CAUCASO: Caso Safarov, la Corte di Strasburgo condanna Baku (Eastjournal 03.06.20)
L’ennesimo capitolo del caso Safarov si è concluso con una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) attesa dal 2013. Il tribunale di Strasburgo ha condannato l’Azerbaigian per le sue azioni nell’ormai lontano 2012, ma nessuno può dirsi pienamente soddisfatto del risultato della vicenda processuale.
Il caso Safarov
Ad inizio 2004 era in corso a Budapest un corso di inglese organizzato dalla NATO nell’ambito del programma Partenariato per la pace, iniziativa con il fine di “creare fiducia” tra i paesi membri dell’Alleanza atlantica e gli stati dell’ex Unione sovietica.
Tra i partecipanti, alloggiati in un albergo della città, c’erano due tenenti dell’esercito armeno, Gurgen Margaryan e Hayk Makuchyan, e un pari grado azero, Ramil Safarov. Alle cinque del mattino del 19 febbraio, Safarov uccise Margaryan nel sonno con sedici colpi d’ascia; provò quindi a entrare nella camera di Makuchyan, trovando la porta chiusa a chiave. Dopo il suo arresto da parte delle autorità ungheresi, il ministero degli Esteri azero dichiarò che a scatenare la follia omicida di Safarov sarebbero stati gli insulti ripetuti dei due armeni all’indirizzo dell’Azerbaigian.
Per l’omicidio, le autorità magiare condannarono Safarov all’ergastolo nell’aprile del 2006. Da quel momento, Baku indirizzò a Budapest una serie di richieste di estradizione, accolte, infine, nel 2012, poco dopo una visita del primo ministro Viktor Orbán nella capitale azera. La condizione del rimpatrio era che il tenente continuasse a scontare la sua condanna a vita in Azerbaigian, in ottemperanza con la Convenzione sul trasferimento delle persone condannate (1983) siglata dai due paesi.
Nonostante le premesse, una volta atterrato a Baku, Safarov venne accolto come un eroe. Nel giorno del suo rientro in patria ottenne la grazia dal presidente Ilham Aliyev, una promozione a maggiore e un nuovo appartamento, oltre a ricevere gli stipendi arretrati accumulati durante gli otto anni di prigionia in Ungheria.
Un conflitto irrisolto
I fatti cruenti di Budapest e ciò che ne seguì si spiegano con il clima d’odio che scorre tra Armenia e Azerbaigian per effetto del conflitto in Nagorno-Karabakh. Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della discordia nelle relazioni tra i due paesi fin dall’epoca sovietica. Negli anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, a maggioranza armena, diventare una oblast autonoma in seno alla Repubblica Socialista Azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione del territorio dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul sostegno finanziario, politico e militare dell’Armenia.
Il caso Safarov ebbe grande risonanza internazionale, e tra gli altri, la Casa Bianca, il Parlamento europeo e l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon criticarono il comportamento delle autorità azere. Scatenò, inoltre, proteste rabbiose in Armenia, mettendo in crisi i rapporti tra Erevan e Budapest ed esacerbando la tensione nel Caucaso.
L’appello a Strasburgo
Nel febbraio di 2013 Makuchyan e Samvel Minasyan – zio dell’ufficiale ucciso – si appellarono alla CEDU. Ad Azerbaigian e Ungheria si imputava la violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela il diritto alla vita. Secondo il testo del ricorso, commutando la grazia a Safarov, Baku ha fatto sì che non venisse applicata la condanna per omicidio; al contempo, Budapest avrebbe accettato l’estradizione senza avere garanzie sull’effettiva applicazione della condanna. Le autorità azere venivano accusate anche di aver violato l’articolo 14 sul divieto di discriminazione, considerato il legame tra la riabilitazione della figura di Safarov e l’etnia armena della vittima.
La Corte di Strasburgo ha riconosciuto: “il fallimento ingiustificato dell’Azerbaigian nel far applicare la sentenza per il crimine d’odio etnico commesso dal suo ufficiale all’estero”. Ha definito come un atto privato l’omicidio, negando la tesi di crimine di stato; ha, tuttavia, condannato Baku per l’accoglienza a Safarov al suo rientro in patria sottolineando il legame causale tra la glorificazione del gesto e l’etnia della vittima. I giudici hanno assolto l’Ungheria dal momento che non hanno trovato prove sufficienti per dimostrare che le autorità di Budapest potessero prevedere l’eventuale rilascio dell’estradato.
La reazione delle parti
L’Azerbaigian dovrà pagare le spese processuali ai ricorrenti. Makuchyan ha, però, dichiarato di essersi appellato a Strasburgo “alla ricerca di giustizia, non di una compensazione”. Similmente, il suo avvocato, Philip Leach, ha spiegato ad EVN Report che l’obiettivo del ricorso era la cancellazione della violazione dei diritti umani che si era venuta a creare con la grazia commutata a Safarov e questa può essere ottenuta solo se l’ufficiale sconterà la pena a cui è stato condannato.
Da parte azera, Leyla Abdullayeva, portavoce del ministero degli Esteri, ha criticato “il tentativo dell’Armenia di politicizzare la CEDU e usarla come strumento nella sua campagna diffamatoria contro l’Azerbaigian”. Abdullayeva ha sottolineato che la Corte ha riconosciuto la non responsabilità di Baku nell’omicidio, la cui causa è legata “alla politica di aggressione” di Erevan.
Una pace sempre più lontana
Il pronunciamento di Strasburgo sul caso Safarov ha avuto una vasta eco mediatica sulla stampa armena. Nessuna delle parti ha, però, di che gioire da questa storia. Se in Armenia c’era la speranza di vedere l’omicida scontare la sua pena, il testo della sentenza contiene una serie di dichiarazioni di membri delle istituzioni azere a dimostrazione del clima di odio insanabile che scorre tra i due paesi. Tra le altre cose Safarov è stato definito: “un eroe”, “un figlio fedele dell’Azerbaigian”, “un esempio per i giovani” e si è parlato dell’omicidio come di “un gesto a difesa della patria”.
Quando le autorità di un paese arrivano a giustificare un delitto a sangue freddo, viene da pensare che gli ostacoli sulla strada della pace siano insuperabili. Sono passati tanti anni dalla fine della guerra del Nagorno-Karabakh e dai fatti di Budapest. Una generazione di armeni e di azeri è cresciuta in sistemi che promuovono l’odio reciproco, mentre al fronte giovani soldati continuano a morire.