Armenia, Centemero (Lega): ritorno armeni in Nagorno Karabakh sia in cima ad agenda politica (Agenparl 04.11.24)

(AGENPARL) – lun 04 novembre 2024 Armenia, Centemero (Lega): ritorno armeni in Nagorno Karabakh sia in cima ad agenda politica
Roma 4 nov. – “Ritengo importante che la questione del Nagorno Karabakh rimanga in cima all’agenda politica internazionale, soprattutto in vista della Cop 29. In questo senso, positivo il recente contatto tra Donald Trump e il capo della Chiesa Armena Aram I, centrato proprio sul ritorno degli armeni nella regione contesa storicamente con l’Azerbaijan. La tutela dei diritti degli oltre 120mila armeni che si sono trovati costretti ad abbandonare la propria terra deve rimanere una priorità per tutti i governi”.
Lo dichiara il deputato della Lega Giulio Centemero.

 

Nagorno Karabakh tra fughe e ripopolamenti (RSI 20.09.24)

La strada che attraversa la città di Agdam costeggia interminabili file di costruzioni distrutte che si estendono su entrambi i lati fino all’orizzonte. La maggior parte sono scoperchiate, piante ed erbacce si arrampicano sulle pareti rimaste in piedi. I vicoli sono abbandonati e deserti se non per due sminatori che, armati di metal detector, scandagliano il terreno alla ricerca di ordigni inesplosi. Poco più avanti, di fianco ad una bandiera dell’Azerbaigian piantata nel terreno, sventola una grande bandiera turca. “Questa è la Hiroshima del Caucaso” dice il funzionario azerbaigiano che ci accompagna.

Agdam è una delle tante città del Nagorno Karabakh ad essere state distrutte e spopolate nell’arco degli ultimi trent’anni. Abitata storicamente sia da armeni che da azerbaigiani e riconosciuta internazionalmente come parte dell’Azerbaigian, questa regione è stata sconvolta dai conflitti a partire dalla fine dell’Unione Sovietica, quando i due popoli iniziarono a combattersi. La prima guerra venne vinta dagli armeni che fondarono in loco la Repubblica dell’Artsakh, uno Stato indipendente (seppur non riconosciuto internazionalmente) legato a doppio filo alla vicina Armenia. Oltre mezzo milione di azerbaigiani vennero espulsi, le loro città e villaggi distrutti o lasciati andare in rovina. Negli ultimi anni, però, l’Azerbaigian ha lanciato ripetuti vittoriosi attacchi, l’ultimo dei quali, avvenuto esattamente un anno fa, ha costretto l’Artsakh alla capitolazione e gli armeni alla fuga di massa verso l’Armenia, abbandonando per sempre le proprie città, villaggi, chiese, monasteri e cimiteri. Oggi il Nagorno Karabakh è una scacchiera in cui gli insediamenti abbandonati dagli armeni si sovrappongono a quelli degli azerbaigiani fuggiti trent’anni fa. Questi ultimi stanno venendo oggi ricostruiti e ripopolati.

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Sminatori al lavoro

  • Luca Steinmann
Tonnellate di mine sepolte nel terreno

Di fianco alle rovine di Agdam si alzano decine di gru che stanno ricostruendo la città ex novo. Prima della guerra essa era abitata da 40’000 azerbaigiani, tutti fuggiti in direzione di Baku. Oggi il governo azerbaigiano sta stanziando miliardi per la ricostruzione e per favorire il trasferimento in loco dei propri cittadini, a partire da coloro che fuggirono trent’anni fa. Ad Agdam le ricostruzioni sono nel vivo, il ripopolamento invece non è ancora iniziato. A rallentarlo sono, tra le altre cose, le tonnellate di mine sepolte nel terreno dai soldati armeni in fuga che hanno reso le campagne circostanti un enorme campo minato. Lungo gli sterminati prati si vedono decine di artificieri, spesso accompagnati da cani lupo, alla ricerca degli ordigni da fare brillare. Dal 2020 ad oggi sono morte a causa delle mine 69 persone, sia militari che civili.

Nella città di Fizuli, 60 chilometri più avanti, sono arrivate recentemente 3’000 persone che vivono in enormi palazzoni appena edificati. La maggior parte sono famiglie che da qui vennero sfollate negli Anni Novanta e che ora vi fanno ritorno, ricevendo dallo Stato una nuova casa, un sussidio mensile per tre anni, assistenza medica e sociale. Possono stabilirsi qui anche gli azerbaigiani non originari del Karabakh, che devono però acquistare autonomamente i possedimenti. Il governo incentiva il ripopolamento attraverso sgravi fiscali per le aziende che vengono esentate dalle tasse per dieci anni e ricevono crediti vantaggiosi dalle istituzioni. Finora si sono spostate nel Karabakh circa 8’000 persone e i numeri sono destinati a crescere rapidamente. Viaggiando per la regione la maggior parte delle città che si incontrano sono degli enormi cantieri a cielo aperto.

Città e villaggi fantasma

Restano invece completamente abbandonate e fatiscenti le città e i villaggi da cui gli armeni sono fuggiti. Spostandosi per la regione si passa attraverso decine di essi, fatti di file di case ad uno o due piani lasciate in fretta e furia un anno fa dagli abitanti. Le porte sono aperte, sulle pareti e sui tetti crescono piante rampicanti, l’erba è alta e incolta nei giardini. Tutt’intorno i campi e i frutteti sono lasciati andare in malora.

Su un grosso cartello azzurro reca la scritta “Khankendi”, il nome azerbaigiano della più grande città della regione, che gli armeni chiamano Stepanakert. Fino ad un anno fa vivevano qui quasi 100’000 armeni, oggi gli unici movimenti sono quelli dei poliziotti azerbaigiani che stazionano ai posti di blocco e dei cani randagi che si aggirano tra i vicoli. Per chilometri e chilometri non si vedono che case, chiese e massicci palazzoni in calcestruzzo completamente vuoti.

