«Da un giorno all’altro è scomparso tutto». L’emergenza umanitaria dei rifugiati dal Nagorno-Karabakh (Domani 07.01.24)

Dopo decenni di indipendenza de facto, nell’indifferenza della comunità internazionale, il 1 gennaio la Repubblica dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh) ha smesso di esistere; 100mila profughi scappati in Armenia hanno perso il posto che chiamavano casa

TORINO – 19 gennaio 2024 – Presentazione libro “Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena

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Il volume curato da A. Arslan e A Ferrari, Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena,  Guerini e Associati, Milano 2023 verrà presentato il 19 gennaio alle 18.00 a Torino, presso la Regione Piemonte (interverranno l’assessore M. Marrone, A. Ferrari e M. Ruffilli).
Lo stesso sarà presentato il 23 gennaio a Roma, alle 19.00, presso la Camera dei Deputati dove interverranno
A. Arslan, A. Ferrari, G. Centemero, Presidente Gruppo Parlamentare di Amicizia Italia Armenia e M. Pizzo, Direttore del Museo Centrale del Risorgimento.

Karekin II: «Crediamo nell’alba della nostra nuova vita, perché l’oscurità non può essere una barriera all’alba» (Korazym 06.01.24)

 Oggi 6 gennaio 2024, il Patriarca Supremo della Chiesa Apostolica Armena e Catholicos di tutti gli Armeni, Sua Santità Karekin II, ha celebrato la solenne Divina Liturgia della Santa Natività e dell’Epifania di Nostro Signore Gesù Cristo nella chiesa di San Gregorio l’Illuminatore a Yerevan. Ha salutato gli Armeni di tutto il mondo, concludendo la sua omelia con la notizia celeste: «Cristo è nato e si è rivelato. Buone notizie per voi e per noi».

In riferimento agli avvenimenti dell’anno scorso in Artsakh ha detto: «Artsakh rimase solo durante i giorni dei disastri. Gli Armeni dell’Artsakh sono stati sfollati con la forza dalla loro patria e sono diventati dei senzatetto. (…) Portiamo il nostro incoraggiamento patriarcale al nostro popolo sfollato dall’Artsakh. Carissimi, avete superato e superate con impareggiabile spirito eroico e insuperabile e con dignità, le difficoltà che vi hanno afflitto. Per noi l’Artsakh non sarà mai dimenticato. Continueremo a custodirlo nei nostri cuori e nelle nostre anime, facendo ogni sforzo per proteggere i diritti degli armeni dell’Artsakh. Rimanete pieno di speranza, Dio provvederà e vi darà benedizioni per le difficoltà che avete sopportato. Non siete soli nelle vostre difficoltà. Sono con voi i vostri fedeli fratelli e sorelle nel nostro Paese e nella Diaspora, che continueranno a sostenervi e ad aiutarvi con tutti i mezzi possibili. Insieme usciremo dalla difficile situazione e costruiremo un futuro pacifico, prospero e sicuro per il nostro popolo e la nostra Patria».

«Un anno fa, il Natale era sotto assedio nel Nagorno-Karabakh, ma almeno era nella patria dell’Artsakh. Ora le nostre chiese nell’Artsakh sono silenziose, prive di preghiere e liturgia» (Siranush Sargsyan).

Omelia di Sua Santità Karekin II
(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

«Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
In passato eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Comportatevi come figli di luce poiché il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità (Efesini 5,8-9).
Carissimi amati fedeli,
oggi, nella festa della Santa Natività e dell’Epifania, la nostra nazione armena, sebbene addolorata e affranta, ma con fede incrollabile, incrollabile nella volontà e piena di speranza, si inchina davanti a Cristo bambino, che dalla grotta di Betlemme risplende come luce e salvezza al mondo intero. Con belle parole di lode, il commovente cantico ci trasmette la meraviglia della Santa Natività. “O Madre di Dio, tabernacolo di luce, tu sei diventata l’aurora del sole di giustizia e hai dato la luce a quelli di noi che siedono nelle tenebre”.
La nascita del Salvatore è un invito a passare dalle tenebre alla luce, a Dio, e a stare sempre con il Signore, per diventare degni delle benedizioni celesti e dell’eternità. Rifiutare il Dio incarnato, però, porta disastri, diffonde male e distruzione. La festa del Santo Natale viene celebrata oggi dall’intero mondo cristiano con la preghiera e la richiesta che la vita dell’umanità sia piena di rinnovamento in Cristo e che le nazioni e gli Stati possano trovare le vie della pace e della convivenza armoniosa in un mondo attuale pieno di disagio e conflitti.
Nel XXI secolo, il nostro popolo ha nuovamente subito perdite, è stato sottoposto a nuove prove, che purtroppo non siamo riusciti a superare a causa di complicati eventi geopolitici, nonché per aver deviato dalla via del bene, della giustizia e della verità.
La bontà tra noi è stata guastata dalla zizzania della malizia e del tradimento, la giustizia è stata trasformata in nepotismo e castigo, la verità è stata mutilata e distorta da bugie e atti malvagi.
Tali vizi hanno causato anche divisione nella nostra nazione, divisione degli sforzi, sconfitte e perdite dei nostri santuari e della vita dignitosa. In questo modo, Artsakh rimase solo durante i giorni dei disastri. Gli Armeni dell’Artsakh sono stati sfollati con la forza dalla loro patria e sono diventati dei senzatetto.
Ma il Signore, che con la sua nascita ha portato la luce nelle tenebre, mostra che presso Dio ogni tribolazione si trasforma in vittoria, ogni sofferenza in ricompensa divina, ogni difficoltà in forza e potenza, e anche la morte si trasforma in eternità. Con tale consapevolezza e impegno, uniamo i nostri sforzi per superare le prove e riflettere la verità delle parole dell’evangelista nella nostra vita: “La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno sopraffatta” (Giovanni 1,5).
Carissimi fedeli in patria e nella diaspora, nella festa della Santa Natività e dell’Epifania, il nostro messaggio patriarcale è che non dobbiamo trasformare i nostri cuori in caverne buie e fredde di disperazione e dolore, ma trasformarli in mangiatoie illuminate dalla presenza di Cristo, dove regnano l’impulso e il desiderio di offrire opere gradite a Dio a Gesù Bambino. Ora, affidiamoci al Signore che si è fatto uomo, rimaniamo forti nella fede, siamo pionieri della bontà, dell’amore e della verità ovunque, per il bene della nostra vita giusta e luminosa. Cerchiamo di essere zelanti per il rafforzamento del nostro Stato e unirci insieme per fermare con tutte le nostre forze le ambizioni espansionistiche e le invasioni dell’Azerbajgian. Eliminiamo le distanze create artificialmente tra noi, viviamo nell’amore gli uni per gli altri, affinché le vigne della nostra nazione e della nostra patria siano illuminate dalla benedizione celeste, come è detto nelle Scritture: “Il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (Matteo 4,16).
Ispirati dal mistero di speranza della festa della Santa Natività e dell’Epifania, portiamo il nostro incoraggiamento patriarcale al nostro popolo sfollato dall’Artsakh. Carissimi, avete superato e superate con impareggiabile spirito eroico e insuperabile e con dignità, le difficoltà che vi hanno afflitto. Per noi l’Artsakh non sarà mai dimenticato. Continueremo a custodirlo nei nostri cuori e nelle nostre anime, facendo ogni sforzo per proteggere i diritti degli Armeni dell’Artsakh. Rimanete pieno di speranza, Dio provvederà e vi darà benedizioni per le difficoltà che avete sopportato. Non siete soli nelle vostre difficoltà. Sono con voi i vostri fedeli fratelli e sorelle nel nostro Paese e nella Diaspora, che continueranno a sostenervi e ad aiutarvi con tutti i mezzi possibili. Insieme usciremo dalla difficile situazione e costruiremo un futuro pacifico, prospero e sicuro per il nostro popolo e la nostra Patria.
Crediamo nell’alba della nostra nuova vita, perché l’oscurità non può essere una barriera all’alba. Con la luce del mattino, la luce luminosa di Dio risplenderà nelle nostre anime, come supplica il cantico di San Narsete il Grazioso. E, come dice il Signore per mezzo del profeta: “La mia vittoria è vicina, si manifesterà come luce la mia salvezza” (Is 51,5a).
Con tanta abbondanza di speranza e di fede, con la buona novella del Santo Presepe, portiamo il nostro fraterno saluto ai titolari delle Sedi gerarchiche della nostra Santa Chiesa: a Sua Santità Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia, al Patriarca armeno di Gerusalemme, Sua Beatitudine Nourhan Manoukyan, al Patriarca armeno di Costantinopoli, Sua Beatitudine Sahak Mashalyan, ai Capi delle Chiese sorelle, chiedendo la benedizione del Salvatore e il sostegno per anni fruttuosi nel loro ministero pastorale. Portiamo il nostro amore patriarcale e i nostri cari auguri al clero della nostra Santa Chiesa e a tutto il nostro popolo fedele.
In questo giorno benedetto della Santa Natività, inviamo la nostra preghiera al nostro Salvatore, il Signore.
O Gesù Cristo, Figlio di Dio, ti sei incarnato per la nostra salvezza e sei venuto al mondo con il tuo infinito amore per l’umanità e hai portato la luce delle grazie celesti nelle anime di tutti coloro che credono in te. Dona pace e prosperità al mondo e alla nostra madrepatria. Liberaci da ogni male e da ogni infermità, dona conforto ai nostri cuori turbati e addolorati dagli orrori della guerra e dalle pesanti perdite. Perdonaci e concedici il perdono, affinché i peccati e i fallimenti non ci blocchino la strada per realizzare i nostri sogni e le fonti della tua infinita bontà e inesauribile misericordia. Proteggi con la tua santa mano i nostri coraggiosi soldati che sorvegliano i confini della madrepatria. Riportate subito indietro gli Armeni catturati e tenuti in ostaggio, nonché i nostri dispersi [*]. Concedi il riposo e la luminosità celestiali ai nostri eroici martiri morti in guerra.
Fa’ che la tua presenza luminosa risplenda in mezzo a tutti gli Armeni, come nel presepe di Natale, affinché insieme a te possiamo affrontare con forza tutte le prove e procedere verso il futuro vittorioso del nostro popolo, glorificandoti con il Padre e lo Spirito Santo ora e sempre e nei secoli dei secoli.
Cristo è nato e si è rivelato.
Buone notizie per voi e per noi».

