“Con occhi spietatamente umani”: Antonia Arslan ci parla dei poeti armeni, martiri che sfidarono l’orrore (Pangeanews.it 19.01.18)
La scrittrice de “La masseria delle allodole” sul genocidio armeno. “Fu un abilissimo inganno. E la Germania guglielmina era complice dei Giovani Turchi. Nei romanzi e nei giornali dell’epoca gli armeni erano presentati come ebrei del Medioriente”
La poesia non soccombe mai. Non è una metafora, una meteora simbolica per rabbonire i buoni di cuore. “Una volta, in uno dei giorni più angosciosi, mi lesse alcuni sonetti, e io non potei che esprimergli la mia ammirazione e il mio stupore che, in momenti così terribili come quelli che stavamo vivendo, fosse in grado di mantenere la sua anima così distaccata e incorrotta da creare una poesia dedicata alla natura con una tale profondità”, ricorda Mikayel Shamdandjian parlando di Daniel Varujan, il grande poeta armeno, nato nella regione di Sebaste, colmo di cultura ‘europea’ (studia a Costantinopoli, poi è a Venezia e a Gand, prima del ritorno in Turchia). Arrestato nell’aprile del 1915, deportato a Çankiri, morì durante un trasferimento da un villaggio all’altro, insieme ad alcuni compagni, derubato, denudato, legato a un albero, “gli scavarono gli occhi con i coltelli, poi trafissero lui e i suoi compagni, gettando i loro corpi in un torrente vicino”. Naturalmente i quaderni delle sue poesie furono ostaggio dei servizi segreti turchi, riscattati dopo la Prima guerra, “fu l’unico fra noi che continuava a lavorare”, ricorda Aram Andonian. “Il giorno del suo martirio, gli assassini probabilmente si impadronirono dei miseri bagagli di Varujan… il vero tesoro del suo bagaglio, i sei quaderni che aveva scritto a Çankiri, furono buttati al vento. Ma si può pensare che Dishleg Hussein Agha, proprietario del khan davanti al quale vennero uccisi, che fu uno dei testimoni del crimine, li abbia raccolti con cura, e poi, dopo aver lisciato e messo in ordine le pagine, li abbia perforati con uno spago per incartare formaggio e olive per i suoi clienti”. Paradosso pazzesco – e perfino istruttivo: l’opera di un poeta raffinatissimo usata per incartare il formaggio. Storie simili, in cui la magia del poeta viene oltraggiata e uccisa, ne abbiamo lette ovunque: Osip Mandel’stam – il poeta russo finito nei Gulag – e Daniel Varujan, il martire della poesia armena, in fondo, raccontano la stessa micidiale vicenda. La rettitudine della poesia di fronte alle fauci della Storia. La remissiva audacia, la purissima ultrapotenza della poesia contro chi cerca di soffocarla. Come ha scritto Siamantò, altro poeta armeno dalla cultura internazionale (ha vissuto, pur tra privazioni, in Egitto, in Romania, in Svizzera, a Parigi), trucidato in quel 1915 di sangue nei pressi di Ayas, bisogna avere “occhi spietatamente umani” per stare al cospetto dell’orrore, invitti. Le storie di questi poeti sterminati dal governo turco risuonano, con note tragiche ma inflessibili, in Benedici questa croce di spighe…, l’“Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio” edita da Ares (pp.240, euro 18,00), a cura della Congregazione Armena Mechitarista e con un Invito alla lettura di Antonia Arslan, che di quello sterminio è la narratrice per antonomasia, almeno dal pluripremiato e pluritradotto La masseria delle allodole (Rizzoli, 2004; da cui il film dei fratelli Taviani del 2007 con Paz Vega e Alessandro Preziosi) e di Daniel Varujan è la delicata esegeta (ha tradotto Il canto del pane e Mari di grano). Il libro, edito l’anno scorso, sfugge ai canoni dell’‘evento editoriale’ (sarà presentato a Milano, il primo febbraio, presso il Cmc in Largo Corsia dei Servi, 4, con Antonia Arslan e Alessandro Rivali): è il documento pressoché esclusivo in Italia sulla letteratura armena durante il massacro. Per questo, ne abbiamo discusso con la Arslan.
Partiamo da Varujan. L’immagine del poeta concentrato sulla poesia, sulla forma, sulla bellezza anche se è circondato dai suoi sicari mi sembra il simbolo terribile e perfetto della forza della lirica contro il muso della Storia…
“È proprio così. I testi che ho trovato dei compagni di Varujan, miracolosamente sopravvissuti, sono molto potenti. Questi uomini guardavano con un certo fascino al giovane poeta che continuava ostinatamente a pensare alla poesia. Come se fosse una sfida contro l’orrore. La poesia è davvero una sfida contro l’atrocità e la voce di Varujan, che sorge da un mondo di ombre, è una lezione magnifica”.
Che tipo di caratteristiche specifiche ha la poesia armena?