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Armenia, Chiesa e Stato si scontrano a Sardarapat (Osservatorio Balcani e Caucaso 31.05.24)

Anche se le proteste contro la delimitazione e la demarcazione dei confini avevano iniziato a scemare nelle ultime settimane, piccoli atti di disobbedienza civile potrebbero aver dato nuovo slancio al movimento guidato dall’arcivescovo ribelle che chiede le dimissioni del Primo Ministro

31/05/2024 –  Onnik James Krikorian

Le manifestazioni guidate dall’arcivescovo Bagrat Galstanyan sono riprese domenica dopo essersi fermate dal 12 maggio, probabilmente a causa del calo di partecipazione, anche se nella capitale sono continuati atti sparsi di disobbedienza civile. Mentre la prima manifestazione aveva attirato fino a 30.000 persone, le due successive ne hanno raccolte rispettivamente solo 11.000 e 9.000. Il raduno di domenica ha visto il numero salire a circa 23.000. Anche se ancora insufficiente per un cambiamento politico nel Paese, è stato sufficiente per ritrovare lo slancio perduto.

Il raduno del movimento Tavush per la Patria, ora spesso chiamato Fronte nazionale, ha annunciato che il religioso 53enne sarà proposto per la carica di Primo Ministro nel caso, ancora improbabile, che le due fazioni parlamentari dell’opposizione guidate dagli ex presidenti Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan presentino una mozione di impeachment contro Pashinyan.

Secondo la Costituzione, Galstanyan non è idoneo a candidarsi poiché possiede la doppia cittadinanza armena e canadese. Sebbene affermi che rinuncerà a quest’ultima, deve ancora farlo e anche questo non cambierebbe la sua situazione: per legge, avrebbe dovuto possedere solo la cittadinanza armena nei quattro anni precedenti. Ciò ha portato a ipotizzare che Galstanyan e l’opposizione intendano rovesciare l’ordine costituzionale con la forza.
Anche se si tratta di proteste contro la delimitazione e la demarcazione di una sezione del confine nel nord-est del paese, i critici sostengono che l’obiettivo reale del movimento è solo il cambio di regime.

La notte prima, forti piogge hanno allagato due regioni nel nord-est del Paese, una delle quali è la diocesi di Galstanyan. Eppure, quest’ultimo non si è minimamente interessato della situazione sul luogo, anche se Pashinyan si era recato a valutare i danni e supervisionare i soccorsi. Dal canto suo, Galstanyan ha guidato una marcia verso la residenza del Primo Ministro a Yerevan nell’improbabile speranza di incontrarlo.
Galstanyan ha invitato i manifestanti a riunirsi la mattina seguente per continuare i loro atti di disobbedienza nella speranza di fermare la città.

Lunedì pomeriggio, 284 persone erano state arrestate prima che fosse annunciato un corteo di automobili al complesso commemorativo di Sardarapat. Anche se Galstanyan non ha spiegato perché si sarebbero fermati anche per la notte, era chiaro ad alcuni, ma a quanto pare non al governo, che intendevano impedire a Pashinyan di entrare nel sito la mattina successiva per commemorare l’anniversario della Repubblica armena del 1918.

Gli alti funzionari si riuniscono ogni anno per una commemorazione ufficiale che coincide anche con la sconfitta delle forze ottomane nello stesso luogo. Quest’anno Pashinyan ha dovuto aspettare che Galstanyan se ne andasse nel pomeriggio.

L’imbarazzante situazione ha chiaramente infastidito Pashinyan, che è sembrato criticare la Chiesa nel suo discorso al memoriale. “[…] quando parliamo del sogno del popolo armeno, spesso intendiamo i sogni di gruppi che si considerano elitari, quando parliamo del potere del popolo, spesso intendiamo il potere di gruppi che si considerano elitari. E a volte, anche spesso, al popolo viene assegnato il ruolo di massa governata e dettata, il ruolo di sudditi obbedienti. […] Viva il governo del popolo”.

Ulteriore imbarazzo si è verificato più tardi, quando anche al Catholicos armeno è stato impedito di entrare nel luogo della memoria. Le scene condivise sui social media hanno fatto arrabbiare molti quando Karekin II e il suo entourage sono stati temporaneamente bloccati dalla polizia. Fino allo scontro tra i due, in seguito alla guerra di 44 giorni con l’Azerbaijan nel 2020, il Catholicos era sempre stato nella delegazione ufficiale. Secondo Pashinyan, il Catholicos non era stato invitato e la polizia era semplicemente preoccupata che stesse progettando, come Galstanyan, di interrompere gli eventi.

La Sala Stampa della Santa Sede di Etchmiadzin, però, afferma che il governo è stato informato in anticipo dell’arrivo di Karekin II e parla di “provocazione”.

Anche se è chiaro che le azioni di Galstanyan sono condonate e appoggiate dal Catholicos, presumibilmente allo scopo di avvantaggiare le forze politiche vicine ai precedenti regimi, l’incidente con Karekin II minaccia ora di trasformarsi in uno scontro diretto tra Chiesa e Stato.

Anche se Pashinyan potrebbe essere ancora in grado di mantenere la presa sul potere, la sua posizione si sta indebolendo ulteriormente, rendendo potenzialmente ancora più delicati i tentativi di Yerevan di normalizzare le relazioni con Baku. Certamente le proteste sono lungi dall’essere terminate e potrebbero continuare ancora per diverse settimane.

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Il resistente armeno Missak Manouchian, simbolo degli stranieri nella Resistenza francese entra al Pantheon (Ambasciata francese

Il resistente armeno Missak Manouchian, simbolo degli stranieri nella Resistenza francese entra al Pantheon il 21 febbraio 2024, insieme alla moglie Mélinée.

I nomi dei suoi compagni di lotta, fucilati in gran parte al suo fianco il 21 febbraio 1944 al Mont-Valérien, figureranno anche loro su una targa al Pantheon ; fra loro 5 italiani: Rino Della Negra, Spartaco Fontanot, Cesare Luccarini, Antoine Salvadori, Amedeo Usseglio.

Su volontà del Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, mercoledì 21 febbraio alle 18.30, le spoglie di Missak Manouchian e di sua moglie Mélinée entreranno solennemente al Panthéon di Parigi, dove risposano le grandi personalità della Patria. Poeta, ex-operaio di Citroën, Manouchian si rifugiò in Francia nel 1925, dopo avere scampato al genocidio armeno, nel 1943 si arruolò nella resistenza comunista contro l’occupante tedesco e i collaborazionisti di Vichy. Entrato nei gruppi armati dei Francs-tireurs et partisans – Main-d’œuvre immigrée (FTP-MOI) ne divenne presto uno dei leader, coordinando azioni di sabotaggio, attentati e agguati contro i gerarchi e le forze di occupazione naziste e i collaborazionisti francesi di Vichy, nell’area di Parigi.

