Come siamo arrivati alla frattura fra Armenia e Russia e cosa potrebbe succedere (Valigiablu 21.06.24)
Ha destato stupore nella stampa internazionale la recente dichiarazione del Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan secondo cui l’Armenia lascerà l’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). L’Armenia è stata sempre considerata una roccaforte filorussa in Caucaso, e ora svolta verso l’occidente. Ma secondo il suo Primo Ministro, è stata la CSTO a lasciare l’Armenia prima che lo decidesse il paese, c’est-à-dire, è stata la Russia a lasciare l’Armenia prima che fosse la piccola repubblica ad avvertire il bisogno, sempre più esistenziale, di trovare nuovi partner e garanti di sicurezza.
È una frattura, quella armeno-russa, che si è acuita negli anni. È partita con la rivoluzione di velluto in Armenia nel 2018 che ha portato Pashinyan al potere. Per due anni il neoeletto Primo Ministro, allora eroe di una piazza che si era rivoltata contro stagnazione e corruzione, ha fatto di tutto per convincere lo storico alleato moscovita che nulla era cambiato né sarebbe cambiato nella politica estera del paese. Non era una rivoluzione di natura geo-politica, era una manifestazione di un profondo dissenso verso un regime che relegava il paese alla stagnazione politica ed economica, con povertà diffusa e una oligarchia predatoria e intoccabile. Poi sono seguiti due anni estremamente burrascosi, con una riforma dello Stato che stentava a partire, una elite interna legata a Mosca che chiaramente non aveva intenzione di essere messa da parte e ancor meno di finire in carcere, e Mosca stessa non certo soddisfatta di non aver potuto garantire la continuità di potere della classe dirigente di cui si fidava assai di più. Poi la pandemia e, nel 2020, la seconda guerra del Karabakh.
In 44 giorni l’Armenia ha perso buona parte del territorio conquistato con la prima guerra del Karabakh, e ha preso consapevolezza che gli accordi militari con la Russia non avrebbero salvato il Karabakh. Anzi, con sempre più certezza a Yerevan si dice che la luce verde alla seconda guerra Baku l’ha ricevuto da Mosca la quale in Armenia, come in Georgia nel 2008, come in Ucraina nel 2014 e nel 2022 avrebbe cercato di rovesciare un governo non considerato affidabile (o ostile) attraverso una sconfitta militare. Il 2020 ha dimostrato che non solo il Karabakh, ma la stessa Armenia non sarebbero state protette, né dalla Russia né dal CSTO. Durante il conflitto Pashinyan aveva segnalato attraverso una lettera inviata personalmente al presidente russo Vladimir Putin che la guerra aveva sconfinato nell’Armenia propria. L’intervento che ne sarebbe dovuto conseguire non si è mai materializzato.
A guerra ri-congelata, con un nuovo cessate il fuoco negoziato da Mosca – non già come alleata armena ma come terzo ed equidistante segnatario – il mancato intervento russo si è fatto ancora più evidente. Sono cominciati gli affondi territoriali di forze dell’Azerbaijan prima nel maggio del 2021 e dopo scontri sanguinari nel settembre 2022.
Dal dicembre del 2022 quanto rimaneva del Karabakh è entrato in un blocco protratto: la strada di Lachin, in base al cessate il fuoco negoziato dalla Russia sotto il controllo dei suoi peacekeepers, è stata bloccata dagli azeri che di fatto vi hanno ristabilito la propria sovranità. La strada è sempre stata il cordone ombelicale fra Armenia metropolitana e armeni del Karabakh, e l’inattività nell’esercitare il proprio mandato è stato il prologo della caduta del Karabakh e della scomparsa – nel giro di pochi giorni – della comunità armena dalla regione.
2023-2024, un biennio insanabile
Il 2023 è stato l’anno in cui questa frattura è divenuta per Yerevan insanabile. Mentre la situazione di sicurezza armena si faceva sempre più critica fra presidi militari azeri nel territorio armeno e il blocco del Karabakh, le armi acquistate non arrivavano. È stato molto chiaro in merito Pashinyan: c’è lo sforzo bellico in Ucraina, ma l’Armenia aveva pagato delle armi russe, per il 90% delle importazioni militari arrivavano dalla Russia, il paese rischiava una nuova guerra, e non arrivava quanto pattuito.
