Caucaso: linee che dividono e lacerano comunità (Osservatorio Balcani e Caucaso 21.07.21)

Abkhazia, Ossezia del sud, Nagorno Karabakh. Sono numerose nel Caucaso del Sud le dispute territoriali aperte. Quali le conseguenze di confini non riconosciuti da tutte le parti in causa?

21/07/2021 –  Marilisa Lorusso

I tre territori secessionisti del Caucaso hanno condiviso due ondate di guerre, la prima durante lo smembramento dell’Unione Sovietica, la seconda negli anni 2000: in Georgia, Abkhazia e Ossezia del Sud con la guerra del 2008, e il Nagorno Karabakh con la guerra armeno-azera del 2020.

Il risultato di questo ritorno alle armi in tutti i casi ha comportato che una soluzione politica – e quindi concordata – per questi territori non sia mai stata raggiunta. Questo incide sui territori stessi, sul posizionamento dei loro confini – che non essendo concordato, è soggetto a continue dispute, cosa che mina profondamente per le comunità locali la vivibilità delle zone contese.

Ossezia del Sud e Abkhazia

Per la Georgia è una linea di confine amministrativo, per l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, autoproclamatesi repubbliche de facto, è un confine di stato: la linea invisibile che divide i territori amministrati da Tskhinvali e Sukhumi e quello amministrato da Tbilisi diventa sempre più visibile, e si sposta.

Mappa a cura di OBC

Mappa a cura di OBCT

Quest’ultimo processo viene indicato come borderization, cioè demarcazione del confine, e dal 2009 è diventato la principale fonte di tensione in un cessate il fuoco che sta per molti aspetti tenendo. In quell’anno è cominciata da parte delle truppe russe e secessioniste la militarizzazione dell’area di contatto, prima largamente invisibile. In vari punti sono comparsi filo spinato e punti di osservazione. I valichi sono stati sempre più istituzionalizzati e controllati. Il processo si è intensificato nel 2013 e nel 2018 erano già 34 i villaggi nelle aree di confine che si erano trovati tagliati in due. Un fenomeno che non riguarda solo le comunità, sono anche i privati che improvvisamente si possono trovare esclusi dall’accesso ai propri pozzi, agli orti, ai pascoli. La stima  di Amnesty International è che dalle 800 alle 1000 famiglie siano state danneggiate da questo processo.

Altra conseguenza della borderization sono i sempre più frequenti casi di arresti e detenzioni di cittadini georgiani che attraversano la linea di demarcazione con Ossezia del Sud ed Abkhazia. Il mese scorso i familiari di Zaza Gakheladze, fermato per attraversamento nel luglio 2020 e coinvolto in uno scontro a fuoco, condannato a 12 anni di carcere in Ossezia del Sud, hanno manifestato accompagnati da un gruppo di sostenitori per la sua liberazione: nel giorno del 34esimo compleanno del figlio, il padre voleva simbolicamente attraversare a sua volta, ma è stato dissuaso dal farlo  dalle autorità georgiane. In una decina d’anni sono dalle 1200 alle 1800 le persone fermate, alcune di queste poi arrestate e condannate alla detenzione.

I meccanismi che si attivano in questo caso sono quelli creati per ridurre la tensione dopo la guerra russo-georgiana del 2008: interviene la missione dell’Unione Europea e se ne discute nella hotline istituita fra le parti. Se ne parla poi nel Meccanismo di Prevenzione e Risoluzione degli Incidenti (IPRM) concordato nelle Discussioni di Ginevra, e negli incontri di Ginevra stessi.

I più recenti spostamenti delle linee di demarcazione hanno riguardato le aree a ovest di Tsinkhvali, Gugutiantkari nella provincia di Gori, Takhtisdziri, Chorchana e Tsaghvli nella provincia di Khashuri, dove Tbilisi aveva aperto un checkpoint nel proprio territorio, causando l’ira di Tskhinvali e la conseguente borderization dell’area. Qui le autorità dell’Ossezia del Sud si sono spinte di 1.3 km all’interno dell’area controllata da Tbilisi, continuando quel processo di erosione territoriale già osservato nell’ultimo decennio. Stesso scenario lungo la linea che separa l’Abkhazia dalla Georgia, fra Saberio e Pakhulani e poi vicino a Khurcha e Ganmukhuri. Problemi poi anche nell’area strategica di Karapila/Khurvaleti, lungo la rotta autostradale che collega la Georgia da est a ovest e dove passa l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.

Infine l’Abkhazia non ha poi confini pienamente demarcati con la Russia. È attivo un tavolo di negoziazione abkhazo-russo ma il georgiano Democracy Research Institute lamenta  come questa territorialità fluida faciliti una subdola annessione. Recentemente ad esempio il villaggio di Aibgha nel distretto di Gagra è passato dall’essere abkhazo a fare parte della Russia.

Nagorno-Karabakh

Il quadro è ancora più complicato per quanto riguarda il Nagorno-Karabakh. Come già analizzato su queste pagine la questione dei confini e degli attraversamenti si è estesa all’intero perimetro di contatto armeno-azero – e non solo nell’area del Nagorno Karabakh anche se è per quanto riguarda quest’ultima che vi sono le difficoltà maggiori.

Armenia e Azerbaijan infatti si riconoscono vicendevolmente, anche se hanno interrotto i loro rapporti diplomatici diretti. Sono consapevoli e accettano che esista un confine di stato fra loro, e che vada demarcato. Questo discorso non vale invece per il Nagorno Karabakh.

Per Baku l’exclave territoriale armena non esisterebbe più, l’Azerbaijan ritiene di aver riconquistato tutta l’area e la questione dello status non ha più ragione di essere. Baku prende atto che esiste una comunità armena non integrata nell’Azerbaijan, nell’area concordata con la Russia che coincide con l’area di competenza dei peacekeeper russi, ma ritiene che questa non sia altro che una soluzione provvisoria.

Quest’area corrisponde quindi al posizionamento dei punti di osservazione e check point russi, e vischiosamente ne segue il riposizionamento. È quindi un’area precaria, e Baku ritiene di poter spostare le proprie truppe e attività agilmente nelle aree riconquistate e che lambiscono quelle sotto la responsabilità russa. Per le coordinate il riferimento è il bollettino emesso  dal contingente di peacekeeping.

Per Armenia e le autorità del Nagorno Karabakh invece il Nagorno-Karabakh è temporaneamente quello emerso dal conflitto del 2020, con i confini come erano al momento del cessate il fuoco del 9 novembre, e con lo status politico rimasto da definire. Non si nascondono poi le velleità irredentiste a riguardo della città di Shusha/Shushi, capitolata durante la guerra e oggetto ora di grandi investimenti economici  e culturali da parte di Baku.

L’unico meccanismo che regola i contenziosi che possono emergere in questa area è l’intervento diretto dei peacekeeper russi. Non esistono né hotline, né tavoli di confronto che si svolgono direttamente nel territorio, come gli IPRM georgiani.

Ovviamente dove c’è un confine -che sia de facto o de jure – vi sono degli attraversamenti, più o meno volontari. È così che l’8 giugno il soldato Artur Kartanyan è stato tratto in arresto dagli azeri che trovandolo a Lachin, nel proprio territorio, l’hanno preso per un membro di un commando di sabotatori. In realtà il soldato si era perso nella nebbia, aveva attraversato una linea ancora largamente invisibile e dalla demarcazione ancora labile. In questo caso, per fortuna, chiarito l’equivoco, Artur Kartanyan è stato reso alla parte armena. Incidenti questi che però rischiano di ripetersi sempre più frequentemente, in assenza di una soluzione politica.

Vai al sito