[*] Argishti Kyaramyan, il Capo del Comitato Investigativo dell’Armenia, ha dichiarato al Primo Canale: «In questo momento sono detenuti 23 connazionali confermati dall’Azerbajgian, 17 dei quali sono persone catturate a seguito dell’aggressione del 2023. Abbiamo le prove della sparizione forzata di 32 persone dopo la guerra dei 44 giorni, che abbiamo presentato a organizzazioni sovranazionali». Inoltre, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha indicato misure provvisorie nei confronti di 22 prigionieri; tuttavia, l’Azerbajgian nega che queste persone siano state fatte prigioniere.

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Rosa Linn: la giovane stella armena dell’Eurovision e il successo virale di “Snap” (Avvisatore 06.01.24)

Rosa Linn: la nuova stella dell’Eurovision

L’Eurovision Song Contest continua a essere un trampolino di lancio per talenti emergenti provenienti da Paesi spesso sottovalutati nel panorama musicale internazionale. Tra questi spicca la figura di Rosa Linn, giovane cantante armena che ha saputo conquistare il pubblico europeo, soprattutto dopo la sua partecipazione all’Eurofestival italiano. Scopriamo insieme alcuni dettagli sulla sua carriera e la sua vita privata.

Chi è Rosa Linn: una promessa della musica

Roza Kostandyan, conosciuta con il nome d’arte Rosa Linn, è nata a Vanadzor il 20 maggio 2000 sotto il segno del Toro. Fin da bambina ha dimostrato una passione innata per la musica, iniziando a suonare il pianoforte all’età di soli 6 anni, rivelando un talento straordinario che ha presto superato i confini dell’età.

La carriera di Rosa Linn: dalla competizione junior all’Eurovision

Nel 2013, Rosa Linn ha fatto il suo debutto nel mondo dell’Eurovision Song Contest, partecipando alla competizione junior con il brano Gitem. Da qui ha avviato la sua carriera professionale all’interno del collettivo Nvak, fondato da Tamar Karpelian, voce del supergruppo Genealogy, composto da cantanti discendenti delle vittime del genocidio degli armeni, che hanno rappresentato l’Armenia all’Eurovision nel 2015.

Nel 2021, Rosa ha lanciato un nuovo singolo e ha finalmente fatto il suo debutto internazionale, collaborando con la cantante americana Kiiara. Il suo successo è stato tale che, nel marzo 2022, è stata scelta come rappresentante dell’Armenia all’Eurovision Song Contest di Torino con il brano Snap.