Arrestato nel 1943, sarà fucilato dai tedeschi il 21 febbraio 1944 al Mont-Valérien, insieme a 22 dei suoi compagni di lotta. La moglie Mélinée riuscì a sfuggire alla cattura, trascorrerà tutta la sua vita in Francia, dove mori’ nel 1989.

In modo simbolico, con l’iscrizione dei loro nomi su una targa, faranno ingresso al Pantheon anche i suoi compagni di lotta, stranieri morti per la Francia al suo fianco. Fra loro, al Mont-Valérien, 5 italiani furono uccisi dai soldati nazisti: Rino Della Negra, Spartaco Fontanot, Cesare Luccarini, Antoine Salvadori, Amedeo Usseglio. Di seguito i loro ritratti.

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Il giro del mondo in 5 vini rossi (Winwandfoodtour 10.02.24)

Amanti del nettare di Bacco, oggi vi portiamo in un entusiasmante tour del mondo in 5 vini rossi. Dalla Spagna all’Armenia, dalla California alla Slovenia, dalla Francia all’Australia: quali sono i vitigni rossi più buoni e famosi del globo? In questo viaggio al posto del passaporto serve un calice di buon vino. Siete pronti? Si parte! 

Rosso di Montalcino

Il nostro viaggio degustativo alla scoperta dei 7 vini rossi più buoni del mondo non può che iniziare dal Rosso di Montalcino. Succoso e terribilmente fragrante, asciutto e un po’ tannico, morbido e persistente, questo vino lascia un palato da favola. Il suo colore rosso rubino intenso.

Vini rossi più famosi del mondo- wineandfoodtour.it

Ricco di profumi intensi fruttati di sottobosco, prugna e ciliegia, è un vino molto gradito sia per il suo colore caratteristico che per il suo sapore caldo e il profumo elegante.

Sevuk Red Dry Armenia

Da Montalcino ci spostiamo in Armenia alla scoperta di un altro vino rosso rubino degno di merito. Stiamo parlando del Sevuk Red Dry Armeni.  Al naso si possono chiaramente percepire sentori di ribes nero, frutti rossi e sul finale anche spezie dolci, Al palato ha un sapore dolce, delicato ed elegante con tannini vivaci. Nel complesso è un vino succoso e ben bilanciato, intenso e ricco di sfumature. Per chi fino a questo momento aveva ignorato l’Armenia come regione vinicola deve ricredersi.

Amarone della Valpolicella

Torniamo in Italia con un vino rosso potente e aromatico che non ha bisogno di nessuna presentazione. Stiamo parlando del celebre Amarone della Valpolicella. Rispetto ad altri rossi della stessa zona, ha sicuramente una gradazione alcolica più elevata e un mix di aromi importante.

Barolo piemontese

Definito giustamente il “re dei vini e il vino dei re”, il Barolo viene realizzato con uve Nebbiolo coltivate nell’Italia nord occidentale. Si sposa con carne e formaggi stagionati. Se amate i vini da invecchiamento, è la scelta giusta per voi. Questo è un vino che i francesi ci invidiano da sempre.

Prodotto da uve coltivate nelle Langhe, viene invecchiato almeno 3 anni di cui 2 anni in botti di legno di rovere o castagno che diventano 5 anni se è la variante Riserva.

Cabernet Sauvignon

Spostiamoci nella Napa Valley, nella soleggiata California, celebre terra di vino, per assaggiare il Cabernet Sauvignon. Presenta un sapore intense e deciso. Al naso si notano note di frutta scura, come ribes nero, mora e prugna, ma anche sfumature erbacee, come menta ed eucalipto. Inoltre, si possono chiaramente riconoscere note di tabacco, cedro e vaniglia, dovute all’invecchiamento in botti di rovere. Un vino profumato, strutturato e ben bilanciato, perfetto per abbinamenti da re come carni e taglieri di formaggi stagionati francesi.

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CAUCASO. Zangezur contro Aras: i due corridoi azero turco armeni (Agc 07.02.24)

La prima guerra del Nagorno-Karabakh interruppe il collegamento ferroviario diretto e la strada tra l’Azerbaigian e l’exclave di Nakhchivan. Per uscire dall’empasse, aggirando l’Armenia attraverso l’Iran, la via terrestre di Bileh Savar nella provincia settentrionale di Ardabil, vicino al confine iraniano e a 220 chilometri da Baku, è diventata la principale via di transito tra l’Azerbaigian e Nakhchivan, nonché la Turchia. Questo transito è strategicamente importante per l’Azerbaigian.

Tuttavia, il 10 novembre 2020, l’accordo tripartito di cessate il fuoco che ha concluso la seconda guerra del Karabakh ha stabilito che “tutti i collegamenti economici e di trasporto nella regione saranno sbloccati”, creando la speranza che i collegamenti potessero riprendere. Tuttavia, tutto è ancora fermo a causa delle continue tensioni dell’area, nonostante l’accordo del marzo 2022 tra Teheran e Baku, riporta il Caci, Central Asia and Caucasus Institute.

Dopo la presa del Nagorno-Karabakh da parte delle forze azere nel settembre 2023, Iran e Azerbaigian hanno concordato una via di transito che collegasse l’Azerbaigian occidentale con il Nakhchivan attraverso l’Iran il 9 ottobre 2023. 

Il vice primo ministro dell’Azerbaigian Shahin Mustafayev e il ministro iraniano delle strade e delle infrastrutture urbane, Mehrdad Bazrpash, ha preso parte alla cerimonia di posa della prima pietra per un ponte che collega i due paesi sul fiume Aras. Questa linea autostradale e ferroviaria di 55 chilometri attraversa la provincia iraniana dell’Azerbaigian orientale e collega il villaggio di Aghband nell’angolo sud-occidentale del distretto di Zangilan alla città di Ordubad nel Nakhchivan meridionale. Affinché l’autostrada possa raggiungere Ordubad, dovranno essere costruiti altri due ponti ferroviari e uno stradale sul fiume Aras.

