicamente armeno, popolato al 94% da Armeni e solo in minima parte da Azeri. Iniziarono così i lunghi decenni di governo azero sul Karabakh: un periodo caratterizzato da repressioni, soprusi e politiche spietate attuate con il chiaro obiettivo di soppiantare gli Armeni del Karabakh e la loro cultura. Politiche che si rivelarono inefficaci: il Karabakh rimase infatti un territorio popolato prevalentemente da Armeni. Durante il disfacimento dell’Unione Sovietica aumentarono le tensioni nel Caucaso ed il Karabakh si sganciò da Mosca seguendo un iter legale assolutamente valido e democratico come fecero i vicini di Georgia, Armenia ed Azerbaijan. Gli Armeni nel 1991 dichiararono l’indipendenza dello stato sovrano del Nagorno Karabakh, scrissero la costituzione e fecero regolari elezioni politiche per formare il parlamento. Dal canto suo, l’Azerbaijan decise di non riconoscere l’iter di indipendenza del Karabakh, il quale – lo sottolineo ancora – fu totalmente legale, come del resto decretò anche la Corte Costituzionale Sovietica. L’Azerbaijan aggredì quindi il Karabakh, intenzionato a mantenerne il controllo con la forza. Gli Armeni riuscirono in due anni a respingere l’invasione dell’esercito azero ed ottenere la libertà al prezzo di decine di migliaia di vittime per entrambi gli schieramenti ed una devastazione spropositata. Da allora Agdam – una città azera in prossimità del turbolento confine tra Azerbaijan e Karabakh – è ridotta ad un cumulo di macerie, è disabitata ed è sotto il controllo dell’esercito del Nagorno Karabakh. Il Qarabag, che è la squadra di Agdam, da quel giorno gioca in esilio in Azerbaijan ed il governo azero distorce la storia di questo club calcistico per sostenere la sua anacronistica versione dei fatti. Durante le partite internazionali, infatti, vengono distribuiti volantini propagandistici che affermano che il Qarabag giochi in esilio a causa degli Armeni del Nagorno Karabakh, colpevoli – sempre secondo la propaganda – di aver sottratto la terra all’Azerbaijan. Come detto, fu invece l’esercito azero a calpestare i diritti degli Armeni del Karabakh ed a tentare di mantenere il controllo del territorio attraverso l’uso delle armi. Un evidente ribaltamento della verità.
Eppure a leggere sporadici articoli veramente critici su quella zona, non sembra che ci sia un clima di democrazia garantita, tu che ci vivi, mi sai dire che cosa succede davvero?
La realtà dell’Azerbaijan è ben diversa dall’immagine che la famiglia Aliyev si prodiga di promuovere all’estero attraverso lo sport ed i grandi eventi. Dietro i grattacieli scintillanti di Baku e le performance sportive sovvenzionate con i soldi del gas, si cela un regime dedito da anni ad appropriarsi delle ricchezze del paese. Ormai è infatti appurato che la famiglia Aliyev è riuscita a mettere le proprie mani su tutte le principali attività economiche nazionali, dalle miniere alle compagnie telefoniche, dal petrolio al gas. I Panama Papers testimoniano la presenza di decine di miliardi di dollari transitati verso i paradisi fiscali e derivanti dalle suddette attività economiche. Questo mentre il paese arranca: povertà, infrastrutture inadeguate, degrado nelle zone periferiche. Per evitare che qualcuno possa fermare questo sistema che genera ricchezza e potere per la famiglia presidenziale, l’opposizione ed il dissenso sono stati repressi in maniera brutale, i media sono stati ridotti a mero strumento di propaganda e le voci fuori dal coro sono state incarcerate. Gli standard democratici e la tutela dei diritti umani sono ormai ridotti ai minimi termini. Attraverso lo sport, l’Azerbaijan si presenta al mondo come un paese moderno ed in ascesa. Ma si tratta solo di un’elegante facciata dietro la quale si nasconde un oliato sistema di potere, appropriazione indebita e corruzione.
Il potere sembrerebbe concentrato quindi in mano ad una famiglia che però fa affari con l’Occidente e quindi non viene minimamente colpita da sanzioni pesanti o misure per ripristinare la democrazia, sbaglio?