Della questione ha parlato anche molto recentemente la portavoce del ministero degli Affari Esteri russo che, alla richiesta di commentare la possibile sospensione della cooperazione militare russo-armena nella situazione attuale, ha candidamente detto: “Le forniture di prodotti militari a paesi stranieri vengono effettuate tenendo conto delle esigenze dell’operazione militare speciale, come più volte affermato dalla leadership della Federazione Russa. Le attuali restrizioni su alcuni tipi di armi ed equipaggiamenti militari hanno un impatto sulla cooperazione tecnico-militare, non solo con l’Armenia, ma anche con gli altri nostri partner”.
La riconquista del Karabakh non ha messo fine al processo di poderoso riarmo in corso in Azerbaijan, e l’Armenia si è trovata in condizione di estrema vulnerabilità. Di fatto nulla di quanto pattuito è stato erogato: né in armi, né in sostegno diplomatico, né in rispetto degli accordi. Un bilancio disastroso della scelta di relegare all’alleanza con la Russia la sicurezza nazionale.
Nel settembre 2023, in meno di 24 ore il Karabakh è caduto senza che i peacekeepers prendessero la benché minima iniziativa. E da allora altrettanto in caduta libera sono relazioni russo-armene, con Yerevan che sta progressivamente introducendo misure che a Mosca vengono percepite come chiaramente anti-russe.
L’Armenia è divenuta segnataria dello Statuto di Roma. La scelta di divenire membro non è stata dettata dalla presa di distanza da Mosca, ma dalla volontà di trovare tutela dalle violazioni durante le recenti guerre. Di fatto questo implica un possibile arresto di Putin qualora visitasse il paese. Il ministero degli Esteri russo ha protestato in più occasioni con Yerevan perché si astenesse dal procedere.
Inoltre, nel gennaio del 2023 l’Armenia ha rifiutato di ospitare le esercitazioni del CSTO sul proprio territorio, mentre a settembre ha ospitato quelle con gli Stati Uniti chiamate “Eagle Partner “. L’ambasciatore armeno a Mosca è stato convocato e gli è stata presentata una protesta piuttosto veemente rispetto a questa scelta.
Sempre nel 2023, Anna Hakobyan, moglie del Primo Ministro, si è presentata all’incontro delle first lady e gentleman a Kyiv e ha portato, per la prima volta dall’inizio del conflitto, degli aiuti umanitari direttamente alla leadership ucraina. Un fatto che non è certo passato inosservato, poiché fino ad allora l’Armenia aveva mantenuto un profilo estremamente basso per quanto riguarda la guerra in Ucraina. Ma i rapporti fra i due paesi sono cambiati radicalmente negli ultimi due anni, e recentemente una delegazione armena ha visitato Bucha. Questo mese, infine, l’Armenia era alla Conferenza di Berlino per l’Ukraine Recovery nonché al Summit per la Pace in Svizzera. Nei incontri a latere delle conferenze Yerevan e Kyiv hanno concordato un rilancio dei rapporti bilaterali.
Ma non solo l’Ucraina: sempre a giugno per la prima volta da quando è stata introdotta dopo la guerra russo-georgiana del 2008, l’Armenia ha votato a favore del rientro degli sfollati di guerra georgiani di Abkhazia e Ossezia del Sud. Il voto non è certo passato inosservato perché sono un pugno di paesi che votano contro, e cioè gli alleati di ferro di Mosca, che questo anno sono stati Bielorussia, Burundi, Cuba, Mali, Nicaragua, Corea del Nord, Siria e Zimbabwe.
Poi c’è la lotta alla propaganda russa: a Margarita Simonyan e a un blogger di origini armene ma residente in Russia è stato impedito di entrare in Armenia. Le trasmissioni in lingua russa sono diminuite nel paese e la questione dello status del russo come lingua internazionale, protetta e preservata nei paesi ex sovietici, è un tasto molto sensibile per Mosca.
Pashinyan evita piuttosto chiaramente i rapporti con il Cremlino ed è chiaro che il protagonismo russo nel processo di pace con l’Azerbaijan non è ben accolto. Yerevan ha sbugiardato apertamente Mosca sulla sua importanza come detentrice delle mappe originali necessarie per definire e demarcare i confini armeno-azeri.