Questa via di transito, chiamata Corridoio di Aras per l’Iran è un’alternativa al Corridoio Zangezur, che può anche ridurre le preoccupazioni del Paese sull’instabilità lungo il confine comune con l’Armenia. Una delle motivazioni per garantire che la costruzione iniziata di una via di transito dall’Azerbaigian a Nakhchivan attraverso l’Iran sarà completata è che ciò ridurrà l’incentivo per l’Azerbaigian a stabilire con la forza il transito attraverso l’Armenia.

Il Corridoio Aras è il risultato dell’opposizione e della resistenza dell’Iran al Corridoio Zangezur; un mezzo per ridurre la tensione con l’Azerbaigian, mantenendo l’approccio equilibrato dell’Iran nel Caucaso meridionale e rafforzando il formato 3+3. D’altra parte, alcuni esperti iraniani vedono il Corridoio Aras con cautela e dubbio e credono che la preferenza del governo azerbaigiano per esso sia temporanea e tecnica, e mirata principalmente a fare pressione sull’Armenia affinché cooperi riguardo al Corridoio Zangezur. In questa prospettiva, il Corridoio Zangezur rimane l’opzione preferita sia per Baku che per Ankara e quando verranno stabiliti collegamenti terrestri e ferroviari diretti tra l’Azerbaigian e Nakhchivan attraverso l’Armenia, Baku si ritirerà dal Corridoio Aras.

Mentre la costruzione della ferrovia e della strada nella parte azera del corridoio Zangezur sta progredendo rapidamente e dovrebbe essere completata entro la fine del 2024, le recenti dichiarazioni delle autorità azere e turche hanno rafforzato queste percezioni in Iran. 

Agli inizi di gennaio, Azerbaijan e Turchia hanno ribadito l’interesse per il corridoio Zangezur. Inoltre, il primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha annunciato il progetto “Crocevia della pace” durante la conferenza internazionale “Via della seta” a Tbilisi il 26 ottobre 2023. Sulla base dei quattro principi incorporati in questo progetto, mira a migliorare la comunicazione tra Armenia, Turchia, Azerbaigian e l’Iran attraverso lo sviluppo delle infrastrutture, tra cui strade, ferrovie, condutture, cavi e linee elettriche.

Il piano proposto dall’Armenia, che ha incontrato opposizione interna, è apparentemente un tentativo di abbandonare il corridoio Zangezur e continuare a rispettare la nona clausola dell’accordo di cessate il fuoco del Karabakh del 2020 per l’accesso al transito e il trasporto tra l’Azerbaigian e Nakhchivan. Pertanto, dal punto di vista dell’Iran e dell’Armenia, sia il progetto Crocevia della pace che il Corridoio Aras possono impedire la realizzazione del Corridoio Zangezur aprendo al contempo vie di transito e trasporto nella regione.

In questo momento, mentre Teheran e Baku hanno firmato un accordo sul Corridoio di Aras il 9 ottobre 2023, Armenia e Azerbaigian stanno adottando misure per firmare un trattato di pace dopo la fine del lungo conflitto del Nagorno-Karabakh. Il 7 dicembre i due Stati hanno rilasciato una dichiarazione congiunta inaspettata, la prima di questo genere che non portava la firma di alcun mediatore esterno. Se i due stati firmassero un trattato di pace e se si realizzasse il riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale e l’instaurazione di relazioni diplomatiche tra Armenia, Azerbaigian e Turchia, gli attuali vantaggi del corridoio di Aras diminuirebbero. Inoltre, l’Azerbaijan sta cercando di ridurre o eliminare la dipendenza energetica e di transito dall’Iran attraverso vari progetti, sempre ammesso che Pashinyan resti al governo.

Anna Lotti

Politica e discorsi d’odio nei media turchi (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.06.23)

Durante le elezioni appena concluse in Turchia i candidati sono ricorsi ad una retorica discriminante e aggressiva. Ne abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink

13/06/2023 –  Francesco Brusa Istanbul

Durante le ultime elezioni in Turchia, entrambi i candidati alla presidenza non hanno esitato a utilizzare una retorica discriminante e aggressiva. In particolare, soprattutto fra il primo e il secondo turno, categorie di persone che vivono ai margini della società come la comunità dei rifugiati siriani si sono ritrovate esposte al fuoco (verbale) incrociato dei due schieramenti: rimpatriare tutte le persone fuggite dalla guerra in Siria sembrava a un certo punto l’assoluta priorità per il paese. Similmente, durante i vari comizi elettorali, diverse figure politiche come l’attuale ministro degli Interni Süleyman Soylu non hanno esitato a tirare in ballo lo spauracchio dei diritti Lgbt+ come una minaccia incombente per l’integrità del paese.

Abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink  (con sede a Istanbul) per capire meglio l’entità e le conseguenze di questo fenomeno, che è parso essere molto pervasivo durante l’ultimo appuntamento elettorale nel paese. La fondazione si occupa infatti di redigere report e analisi sulla presenza di discorsi d’odio e discorsi discriminanti sui media e nel dibattito politico da più di un decennio, oltre che di portare avanti campagne per arginare il problema e aumentare la consapevolezza su queste tematiche nella società turca.

Come mai pensate sia necessario occuparsi del fenomeno del discorso d’odio?

La nostra associazione è stata fondata dopo l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, e il suo caso è strettamente legato alla diffusione e alla pratica dei discorsi d’odio. Prima della sua morte, la sua figura veniva regolarmente presa di mira dai canali di comunicazione turchi e come risultato finale di un tale accanimento c’è stato appunto un crimine d’odio. Ovviamente non tutti i discorsi d’odio sfociano in un crimine ma, dal nostro punto di vista, costituiscono un primo livello in cui si creano e si acuiscono le discriminazione interne alla società.

Perciò dal 2009 abbiamo deciso di monitorare la presenza di discorsi d’odio nel dibattito pubblico del nostro paese, analizzando in particolare sia i media locali che nazionali. Ci preoccupiamo di identificare le varie categorie del discorso d’odio ma soprattutto i gruppi che ne diventano di volta in volta i bersagli. Da una parte ci interessa porre l’attenzione sulla responsabilità dei giornalisti, che sono tenuti a essere consapevoli dei toni con cui si esprimono, dall’altra vogliamo far conoscere quanto più possibile la questione presso l’opinione pubblica. In questo senso, è molto importante l’aspetto quantitativo della nostra ricerca: molto spesso quello dei discorsi d’odio può apparire come un fenomeno vago e tutto sommato non così rilevante, ma se si viene messi di fronte alla sua pervasività in termini di dati oggettivi si è più propensi a rifletterci e a considerarlo come una questione da affrontare.

