Claudio Gobbi. Chiese armene (Doppiozero 04.12.16)
“La ripetizione non è la generalità. […] La generalità presenta due grandi ordini, l’ordine qualitativo delle somiglianze e l’ordine quantitativo delle equivalenze. […] la generalità esprime un punto di vista secondo cui un termine può essere scambiato con un altro, un termine sostituito con un altro. […] Al contrario, […] la ripetizione come condotta e come punto di vista concerne una singolarità impermutabile, insostituibile. […] Ripetere è comportarsi, ma in rapporto a qualcosa di unico o di singolare, che non ha simile o equivalente. […] La festa non ha altro paradosso apparente: ripetere un ‘irricominciabile’. Non aggiungere una seconda e una terza volta alla prima, ma portare la prima volta all’ennesima potenza. […] Sono dunque in opposizione la generalità, come generalità del particolare, e la ripetizione come universale del singolare” (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffello Cortina Editore, Milano, 1997, pp. 7-81).
Se penso al lavoro che Claudio Gobbi ha portato avanti con costanza per anni prima di giungere a pubblicare nel 2016 il libro Arménie Ville per Hatje Cantz, mi è facile tornare all’incipit deleuziano che ho appena riassunto. Alla sua luce, la ricerca quasi certosina di immagini che ritraessero un modello architettonico che si mantiene sostanzialmente immutato nei secoli, la chiesa armena, dovrebbe apparire facilmente dell’ordine della ripetizione piuttosto che della generalità. Tanto più che il fenomeno stesso dell’immutabilità di questo modello appartiene di diritto alla ripetizione. Non si tratta, infatti, di costruire chiese somiglianti ed equivalenti: ciò cui si tende è portare il modello “all’ennesima potenza”, una sorta di chiesa-rito, che ripetendosi si amplifica. E una sorta di rito mi sembra anche la procedura di avvicinamento al suo soggetto da parte di Claudio Gobbi. Fotografie scattate da lui, richieste ad altri fotografi, ricercate negli archivi o sulla rete, sottoposte a un criterio di uniformità nella presentazione, nonostante la varietà delle fonti, costituiscono un lavoro che s’inserisce nella solida tradizione seriale della fotografia contemporanea. Con una sua specificità, però, che allarga, potenzia. La questione non è solamente trovare analogie o variazioni nel catalogo, cosa che ovviamente avviene. Il senso più profondo che intravedo è il ricalcare attraverso una serie, che si fa rito e ripetizione essa stessa, la medesima logica, se di logica in senso stretto si può parlare, sottesa al fenomeno delle chiese armene: sorta di singolarità ripetute in ogni tempo e in ogni spazio, proprio secondo quell’idea di ripetizione come universale del singolare.
La questione del tempo è qui centrale. Il tempo del rito è un tempo della ripetizione, il tempo di qualcosa che dura. E la singolarità della chiesa armena appare declinata da Gobbi proprio attraverso questa temporalità, un tempo-durata che non ha la misurabilità e l’evoluzione del tempo cronologico. Nessuna fenomenologia degli stili permette qui di dare una facile freccia al tempo, scandendolo e dotandolo di direzione. Ricordare che il concetto di durata è legato a Bergson e riletto in tempi più recenti proprio da Deleuze, è una piccola conferma che mi permette un passo avanti. Con una bella sterzata.
Quando Claudio mi ha chiesto di scrivere sul suo libro, mi è tornato in mente un film di Atom Egoyan del 1993. In Calendar, un fotografo di origine armena, Egoyan stesso, è invitato in Armenia a fare una serie di fotografie di chiese per un calendario. Parte con la moglie, che parla l’armeno e farà da interprete, e troverà sul posto una persona che li accompagnerà in macchina nei vari siti, improvvisandosi però anche nel ruolo di guida. Tutto il film narra del progressivo distacco della moglie e di lui e del parallelo avvicinamento da parte di lei alla guida armena.
Tutto apparentemente accade senza che il fotografo se ne renda pienamente conto, essendo tutto catturato dalla realizzazione delle fotografie, ossia vivendo una sorta di infatuazione dello sguardo che lo rende quantomeno distratto rispetto al precipitare degli eventi.
