Chi era Paolo Taviani: dagli armeni ai carcerati, fu la coscienza della sinistra (L’Unità 03.03.24)
Paolo Taviani, che se n’è andato nei giorni scorsi novantunenne, ha rappresentato insieme al fratello Vittorio certamente la coppia più esemplare del cinema d’autore del nostro dopoguerra. Toscani di San Miniato, i due fratelli, i-Taviani.
Nominalmente indistinguibili l’uno dall’altro. Quale Vittorio? Quale Paolo? A loro si deve dapprima un cinema “civile” e insieme, diciamo pure, “di poesia”, problematico, colmo di citazioni antiche, e ancora intriso, intarsiato, intessuto di “realismo magico”. Talvolta anche didattico, letterario, dichiaratamente calco di un arazzo romanzesco.
Ai miei occhi, occorre dire che Paolo Taviani, diversamente dal fratello residente giù a valle, a Trastevere, aveva il volto del vicino di casa, Monteverde Vecchio, il Gianicolo, l’edicola di via Giacinto Carini, non lontano dall’abitazione già appartenuta a Pier Paolo Pasolini, lì si aveva modo di incontrarlo al mattino, diligente nell’acquisto dei quotidiani, preghiera laica consacrata da Hegel.
Se, iconicamente, Vittorio c’era modo di associarlo per antonomasia visiva a un berretto da “teppista” majakovskiano, Paolo, meno esile del maggiore, rispondeva sempre visivamente agli occhiali, la montatura ampia, a coprire quasi per intero lo sguardo, punteggiatura d’arredo somatico.
Se, come detto, si faceva fatica a distinguere il nome di battesimo dell’uno dal nome dell’altro, il loro cinema non ha mai dato sensazione di possibili conflitti dialettici tra loro, anzi, suggeriva un’armonia estetica e formale perfetta; poche le obiezioni anche in sede di sceneggiatura, quasi che i-Taviani, “fratelli”, aderissero allo stesso intento narrativo come sfere al cuscinetto.
Ripensandone gli esordi torna in mente un’opera singolare e formalmente frastagliata, allegoricamente “politica”, cioè I sovversivi del 1967 dedicato agli “astratti furori” rivoluzionari, girato nei giorni dei funerali di Togliatti, il lavoro includeva frammenti di pellicola originali delle esequie del leader comunista; realizzate in prima battuta per il Partito comunista italiano.
Nel film compare, giovanissimo, Lucio Dalla, studente, ora a bordo di una Fiat 1500 a leggere palindromi, ora a utilizzare i biglietti da visita del diploma appena conseguito per comporre bizzarre lettere anonime: il pensiero e il sentimento della rivoluzione attesa o forse mancata a illuminare lo straordinario bianco e nero fotografico proprio di una soglia, il passaggio a un mondo non ancora in quadricromia, l’Italia al mattino del centrosinistra.
Nel cinema di Paolo (e Vittorio) c’era modo di rintracciare echi brechtiani e poi le prevedibili sirene della Nouvelle Vague di Godard, e ancora interesse drammaturgico per il racconto dell’epopea risorgimentale, nell’attesa delle prime bandiere rosse che Pisacane avrebbe sollevato insieme alla sua sciabola di nobile “traditore” della propria classe sociale.
Oppure il racconto della resistenza nel paesaggio pittorico di una Toscana trasfigurata a sua volta in se stessa, con echi da “Battaglia di San Romano” di Paolo Uccello e perfino da Termopili trasfigurate, così nella scena cruenta del fascista trafitto da una pioggia di lance.
Certo, talvolta era possibile anche rintracciare una certa discontinuità nella loro mano, almeno ripensando a Good morning Babilonia del 1987, dove venivano tuttavia omaggiate le maestranze del cinema giunte dalla Toscana fino a Hollywood, quasi che gli scalpellini delle chiese romaniche si fossero poi trasformati in scenografi per la Cleopatra di Theda Bara…
Ecco, notate, è difficile parlandone disgiungere la memoria di un fratello rispetto all’altro, era infatti come se avessero avuto un unico sguardo, punto di osservazione, lo stesso occhio-grandangolo. Gli dobbiamo, con Kaos, d’avere finalmente concesso una bella prova d’autore a Franchi e Ingrassia; ricordo con i miei occhi quanto il primo, Franco, il “comico” della coppia, fosse grato all’altra coppia, a i-Taviani.
Nella lunga sua avventura di regista, Paolo ha vinto 5 David di Donatello. Sessanta anni nel corso dei quali ha diretto, tra gli altri, La masseria delle allodole, Una questione privata, La notte di San Lorenzo. Nel 2012 il premio come miglior regia al David di Donatello per il film Cesare deve morire.
Da Sotto il segno dello Scorpione (1969) a San Michele aveva un gallo (1971) ad Allonsanfàn (1974); poi Fiorile (1993); Le affinità elettive (1996), Tu ridi (1998). Nella filmografia spicca però Padre padrone (1977), tratto dal libro dello scrittore sardo Gavino Ledda, vincitore della Palma d’Oro e del Premio della Critica al Festival di Cannes. Del 2007 è La masseria delle allodole, tratto invece dal romanzo di Antonia Arslan, il racconto del genocidio del popolo armeno da parte dei Turchi nel 1915.
Allonsanfàn (1974), facendo macchina indietro rispetto ai giorni dell’addio corale a Togliatti, racconta, restituisce i giorni della Restaurazione, le illusioni perdute e insieme tradite dell’impeto rivoluzionario ancora una volta, il tema della coscienza politica davanti al macigno, alle frane della storia, il tormento degli insorti sconfitti, esiliati, la tradimento della classe proletaria: tutto riassunto nel volto di Marcello Mastroianni, accanto a lui Laura Betti, Lea Massari, Giulio Brogi e Renato Scarpa.
Sarà però con Padre padrone, dalla testimonianza autobiografica di Gavino Ledda, un ex pastore sardo diventato scrittore e filologo, che, era il 1977, i-Taviani troveranno interesse e fama internazionale, ottenendo la Palma d’Oro e al Premio della Critica al Festival di Cannes. Verrà poi l’Orso d’Oro a Berlino 2012 con Cesare deve morire.
La tragedia di William Shakespeare fatta propria dagli attori- detenuti del carcere di Rebibbia. Ancora una volta ai fratelli verrà riconosciuta la cifra dell’impegno sociale e nella qualità cinematografica, ottenendo anche il David di Donatello per il miglior film e il David di Donatello per il miglior regista. Nel 2017 sono tornati al cinema, per l’ultima volta in coppia, con il film Una questione privata, tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio, presentato in anteprima al Festival del Cinema di Roma.
Paolo Taviani è morto a Roma dopo una breve malattia, a stargli vicino la moglie Lina Nerli Taviani e i figli Ermanno e Valentina. Lunedì 4 marzo la cerimonia laica funebre alla Promototeca del Campidoglio dalle 10 alle 13. Con Paolo Taviani se ne va un’epoca, lo sbalzo di un cinema che non indietreggiava di fronte alla complessità dell’epica letteraria e neppure davanti al peso della storia.