 

Cosa avete osservato durante l’ultima tornata elettorale?

Durante le elezioni e la campagna elettorale in Turchia, abbiamo notato come discorsi d’odio e di natura discriminatoria siano stati utilizzati da tutt’e due le parti politiche e hanno avuto come oggetto molto spesso la categoria dei rifugiati e delle persone Lgbt+. Il fatto positivo è che si è verificata una discrepanza in termini quantitativi fra la presenza di discorsi d’odio nelle dichiarazioni dei leader politici, da una parte, e negli articoli e nei report dei giornali, dall’altra: come accennavo, credo che si sia creata nel tempo una maggiore consapevolezza del problema da parte dei professionisti dei media e, pertanto, molto spesso si evita di veicolare nei resoconti giornalistici discorsi d’odio che provengono dalla classe politica, anche se solo in forma di citazione.

Ciò detto, analizzando invece il dibattito che si è sviluppato sui social media e nello specifico su Twitter, abbiamo notato alcune tendenze: il termine “alevita”, per il quale ci aspettavamo un’alta diffusione dal momento che uno dei due candidati aveva utilizzato le proprie origini alevite come rivendicazione elettorale, è stato molto spesso associato in maniera il più delle volte indistinguibile dal termine “armeno” e magari usato come un insulto; per la categoria delle persone migranti di origine soprattutto siriana o afghana, uno degli elementi interessanti è come nel discorso pubblico se ne parli ponendo l’attenzione esclusivamente alla componente maschile di quei gruppi: i “rifugiati”, i “migranti”, insomma, sono quasi sempre uomini che arrivano nel nostro paese e in un modo o nell’altro costituiscono una minaccia; infine un termine molto utilizzato come insulto, applicato sia alla categoria dei rifugiati che a quella delle persone Lgbt+, è “pervertito”: anche qui, in diversi discorsi d’odio, migranti e persone dall’orientamento sessuale e/o identità di genere non conformi vengono viste come una minaccia alla struttura tradizionale della famiglia o come un problema di natura morale per l’intero corpo sociale.

Si tratta di un problema che ha a che fare con la mentalità della classe politica?

Tutte le forze politiche, in un modo o nell’altro, hanno fatto uso di discorsi di natura discriminatoria. Si tratta davvero di una pratica, purtroppo, molto comune e se è vero che esistono determinate figure politiche che insistono più di altre su una tale strategia comunicativa, non credo che il problema sia semplicemente individuale. Sicuramente si tratta anche del riflesso di una questione più strutturale che riguarda l’intera società e per la quale, pertanto, è necessario un cambiamento complessivo.

Aggiungo anche che la diffusione dei discorsi d’odio o dei discorsi discriminatori è qualcosa che non si limita al periodo elettorale, ma rimane costante più o meno lungo tutto l’arco dell’anno. Questo è vero soprattutto per determinate categorie, come siriani, armeni, cristiani, ebrei che sono praticamente sempre oggetto di un linguaggio aggressivo nei media (l’intensità del quale è magari influenzata anche dai cambiamenti nelle relazioni internazionali del paese). La soluzione per noi continua dunque a essere rappresentata dalla necessità di lavorare sulla consapevolezza generale, imparare a riconoscere la discriminazione insita nell’uso di certi tipi di linguaggio e offrire strumenti per raggiungere questo obiettivo a un sempre maggiore numero di persone.

Al Liceo classico di Vibo la lezione di storia di Marcello Flores (Zoom24.it 24.05.23)

Questa mattina a partire dalle ore 9.30, presso l’aula magna del Liceo Classico di Vibo, gli studenti dell’IIS “Morelli-Colao”, guidati dalle referenti del progetto Gutenberg, le professoresse Anna Melecrinis e Chiara Marasco, hanno incontrato il professore Marcello Flores, per un dibattito vivo e partecipato intorno al volume scritto dallo studioso insieme a Giovanni Gozzini, “Perché il fascismo è nato in Italia”, edito dalla casa editrice Laterza nel 2022. La presentazione dell’autore e del volume sono stati a cura di Anna Sofia Lakehal della 4 E del Liceo Classico Morelli.

Marcello Flores, storico, autore di apprezzate pubblicazioni, si è occupato principalmente della storia del comunismo, del XX secolo, del genocidio degli Armeni durante la prima guerra mondiale, dei diritti umani e delle vittime di guerre. Ha fatto parte del comitato scientifico-editoriale per la monumentale “Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo” ha partecipato a diversi programmi televisivi divulgativi sul tema (ad esempio, Il tempo e la storia, Eco della Storia). Fa parte del comitato scientifico per la pubblicazione dei documenti diplomatici italiani sull’Armenia. Dal 1992 al 1994 è stato addetto culturale presso l’ambasciata italiana a Varsavia. Ha collaborato con diverse riviste (ne ha anche diretta una, I viaggi di Erodoto) e case editrici (ad esempio Mondadori).

Professore presso l’Università degli Studi di Siena e direttore del Master europeo in “Human Rights and Genocide Studies”, è stato anche Assessore alla Cultura presso il Comune di Siena (2006-2011). Fra le pubblicazioni ricordiamo: La fine del comunismo, Bruno Mondadori, Milano, 2011; Storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna, 2008; 1917. La rivoluzione, Einaudi, Torino, 2007; Il genocidio degli armeni, il Mulino, Bologna, 2006; Tutta la violenza di un secolo,Feltrinelli, Milano, 2005; Il secolo-mondo. Storia del Novecento, il Mulino, Bologna, 2001; Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo (a cura di), Bruno Mondadori, Milano, 2001; Verità senza vendetta. L’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma, 1999.

“Perché il fascismo è nato in Italia” intende rispondere ad una domanda che gli storici da tempo si pongono. Gli anni tra le due guerre sono infatti caratterizzati dalla diffusione sul suolo europeo di governi di destra, dittatoriali e totalitari, ma ad avviare questo processo politico è l’Italia incubatrice di quelle tendenze antidemocratiche che la guerra e la rivoluzione bolscevica incrementarono:  il ricorso alla violenza come prassi e strategia politica è, infatti, la caratteristica della dialettica politica dei primi decenni del XX secolo.

