C’è un modo per sconfiggere il seme del genocidio? Per fermare una volta per tutte quel mostro che ogni tanto ritorna nella storia degli uomini? La domanda aleggia pesante nell’aria di Roma, che profuma di primavera. Mancano poche settimane al 24 aprile, l’ennesimo mesto anniversario del genocidio del popolo armeno, perpetrato dai turchi nel 1915. Valentina Karakhanian, 38 anni, armena cattolica, occhi scuri, orgogliosi, profondi, non ha paura di questa domanda. L’ha fatta mille volte a se stessa, man mano che la vita le svelava i contorni della tragedia del suo popolo. Non si è mai data per vinta, neppure adesso che il mostro – come dice lei – è ritornato in Siria, sotto le vesti nere del Daesh. «Noi figli della diaspora, discendenti delle vittime del genocidio, non possiamo fermarci agli anniversari e alle commemorazioni. È ora di risorgere». Nello schermo del suo computer c’è un’idea: un bozzolo di futuro, come un bambino appena nato. Si chiama Unione Talenti Armeni d’Italia ed è un sito internet: «Nel 1915 ci decapitarono, uccidendo la nostra intellighenzia: le persone di cultura, gli artisti, i poeti, i maestri». Nel genocidio morirono oltre 1 milione e mezzo di armeni, molti altri si dispersero nel mondo. Circa 2, 3 mila sono oggi i loro discendenti in Italia. Per decenni quel genocidio rimase sotto la polvere della storia. Non riconosciuto, anzi innominabile. «Credo che il modo migliore per far rinascere un popolo – continua Valentina – sia ricostruirne la memoria e l’intelligenza. Proiettarlo verso il futuro. Lo dobbiamo a noi stessi. Lo dobbiamo all’Italia».
Valentina non è una persona qualunque. Parla, suo malgrado, come una capopopolo, tenendo a freno i rischi del protagonismo. C’è una missione da compiere. Questo bambino in fasce che è l’Unione Talenti Armeni, è l’approdo di un lungo cammino. Un cammino eccezionale, personale e collettivo, che ha alle spalle il contributo di quattro Papi, di un grande uomo di fede e dei sogni di una ragazzina armena, che nasce in Georgia nel 1979.
«Ho vissuto la mia infanzia nel limbo che ha preceduto la fine dell’Unione Sovietica – racconta Valentina –. Il nostro credo era bandito. Il grande fratello era dappertutto. Ma avevamo una fortuna: una chiesa e addirittura un sacerdote». Il regime, però, consentiva solo agli anziani di professare la fede. «Mi nascondevo in un angolo della chiesa. Aspettavo la fine delle funzioni. Quando rimanevo sola, emergevo dal mio nascondiglio. Mettevo a posto, curavo i fiori. Poi aprivo una delle finestre, respiravo a pieni polmoni l’aria che veniva dalla montagna. Solo in quei momenti mi sentivo davvero libera».
I genitori, impiegati statali di un regime comunista, non possono trasmettere la fede ai figli: «Mio padre cercava comunque di farlo, traducendo i valori cristiani nei valori comunisti. Mi diceva che il più grande comunista era Gesù Cristo. Capisco ora la sua sofferenza. L’identità armena non può prescindere dall’appartenenza cristiana». Poi arriva il giorno in cui a scuola gli alunni devono fare il «giuramento dei pionieri», rito di passaggio al comunismo. «Avevo 12 anni e quel giorno marinai la scuola. Gli insegnanti chiamarono i miei. Tutti mi sgridarono. Mio padre, invece, mi baciò. Non potrò mai dimenticarlo».
La semina dei talenti
Sono i nonni a trasmettere ai nipoti la fede e l’identità armena. «Sapevamo che loro serbavano il meglio per noi. A partire dalle piccole cose: le migliori patate, il miglior latte, le migliori uova. Di conseguenza, eravamo certi che anche il loro insegnamento era il meglio per noi. Ricordo quando andavamo a stare da loro. Ci addormentavamo al canto delle preghiere armene. Alle quattro del mattino i nonni si svegliavano e nel dormiveglia sentivamo ancora quel canto. Poi ripiombava il silenzio. I nonni ci affidavano agli angeli. Passavano a curare gli animali. Andavano a Messa. Al ritorno, nonna ci veniva a svegliare: “Alzatevi, nonno è tornato. Andate a prendervi la sua benedizione”. Lo raggiungevamo trepidanti, come in un rito antico. Lui segnava una croce sulle nostre fronti. Un segno indelebile». Ogni giorno accadeva la stessa cosa. Tutti i giorni. «I nonni non hanno lasciato che il “grande fratello” ci cambiasse».