La Russia è progressivamente respinta dal Caucaso orientale e centrale. L’Azerbaijan – che vanta a questo punto un rapporto decisamente migliore che l’Armenia con Mosca – ha però rispedito al mittente la forza dei peacekeepers, senza nemmeno aspettare la scadenza di mandato del 2025. Mosca ha perso un presidio di circa duemila uomini in Caucaso. A questi vanno aggiunte le guardie di frontiera russe che l’Armenia ha deciso di rimuovere dall’aeroporto di Yerevan, Zvarnots. Questa mossa, già ufficializzata alle autorità russe competenti, ha suscitato irritazione immediata da parte di Mosca. La presenza delle guardie di frontiera russe a Zvarnots è datata 1992, ma non regolata da una specifica delega di competenze da parte del governo armeno.
C’è poi il capitolo Armenia-Unione Europea che crea uno scenario completamente nuovo: nessuno aveva mai osato ipotizzare che un membro dell’Unione Euroasiatica potesse incamminarsi verso l’integrazione nell’Unione Europea. Da Mosca già si precisa che sono due partecipazioni incompatibili.
In un contesto già estremamente teso, è arrivata una delle consuete esternazioni del dittatore bielorusso Alexander Lukashenka che, in visita a Baku, non ha fatto segreto di essere stato al corrente delle intenzioni bellicose dell’Azerbaijan contro quello che avrebbe dovuto essere un partner del CSTO, e si è complimentato per l’esito della guerra.
Si è aperto il vaso di Pandora: sono emerse una enorme quantità di informazioni e prove che la Bielorussia ha armato l’Azerbaijan e che la disfatta armena è frutto anche di una trappola militare, fra armi non consegnate ma fornite al nemico in generose quantità da parte dei propri alleati. Un quadro che ha portato alla dichiarazione di cui sopra: l’Armenia abbandonerà il CSTO. E mentre Pashinyan tuona contro Lukashenka e dichiara che non metterà più piede in Bielorussia finché c’è lui (di fatto preannunciando di non partecipare a futuri incontri del CSI e dell’Unione Euroasiatica qualora si tenessero a Minsk) – nemmeno troppo a denti stretti – si constata che Minsk non avrebbe agito senza l’ok da Mosca.
L’uscita dal CSTO, preannunciata anche se senza una data, è de facto già in corso. L’Armenia si è autosospesa, e ha sospeso anche i pagamenti all’organizzazione. Il CSTO minimizza e sostiene che ritardi di pagamenti sono già avvenute in passato, e che nulla è ancora deciso. Intanto Yerevan ha ri-orientato il proprio mercato bellico. Gli acquisti dalla Russia sono scesi dal 90% al 10%, con India e Francia nuovi fornitori di armi al paese che, da un lato, negozia la pace, dall’altro, non esclude di essere oggetto di una nuova guerra e di una nuova mutilazione territoriale.
Yerevan non ha più illusioni, e Pashinyan stesso sa che prima ancora del suo paese, è lui stesso a rischiare. All’interno dell’Armenia forze spalleggiate da Mosca, le stesse che dal 2018 spingono per una restaurazione dell’Ancient Régime pre-rivoluzionario, cercano volti nuovi perché l’impopolarità della classe politica precedente riesce comunque a essere maggiore di quella, crescente, di Pashinyan. Il primo ministro, dopo la pandemia, due guerre perse e una transizione in corso estremamente difficile, non è certo più l’eroe della rivoluzione.
La crisi armeno-russa ha, quindi, importanti ripercussioni sui confini del paese, dove l’Azerbaijan preme, forte delle spalle protette tanto dalla Russia e dalla Turchia, e all’interno, dove un leader ormai impopolare si trova a dover fronteggiare un dissenso che è sia reale, sia fomentato e legittimato da Mosca. La piazza di Yerevan che manifesta contro Pashinyan e che viene repressa, trova sponda nelle dichiarazioni del Ministero degli esteri russo, che più volte ha definito il governo Pashinyan come “corrente”, come fosse una parentesi temporanea la cui rimozione riporterebbe l’armonia nei rapporti armeno-russi.
Saranno mesi molto difficili quelli che ancora attendono l’Armenia che, nel giro di poco tempo, si è trovata a saldare il conto di errori di valutazione e illusioni coltivate unilateralmente. La dipendenza economica dall’ex alleato rimane elevatissima, le alternative militari richiedono molta audacia da parte dei paesi partner, poiché i tre poteri regionali del Caucaso – Turchia, Russia e Iran – possono essere divisi su molto, ma non sul patto d’acciaio di tenere fuori dalla regione poteri terzi. In ultimo, il travaso di russi in fuga dalla mobilitazione ha creato un ulteriore presidio economico russo nel paese.