Gli autori, con  precisi e puntuali  riferimenti storici,  illustrano l’humus da cui il fenomeno ha tratto il suo sviluppo: la brutalizzazione della guerra. La trincea è l’incubatrice della violenza squadrista che riporta nella società e nella lotta politica la dicotomia amico-nemico di Schmittiana memoria. Il nemico diventa il socialista, il traditore neutralista che non ha sostenuto l’eroismo bellico esaltato a mito identitario dai reduci, soprattutto ex ufficiali che ritornati dalla guerra faticano a reinserirsi in posti di comando. Ignorati dallo Stato e  sbeffeggiati dai socialisti e popolari finiscono con l’ingrossare le fila delle organizzazioni paramilitari.

La lotta politica viene gestita militarmente, la violenza diventa strategia della paura, del terrore, volta a eliminare il nemico politico e a far rinchiudere la società civile nel privato. Ma – ed ecco il secondo elemento centrale nell’analisi dei due storici – la paura del nemico è legata ad un’altra conseguenza del conflitto che per oltre settant’anni condizionerà la storia e la geo-politica mondiale:  la rivoluzione bolscevica e la nascita dell’Urss.

Lo squadrismo fascista sulla cui violenza fonda la  sua strategia politica Mussolini, insiste sulla imminenza del pericolo rivoluzionario bolscevico che verbalmente, secondo una sorta di necessità storica, i massimalisti continuano a proporre come un credo religioso. In Italia questo “red scare” si innesta su un contesto agrario in movimento ma profondamente arretrato e in lotta, pertanto lo squadrismo e la violenza fascista si sposano con la reazione conservatrice degli agrari che vogliono stravincere, annientare ogni forma di lotta socialista per i diritti dei lavoratori. Gli agrari non trovando uno spazio di contrattazione con lo Stato decidono di far da sé utilizzando lo squadrismo come deterrente.

Il legame tra squadrismo e agrari rappresenta la base sociale su cui si fonda il legame tra la media e piccola borghesia e il fascismo. La borghesia usa il fascismo per mantenere (vedi caso del gerarca Caradonna) o per ottenere (vedi il caso del gerarca Farinacci) prestigio, potere, ricchezza, spazio di difesa di interessi agrario-industriali, e di ascesa sociale, di rivendicazione di ruoli politici.

Infatti gonfiare  il bisogno di “law and order” con la  violenza e l’aggressività delle camicie nere  finisce con legittimare nell’opinione pubblica borghese l’uso indiscriminato della violenza e presenta Mussolini come l’uomo, il capo destinato porre fine all’anarchie e all’assenza dello stato. Ed è proprio quest’ultimo  il terzo e peculiare elemento che permette al fascismo di nascere in Italia: lo sgretolamento dello Stato liberale e la crisi del sistema partitico, incapace, (questo vale soprattutto per il partito liberale di Giolitti), di rispondere con misure politico-economiche adeguate alle tensioni e alle necessità postbelliche.

Partito di notabili, in crisi per l’introduzione del proporzionale e incapace di competere con i partiti di massa socialisti e cattolici, il partito liberale assiste e avalla con scelte politiche dubbie (come il listone elettorale e la simpatia antisocialista per il fascismo, che Giolitti pensa di poter usare e ricondurre nell’alveo della dialettica politica legale e democratica) l’ascesa di Mussolini, ma soprattutto il governo e la classe dirigente assiste inerme alla progressiva perdita di un caposaldo dello Stato: il monopolio della forza. Lo Stato, grazie alla convivenza tra squadrismo, forze dell’ordine, prefetti guardie regie e magistratura, lascia spazio alla violenza privata di squadre paramilitari, la violenza privata sostituisce la forza pubblica in un contesto nel quale la catena di comando governo-forze dell’ordine si disgrega.

È questo l’aspetto più specifico che consente al fascismo di nascere in Italia: a differenza di quanto avverrà in Germania, dove la Repubblica di Weimar per un decennio riuscirà a mantenere saldo il comando dello Stato, superando i tentativi rivoluzionari di destra e di sinistra.  Lo Stato italiano come nel caso emblematico della marcia su Roma, rinuncerà al monopolio della forza per la paura di un sommovimento dal basso diffuso, creata ad arte da Mussolini e dei suoi ras. La paura del re di non controllare più le forze dell’ordine e l’intera catena di comando, consentirà ad una minoranza, di prendere il potere.

Mussolini approfitta del caos, della debolezza dei partiti, incapaci di una reale ed efficiente opposizione, poiché trincerati nel sospetto reciproco e su posizioni intransigenti. Navigando a vista, secondo quella che Simon definirà una razionalità limitata, e attraverso la politica del doppio binario, Mussolini  riesce ad ottenere il governo, l’ ascesa politica personale, presentandosi come colui che è capace di sopperire alle carenze di ordine dello Stato: agli italiani  prospetterà una nazione combattente, formata da cittadini soldati, un’immagine cara  ai reduci, che si riconoscono nel motto “credere, obbedire, combattere”.

Il fascismo, infatti, che  si nutre della violenza della guerra, proporrà una nazione escludente e divisiva, e come  in ogni regime totalitario utilizzerà come suoi strumenti di dominio la violenza di Stato organizzata, proporrà uno Stato forte politicamente, centrato sul culto del capo carismatico, elaborerà nuovi miti con cui costruire il consenso: il bellicismo, il maschilismo, la potenza alimentata attraverso la repressione delle dissidenze, la propaganda e l’esclusione.

L’ignavia della società civile alimenterà una crisi della democrazia, causata più  dalla paralisi delle coscienze e dall’espandersi di una “zona grigia” che dalle reali capacità rivoluzionarie del  leader o delle organizzazioni. Così la riflessione sulla nascita del fascismo ci riconduce al presente, alla fragilità della democrazia: quando istituzioni, società civili, e forme di partecipazione si indeboliscono il rischio di una svolta autoritaria, pende, come una spada di Damocle, sulle nostre teste.