Quelle preghiere Valentina le ha imparate così, tra il sonno e la veglia. Sono il sottofondo della sua infanzia. La sua voce le sa riprodurre con un’intensità indicibile. Non a caso i fratelli Taviani l’hanno scelta per la colonna sonora della Masseria delle allodole, il film tratto dall’omonimo libro di Antonia Arslan (tra l’altro nostra collaboratrice), che ha svelato al grande pubblico il genocidio armeno.
«Nulla sapevo della tragedia del mio popolo quando ero in Georgia – continua Valentina –. Tanti tasselli non mi tornavano: ero armena ma non avevo mai vissuto in Armenia, avevo una fede ma non era quella comunista, percepivo la libertà ma non sapevo come raggiungerla, amavo i miei genitori ma seguivo i miei nonni. Mi sentivo come uno specchio rotto».
Qualcosa cambia nella sua vita nel 1991, quando, alla fine del comunismo, Giovanni Paolo II manda a rifondare la Chiesa in quell’angolo di mondo Nerses Der-Nersessian, un’autorità spirituale per gli armeni, nominandolo primo vescovo dell’Armenia, della Georgia e dell’Europa Orientale. «Un giorno il vescovo mi chiamò – continua Valentina –. Sapeva del mio desiderio di studiare in Italia. Mi disse che c’era una borsa di studio. Rimasi a bocca aperta. Non capivo. Perché proprio io? La sua risposta mi colpì profondamente: “Mi sono innamorato della tua anima. Vorrei che tu da grande parlassi di Gesù Cristo”». Valentina, che ha appena 15 anni, non sa esattamente che cosa ciò significhi, ma sente che si tratta di una grande responsabilità. Il visto arriva stranamente in pochi giorni. Non solo, Valentina s’imbarca nell’unico volo in tre anni che da Yerevan, capitale dell’Armenia, raggiunge Roma. L’Italia è una scoperta. «La prima volta che andai in piazza San Pietro rimasi senza fiato. Accanto a me migliaia di persone provenienti da tutto il mondo professavano liberamente la loro fede. Per la prima volta mi sentivo parte della Chiesa universale. Provavo gioia e libertà, come quando aprivo la finestra della mia chiesa di Sukhlis in Georgia e sentivo il respiro delle montagne. Il mio specchio cominciava a ricomporsi». È l’Italia a rivelargli la storia del suo popolo: «Devo molto a questo Paese. Mi sento al cento per cento italiana e armena. Solo due popoli generosi possono darti un’identità così».
Tornare a essere popolo
Una volta a Roma, Valentina fa un’altra scoperta: la sua borsa di studi è la magra pensione del vescovo Nerses Der-Nersessian. Una fitta di tenerezza la invade: «Era un sacrificio enorme per l’uomo che guidava una chiesa tanto povera»! A questo punto capisce che è qui per un motivo che la trascende. Deve dare il cento per cento. Si diploma in teologia e filosofia, si laurea in psicologia. Per 10 anni lavora all’Ambasciata dell’Armenia. Nel 2014 diventa ricercatrice dell’Archivio segreto vaticano e dell’Archivio storico della Segreteria di Stato. E qui trova un altro tassello: «Grazie a un libro, scritto con Omar Viganò, ho scoperto quanto ha fatto la Chiesa di Roma, da papa Benedetto XV in poi, per evitare o mitigare le sofferenze degli armeni. Se oggi papa Francesco può usare il termine “genocidio” è perché altri gli hanno spianato la strada. Tra loro Giovanni Paolo II e Benedetto XVI».
L’ultimo tassello di questa «via degli armeni» Valentina lo trova a Yerevan. È il 25 giugno 2016. Una folla emozionata ascolta il vescovo di Roma che si definisce «pellegrino» nel santuario dell’Armenia. «Ciò ha colpito molto noi armeni e ci ha fatto riflettere sulla nostra fede». Ma la frase dopo è l’ennesima illuminazione: «Cari giovani, questo futuro vi appartiene, ma facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani». Commenta Valentina: «Il Papa ci spronava a non adagiarci nel passato e nel dolore, ma a costruire un futuro di pace». È un attimo. Il filo della vita si riavvolge: il bacio di papà, la benedizione del nonno, il sacrificio del suo vescovo. E poi gli armeni conosciuti nel suo percorso, il passato tremendo. I Papi e l’Italia. Era ora di fare qualcosa. «Mi venne in mente di creare la piattaforma digitale dei talenti: giorni dopo, Manuel Petenian, un web designer italoarmeno l’aveva già preparata. Nell’homepage pubblicai la parabola dei talenti. Forse non era il caso per un sito di professionisti? Nessuno si pose il problema. Mi risposero a decine. Ogni giorno sono sempre di più: artisti, architetti, imprenditori, cuochi, artigiani, fotografi, designer, sportivi, scienziati. È ancora presto per dirlo. Ma spero che lo specchio rotto degli armeni si ricomponga. E, finalmente, ritorni a brillare».
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