“Intanto, è definita da una forte passione patriottica. I nostri poeti scrivono odi di speranza per il futuro della nazione armena, pur in uno stato di precarietà e di pericolo. Certamente, sono forti gli influssi della poesia europea dell’epoca. Ne Il carro dei cadaveri di Varujan, ad esempio, si sente l’eco di Manzoni e di Leopardi. Allo stesso modo, il ‘naturalismo’ francese di Zola si imprime nelle opere dei romanzieri armeni. Dobbiamo capire che la cultura armena, che aveva centri vitali a Costantinopoli, Tbilisi e Venezia, è fortemente ‘europea’. E ‘italiana’. A Venezia si traduceva moltissimo: s’immagini che Cuore di De Amicis è pubblico in armeno appena quattro anni dopo l’edizione italiana. Per gli armeni l’Italia è un modello da imitare, è la nazione che è giunta all’indipendenza attraverso le guerre di popolo”.
Venendo all’argomento più atroce. Lei scrive che “l’annientamento dell’élite armena della capitale” fu la “conseguenza di un abilissimo inganno”. Cosa significa?
“Significa che nello sterminio degli armeni c’è stata una premeditazione. Studiando i documenti dei sopravvissuti scopriamo che in tre giorni, dalla notte del 24 aprile 1915, i turchi deportano 2350 intellettuali, scrittori, giornalisti, politici appartenenti alla comunità armena. Non operano in modo brutale. Anzi. Agiscono con cortesia e gentilezza. ‘Non occorre che portiate con voi abiti o valige, dovete venire solo per rispondere ad alcune domande’, dicono i militari. Gli armeni obbediscono. Poi, li mandano in esilio nelle cittadine dell’interno, tra Çankiri e Ayas, a gruppi di 30 o di 50. Nei mesi successivi, chiedono ai detenuti di far inviare dalle famiglie cibo, vestiti, vettovaglie, soldi. Il tutto, ancora, senza brutalità. Infine, la dissimulazione si svela. Sottratti i beni inviati ai familiari dalla città (che saranno spartiti e rivenduti), gli assassini uccidono gli armeni, di solito durante un transito da un villaggio all’altro. Eccolo, l’inganno. Il governo dei Giovani Turchi riesce così a realizzare un progetto criminale architettato da lungo tempo”.
La domanda fatale, ora, è questa: perché gli armeni davano così tanto fastidio?
“Ora a questa domanda è possibile rispondere con coerenza. Negli Stati Uniti, un paio di mesi fa, è uscito uno studio di Siobhan Nash-Marshall, The Sins of the Fathers, con una immane quantità di referenze bibliografiche, frutto del lavoro di anni. Sommariamente: i Giovani Turchi, che rivendicano la parola ‘turco’ perfino nel nome del proprio partito politico, intendono fondare la propria patria in una Anatolia abitata per tradizione da armeni, greci, curdi, siriani. Il progetto è assimilare con conversioni forzate queste popolazioni o eliminarle. Questa specie di ossessione per la ‘patria’ turca ha origine con la crisi dell’Impero ottomano, quando i Balcani e l’Egitto si svincolano dalle spire del sultano, e la Grecia è perduta. I Giovani Turchi si appoggiano al nazionalismo europeo ottocentesco, alle teorizzazioni della filosofia tedesca e soprattutto a una decisiva alleanza con la Germania guglielmina”.
Ci dettagli l’importanza di questo legame con la Germania.
“Questo aspetto è forse quello più agghiacciante del lavoro di studio. In tutta la pubblicistica della Germania guglielmina, e parliamo di giornali, riviste e romanzi di grande successo pubblico, l’armeno è presentato come ‘l’ebreo del Medioriente’, è descritto con le stesse fattezze dell’ebreo e con gli stessi istinti morali, quelli del mercante disonesto. L’armeno è ritenuto una specie di ‘sub ebreo’ e questo spiega perché i tedeschi non abbiamo mosso un dito quando venne a galla lo sterminio degli armeni, un vero e proprio genocidio….”.
…che per altro, in scala ancora maggiore, colpirà proprio gli ebrei, in suolo tedesco. Solo che la Shoah è un fatto dolorosamente assodato, mentre sul genocidio armeno non si parla mai a sufficienza. Tornando a lei, Antonia Arslan, ora a cosa sta lavorando?
“Sto cominciando a scrivere un altro libro, che documenta la storia della mia famiglia, in parte narrata in Lettere a una ragazza in Turchia (Rizzoli, 2016). Il successo de La masseria delle allodole ha stimolato un mio cugino statunitense a inviarmi dei documenti su vicende che ora, come riesco a fare, voglio portare alla luce”.
Così, la scrittura non è mera testimonianza. La scrittura salva. Con “spietati occhi umani” il poeta, indomato, scava nell’orda del male per estrarre la bellezza. E la scrittura salva i morti dall’oblio, le macerie dall’annientamento.
Davide Brullo