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162° giorno del #ArtsakhBlockade. Azioni e dichiarazioni dell’Armenia volte a riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian sono inaccettabili e illegali (Korazym 22.05.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 22.05.2023 – Vik van Brantegem] – L’Armenia riconosce l’integrità territoriale di 86.600 km2 dell’Azerbaigian che include il Nagorno-Karabakh, ma i diritti e la sicurezza degli Armeni del Nagorno-Karabakh devono essere discussi attraverso il dialogo Baku-Stepanakert, ha affermato oggi il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan. Ha osservato che tutte i governi armeni precedenti hanno riconosciuto l’integrità territoriale dell’Azerbajgian.

Ai sensi dell’articolo 114 della Costituzione della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh e dell’articolo 37 della legge “Regolamento di procedura dell’Assemblea Nazionale”, si terrà oggi alle ore 23.00 una sessione straordinaria dell’Assemblea Nazionale della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh su iniziativa dei Deputati di l’Assemblea Nazionale con all’ordine del giorno questioni urgenti.

“L’Armenia è pronto a riconoscere l’integrità territoriale di 86.600 km2 dell’Azerbajgian. Ed è nostra comprensione che l’Azerbajgian è pronto a riconoscere l’integrità territoriale di 29.800 km2 dell’Armenia. Se ci intendiamo correttamente con l’Azerbajgian in questa materia, l’Armenia, infatti, riconosce l’integrità territoriale di 86.600 km2 dell’Azerbajgian, con la consapevolezza che l’Azerbajgian riconosce l’integrità territoriale di 29.800 km2 dell’Armenia”, ha detto Pashinyan.

Pashinyan ha affermato che è molto importante creare garanzie internazionali per i colloqui diretti tra Stepanakert e Baku sui diritti e la sicurezza degli Armeni nel Nagorno-Karabakh. “Intendiamo, ad esempio, che la questione dei diritti e della sicurezza degli Armeni del Nagorno Karabakh potrebbe essere dimenticata e l’Azerbajgian potrebbe continuare la sua politica di pulizia etnica e genocidio contro gli Armeni del Nagorno-Karabakh attraverso la forza”, ha detto Pashinyan, sottolineando la necessità di garanzie per impedire questa politica.

Il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha dichiarato che durante i colloqui ospitati a Brussel all’inizio di maggio, il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, e il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, hanno confermato il loro inequivocabile impegno nei confronti della Dichiarazione di Almaty del 1991 e della rispettiva integrità territoriale dell’Armenia (29.800 km2) e dell’Azerbajgian (86.600 km2).

Artak Beglaryan, il Consigliere del Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh, ha presentato alcuni punti riguardanti l’intenzione dell’Armenia a riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbajgian e la recente dichiarazione del Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, relativa all’Artsakh.

1. Qualsiasi documento e dichiarazione che riconosca l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian è altamente inaccettabile, come hanno dichiarato le autorità della Repubblica di Artsakh, a livello di Presidente, Assemblea Nazionale, Consiglio di Sicurezza e Ministero degli Esteri in tante diciture diverse. È inaccettabile, perché:
1.1. Il popolo dell’Artsakh ha esercitato il suo diritto inalienabile all’autodeterminazione con la norma jus cogens (vincolante) nel 1991 sulla base dei documenti fondamentali del diritto internazionale (Carta delle Nazioni Unite, Patti internazionali sui diritti delle Nazioni Unite, Atto finale di Helsinki, ecc.). Negli anni successivi, il popolo dell’Artsakh ha difeso i propri diritti e dimostrato la propria volontà e capacità di sovranità.
1.2. Sebbene la Repubblica di Artsakh non sia stata pienamente riconosciuta dalla comunità internazionale, tuttavia, la sua indipendenza è stata accettata come una realtà e il suo status è stato riconosciuto a livello internazionale come territorio conteso.
1.3. L’oggetto principale di qualsiasi decisione riguardante lo status e il futuro dell’Artsakh è il popolo dell’Artsakh, gli altri attori grandi e piccoli hanno il diritto solo di esprimere le proprie posizioni, ma non di decidere per conto del popolo dell’Artsakh o di fare dell’Artsakh un oggetto di trattative.
1.4. Pertanto, ignorare questo percorso passato e i diritti e i gravi pericoli esistenziali degli autoctoni e detentori del titolo dell’Artsakh è semplicemente un crimine internazionale.

2. Una delle insidie e delle false argomentazioni abituali dell’Azerbajgian è la tesi della continuità per difetto dei confini sovietici, sulla base della quale si stanno svolgendo i processi di mutuo riconoscimento dell’integrità territoriale di Armenia e Azerbajgian. È infondato e falso per diversi motivi, in particolare:
2.1. La ripartizione territoriale amministrativa dell’URSS non poteva diventare un confine di Stato secondo la logica del principio giuridico internazionale dell’uti possidetis juris (continuità degli ex confini interni), perché tale principio non è un principio universale ed è stato applicato con grandi riserve solo con chiaro accordo reciproco tra alcuni stati decolonizzanti del Sud America e dell’Africa. Il Kosovo è uno dei buoni esempi di esclusione di tale principio, perché anche nel caso del crollo della Jugoslavia, il principio primario nella definizione dei confini degli ex Stati membri è stato il principio della “secessione riparatrice”, basato indissolubilmente sul diritto dei popoli all’autodeterminazione.
2.2. Anche l’Azerbajgian al più alto livello ha rifiutato la continuità dei confini sovietici, quando il Consiglio Supremo di quel Paese nel 1991 ha adottato la dichiarazione “Sul ripristino dell’indipendenza statale dell’Azerbajgian” e l’atto costituzionale “Sul ripristino dell’indipendenza statale dell’Azerbajgian”. Con quei documenti, l’Azerbajgian rinunciò alla successione dell’Azerbajgian sovietico e si dichiarò successore della Repubblica Democratica dell’Azerbajgian del 1918-1920. Questo fatto è importante sottolineare non solo perché l’Azerbajgian ha inizialmente rifiutato l’applicazione del principio dell’uti possidetis juris, ma anche, nel periodo pre-sovietico, il Nagorno-Karabakh era internazionalmente considerato dalla Società delle Nazioni come un territorio conteso e aveva un territorio molto più vasto rispetto all’ex Oblast (regione) autonoma di Nagorno-Karabakh, così come aveva un confine comune con l’Armenia.
2.3. Anche se l’Armenia e l’Azerbajgian concordano reciprocamente di utilizzare i confini amministrativi interni dell’URSS ai fini di delimitazione e demarcazione, vale la pena sottolineare che ciò non significa ancora l’esclusione del diritto all’autodeterminazione esterna del popolo dell’Artsakh, almeno nell’ex Oblast autonomo del Nagorno-Karabakh. Era un’enclave negli ultimi decenni dell’Unione Sovietica e non aveva alcuna associazione diretta con i confini delle due ex repubbliche sovietiche. Pertanto, in casi estremi, questa è anche un’opportunità per la Repubblica di Armenia di coniugare in qualche modo la continuità dei confini sovietici con il riconoscimento e la tutela del diritto dell’Artsakh all’autodeterminazione esterna. Tuttavia, la condizione necessaria per questa soluzione è che l’Armenia non cerchi in alcun modo di riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbaigian e non chiuda l’opportunità e l’obbligo di sostenere la lotta dell’Artsakh per l’autodeterminazione.