L’Europa tende solitamente a perseguire i propri interessi senza interferire troppo nelle vicende interne degli altri paesi, fingendo di non vedere le palesi violazioni dei diritti umani, i pessimi standard democratici e le guerre: questa cinica realpolitik contraddistingue anche i rapporti con l’Azerbaijan. Gli interessi dell’Unione Europea nella regione sono dettati dalla necessità di ridefinire i partner energetici e spezzare la dipendenza dagli idrocarburi russi. In quest’ottica, l’Europa sta dunque tentando di diversificare le fonti di approvvigionamento e sta creando un hub meridionale del gas. L’Azerbaijan è riuscito a sfruttare questo nuovo assetto per ritagliarsi un ruolo come fornitore strategico ed affidabile. Attualmente è in costruzione un discusso gasdotto che – stando agli accordi – dovrebbe portare 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dall’Azerbaijan all’Italia. Tuttavia l’Azerbaijan non ha ottenuto l’appoggio – seppur titubante – dell’Occidente solo grazie ai rapporti commerciali ed ai mutamenti degli scenari geopolitici. È infatti ormai nota la capacità azera di influenzare le istituzione europee e bloccare sanzioni attraverso un costoso ma efficace sistema di corruzione, regali, ricatti e mazzette noto come Caviar Diplomacy, messo in atto dai lobbisti azeri. Per fare un esempio clamoroso, basta citare il caso del nostro connazionale Luca Volonté, rinviato a giudizio per aver intascato oltre 2 milioni di euro dal lobbista azero Suleymanov: una tangente versatagli per influenzare le votazioni di altri deputati del Consiglio d’Europa ed aiutare ad affossare un rapporto che denunciava violazioni dei diritti umani in Azerbaijan. Corruzione e business: è questa la strategia azera per tentare di tenere gli occhi dell’Europa ben chiusi sui problemi interni e sulla guerra del Nagorno Karabakh.
Gianluca, ma cosa vuoi realizzare in concreto in territori così difficili, che cosa ti spinge a volerlo fare?
Il mio legame con il Caucaso iniziò per caso alcuni anni fa quando mi imbattei in alcune fotografie che ritraevano il Genocidio Armeno. Le fotografie ingiallite da un lato testimoniavano la brutalità di cui gli uomini sono capaci, dall’altra erano lo specchio della mia ignoranza: ogni scatto mi ricordava che da qualche parte nel mondo un milione e mezzo di Armeni avevano subito il più aberrante dei crimini – il genocidio – ed io non sapevo nulla di quei fatti drammatici. Fu la scintilla che cambiò la mia vita. In breve tempo iniziai a viaggiare, a scoprire la dimensione del volontariato e ad approfondire le complesse vicende storiche e geopolitiche caucasiche e mediorientali. Presto familiarizzai con la frizzante modernità di Tbilisi e gli immutabili villaggi di montagna, con la meravigliosa e chiassosa ospitalità caucasica e le tristi storie che giungono dalle fangose trincee nelle quali Armeni ed Azeri continuano a morire. La natura di questi luoghi – spettacolari, poco battuti e fortemente bisognosi di aiuto – mi ha portato a focalizzarmi sulla promozione delle potenzialità turistiche per generare risorse da reinvestire in progetti sociali. Ho capito che avrei potuto aiutare i viaggiatori ad immergersi in profondità nel Caucaso e ripercorrere la storia di Georgia, Armenia e Nagorno Karabakh attingendo alle competenze acquisite ed alla mia rete di contatti. Ho così lanciato un progetto di turismo sostenibile che punta a creare tour storici in italiano ed a restaurare immobili in disuso da riportare a risplendere ed adibire ad ostelli per i viaggiatori. Attualmente sono alle prese con il primo step: il restauro di un vecchio edificio nel centro storico di Tbilisi – la bella capitale georgiana – e la creazione dei primi tour. Per coprire parte delle spese, ho lanciato una raccolta fondi. Ma come accennato, lo scopo della creazione di questa macchina turistica non è soltanto la promozione della cultura caucasica e la divulgazione della sua storia complessa. I proventi del turismo serviranno in parte a sovvenzionare attività extrascolastiche gratuite e di alto livello per i giovani del Karabakh. Il mio sogno è creare laboratori linguistici, sportivi ed artistici di vario tipo (fotografia, atletica, musica, calcio, recitazione, arti plastiche, rugby, ecc). L’obiettivo è quello di potenziare la formazione dei giovani, esaltarne i talenti e sottrarli alla quotidianità non facile di alcune aree povero o degradate. Nel corso degli anni ho maturato la convinzione che questo sia determinante non solo per migliorare l’infanzia e l’adolescenza dei bambini, ma anche per disinnescare l’odio e la paura che rendono impossibile il dialogo con coloro che stanno dall’altra parte della trincea. Credo che sia importante aiutare i giovani a scoprire che il nemico non è altro che un fratello con il quale è esistita una buona convivenza per svariati secoli. Niente meglio dello sport, dell’arte e della cultura possono guidare le nuove generazioni in questo importante percorso.
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