Nella prima scena, un’inquadratura fissa su una chiesa in lontananza su un’altura fa subito riferimento al fotografico. Sembra non accadere nulla se non il tempo come durata. È un’immagine-tempo, per usare un’altra fortunata espressione di Deleuze. La chiesa armena, con il suo carico d’immutabilità, sembra il soggetto perfetto per esprimerla. Così deve essere sembrato anche a Claudio Gobbi. Siamo in un film, però. Improvvisamente entra in campo una macchina che risale la collina fino alla chiesa. Ne escono piccole figure che intuiamo essere i protagonisti. Con l’entrata in campo dell’auto possiamo dire che fa irruzione quella che Deleuze chiamava immagine-movimento. In una scena è condensato il passaggio da una situazione in cui la chiesa ci viene presentata nella sua essenza, a un’altra in cui diventa uno degli elementi della narrazione. Questo grazie a un sapiente utilizzo del fuori-campo. Mi chiedo allora: c’è un fuori-campo anche nel progetto di Claudio Gobbi?
Quali sono, se ci sono, i paralleli? Lui stesso mi ha confermato di non essere interessato nel suo lavoro alla narrazione e credo quindi di non fargli torto se inserisco idealmente il suo lavoro nella scena iniziale, prima dell’irruzione dell’automobile. Tuttavia la questione del fuori-campo mi sembra interessante, anche perché in fotografia non è di solito contemplata. Anche qui Claudio ha dato un’interessante lettura: il suo fuori-campo potrebbe essere tutto il processo che ha portato alla scelta di un’unica immagine per rappresentare una sola chiesa, ossia tutto ciò che non è mostrato poiché non scelto, ma ha concorso alla selezione finale, partendo da una pluralità di punti di vista sulla medesima chiesa. Non è solo editing, a mio giudizio, ma la temporalità di un lavoro, la sua cronologia, se così si può dire, che si manifesta in questo processo. Il fatto che Gobbi non la mostri, non la faccia entrare in campo, come invece fa Egoyan, che è un regista e ha bisogno della narrazione, significa una scelta precisa: resto sul lato della durata e dell’essenza. Resto dalla parte del rito.
Il film adotta vari linguaggi, oltre al cinema di inquadratura fissa, anche il video, usato per contrapposizione in maniera mobile e quasi tattile, la fotografia, e i messaggi di una segreteria telefonica. Si potrebbe vederlo in un certo senso come prefigurazione della multimedialità odierna. In Calendar si osserva la stessa cosa (le chiese, la storia) con media differenti che vanno a influenzare il tipo di sguardo, la percezione, attuandone uno spossessamento. Anche la rinuncia di Gobbi a imporre sempre il proprio punto di vista va nella direzione di una perdita dello sguardo. Le diverse fonti da cui è compiuta la selezione dell’immagine finale di una determinata chiesa portano a una pluralità di visioni, a una sorta di dispersione ottica ancora più apprezzabile sfogliando più volte la serie finale delle chiese.
E questa dispersione, applicata paradossalmente a un modello immutabile, diviene una raffinata e non didascalica riflessione visiva sulle caratteristiche di una società ipermediale come la nostra, in cui lo sguardo soggettivo e umanista del fotografo, ma anche, quasi per converso, il mito dell’oggettività fotografica sono messi pienamente in crisi. Per dirla in una formula, Arménie Ville può sembrare a una vista distratta (la nostra, bombardata da miriadi di informazioni visive) un lavoro monomediale, quasi nostalgico, ma si rivela a un’attenta analisi sottilmente multimediale, radicato nella riflessione sul contemporaneo.
In fondo la nostra epoca sta diventando il regno della simulazione, dell’equivalenza, dominato dalla generalità. Claudio Gobbi in maniera non urlata, col suo avvicinamento alla chiesa armena che si fa rito di ripetizione, cerca proprio, va ribadito, un “universale del singolare”. Qualcosa che a contrasto faccia da rivelatore della condizione odierna, sempre più spesso preda di una tendenza alla genericità.