3. Le azioni e le dichiarazioni della Repubblica di Armenia volte a riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian sono inaccettabili e illegali, sulla base sia dei ben noti documenti legali internazionali sia della legislazione interna della Repubblica d’Armenia. In particolare:
3.1. La Dichiarazione di Indipendenza della Repubblica di Armenia riconosce chiaramente l’Artsakh come parte della Repubblica di Armenia, sulla base della decisione congiunta del Consiglio Supremo della SSR armena e del Consiglio Nazionale del Nagorno Karabakh del 1° dicembre 1989, “Sulla riunificazione della SSR armena e del Nagorno-Karabakh”. Sebbene in seguito sia stata scelta la via dell’indipendenza dell’Artsakh, deviando dalla disposizione data dalla Dichiarazione di indipendenza armena, ma anche a tale condizione, la possibilità legale dell’Armenia di riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbaigian è escluso in modo inequivocabile. Pertanto, essendo la pietra angolare della Costituzione dell’Armenia, la Dichiarazione di Indipendenza è una solida base giuridica per riconoscere qualsiasi trattato internazionale firmato dall’Armenia come incostituzionale e nullo dall’inizio, che potrebbe riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian.
3.2. La Dichiarazione di Almaty del 21 dicembre 1991, che fa riferimento anche al diritto all’autodeterminazione, è una dichiarazione derivata dall’Accordo dell’8 dicembre che ha portato alla creazione della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Questo accordo è stato ratificato dal Consiglio Supremo dell’Armenia il 18 febbraio 1992, con chiare riserve nei confronti della Repubblica del Nagorno-Karabakh:

  • L’articolo 5 è stato integrato con la frase “diritto alla libera autodeterminazione delle nazioni”, ratificando nella seguente versione: “Le parti riconoscono e rispettano il diritto delle nazioni alla libera autodeterminazione, alla reciproca integrità territoriale e all’inviolabilità delle frontiere”.
  • Il punto 10 recita: “Dopo le parole ‘aperte a tutti gli Stati membri dell’URSS’ nell’articolo 13, secondo comma dell’Accordo, aggiungere ‘anche per le ex entità autonome dell’URSS’, che prima dell’adozione della dichiarazione di il Consiglio Supremo dell’URSS sulla cessazione dell’esistenza dell’URSS hanno tenuto un referendum popolare ‘sulla dichiarazione di indipendenza’ e, sulla base di esso, il più alto organo esecutivo dell’entità autonoma si è rivolto alla Comunità degli Stati Indipendenti con una richiesta di adesione l’organizzazione”.

3.3. L’8 luglio 1992, il Consiglio Supremo di Armenia ha adottato una decisione, il cui 2° punto stabilisce: “È inaccettabile che la Repubblica di Armenia consideri qualsiasi documento internazionale o interno con il quale la Repubblica del Nagorno-Karabakh possa essere menzionata come parte dell’Azerbajgian”.
3.4. In altre parole, la Repubblica di Armenia con il suo atto costitutivo, la Dichiarazione di Indipendenza, ha escluso chiaramente e irrevocabilmente ogni possibilità di riconoscere l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian, e con le decisioni del Consiglio Supremo, che hanno forza di legge, ha stabilito il diritto alla libera autodeterminazione delle nazioni e ha creato una base legale per la possibilità di adesione dell’Artsakh alla CSI, oltre a considerare direttamente inaccettabile qualsiasi documento che indichi lo status dell’Artsakh come parte dell’Azerbajgian. Quindi, l’Armenia può riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbajgian, ma mai con l’inclusione dell’Artsakh o del territorio di 86.600 km2. In questo senso, la dichiarazione odierna di Nikol Pashinyan riguardo alla disponibilità a riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbajgian insieme all’Artsakh è altamente inaccettabile e preoccupante.

4. Per quanto riguarda le giustificazioni non legali, tenendo conto dell’eccezionale importanza dell’Artsakh nella sicurezza, nelle relazioni internazionali, nell’identità e in altri campi dello stato armeno e della nazione armena, è persino superfluo che molti spieghino perché qualsiasi documento e la dichiarazione dell’Armenia che riconosce l’Artsakh come parte dell’Azerbajgian è inammissibile e inaccettabile. Tratterò i dettagli di questa direzione in altre pubblicazioni. PS E quando mi riferisco alle timide e infondate esortazioni ed espressioni di Michel sui diritti e la sicurezza del popolo dell’Artsakh, a causa del suo uso delle tesi azere, devo chiamarlo “l’ex rappresentante eletto della popolazione degli ex Paesi Bassi meridionali”.
E per la Repubblica di Armenia, le questioni dei diritti e della sicurezza del popolo dell’Artsakh non possono eludere il diritto all’autodeterminazione, che in questo caso è il fulcro del resto dei diritti e persino dell’architettura di sicurezza dell’Artsakh e dell’Armenia.

Il personale militare del contingente di mantenimento della pace russo in Artsakh, insieme all’ONG multinazionale “Siamo uniti”, ha svolto un’azione umanitaria programmata per coincidere con il 78 ° anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica. Nell’ambito della campagna, più di 90 tonnellate di frutta e verdura sono state consegnate a tutti gli alunni delle scuole materne del Nagorno-Karabakh e agli studenti delle scuole Askeran, Martakert, Martuni e Stepanakert. È stato anche dato aiuto ad un orfanotrofio e a ragazze incinte.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]