La vita attuale di Rosa Linn: successi e vita privata

Durante l’Eurovision di Torino, Rosa ha ottenuto un buon risultato, superando le semifinali e classificandosi ventesima su venticinque nella finalissima del sabato. Successivamente, il suo brano Snap è diventato virale su TikTok e ha scalato le classifiche, inclusa quella italiana, grazie a una nuova versione in duetto con Alfa, giovane cantautore protagonista del Festival di Sanremo 2024.

Per quanto riguarda la sua vita privata, non sono note informazioni certe sulla sua situazione sentimentale. Tuttavia, è risaputo che Rosa ama viaggiare e trascorrere del tempo con i suoi amici, spesso accompagnata da uno strumento musicale.

Curiosità su Rosa Linn:

  • Oltre al pianoforte, Rosa suona anche la batteria e altri strumenti, dimostrando di essere una vera polistrumentista.
  • Dopo il successo all’Eurovision di Torino, è stata ospite anche di X Factor in Italia.
  • Su Instagram conta migliaia di follower, e su TikTok è una vera star, come dimostrato dal suo account ufficiale.

Se sei interessato a scoprire le migliori canzoni di Rosa Linn, puoi trovare una playlist dedicata a lei su Spotify.

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Dal cinema al gulag. La vita di Sergej Paradžanov, che compirebbe cent’anni (Formiche 06.01.24)

l 9 gennaio 1924 nasceva il grande regista armeno, operante a Kiev, Sergej Paradžanov. “Ammalato” dal regime, morirà nel 1990. Il ricordo di Eusebio Ciccotti

“Sono figlio di armeni, cresciuto a Tbilisi (Georgia) e ho lavorato, quando me lo hanno permesso, negli studi di Kiev”. La Tbilisi degli anni Trenta, dove cresce il bambino e ragazzo Sergej Paradžanov, per quanto sovietizzata, era un esempio di tolleranza etnica e religiosa da far impallidire le moderne tecno-digital-democrazie. Vi coabitavano etnie diverse (georgiani, armeni, russi, azeri, curdi, ucraini, siriani) e almeno tre credi si abbracciavano: islam, cristianesimo ed ebraismo. “Camminando per Tbilisi vedevi le chiese cristiane, le moschee e le sinagoghe in una felice sequenza”. (Paradžanov). Quasi tutti i ragazzi parlavano almeno tre lingue: il georgiano, l’armeno e l’azero. La sua infanzia la passa in un deposito statale di oggetti e materiale eteroclito, di cui suo padre era responsabile come magazziniere, per conto del Partito. Probabilmente questa “osservazione attenta degli oggetti del passato sviluppò nel ragazzo un interesse per le tradizioni di quella ricca area culturale, costante estetica del suo cinema” (Galia Ackerman).

Il giovane Sergej, inizialmente iscrittosi alla facoltà di ingegneria delle ferrovie, 1942, cambia idea e passa al conservatorio per i corsi di canto e danza. Ancora un “ripensamento di indirizzo”, ed eccolo intento a preparare l’esame di ammissione alla prestigiosa neo-facoltà del cinema di Mosca (VGIK): è ammesso (ottobre 1945). Sette anni dopo si diploma. Nel settembre 1952, c’è ancora Iosif Stalin, subisce il primo processo per omosessualità: quattro mesi in un “campo di rieducazione”.

Nel 1954, un funzionario della scuola di Mosca che lo stima, lo colloca negli studi cinematografici di Kiev (non lontano da Tbilisi ed Erevan), la “capitale” sovietica del cinema del sud (rispetto a Mosca e Leningrado). Dopo alcune opere in collaborazione, giungono i primi due film firmati da solo: Rapsodia ucraina (1961: una ballerina diviene famosa all’estero ma rientra durante la guerra per amore del suo fidanzato, prigioniero in un campo di concentramento da cui poi fuggirà: si incontreranno casualmente sui binari) e Il fiore sulla pietra (1962: un soldato in ospedale recupera la memoria grazie ai canti e alle danze ucraine). Seppur chiamato come puro regista esecutore di due “sceneggiature di ferro” della produzione, piegate all’estetica patriottica del realismo socialista (lettura anticapitalista della vita sociale ed evidente ironia dei temi religiosi), in Il fiore di pietra emerge già un delicato stile lirico grazie a una rilettura originale del folclore locale.

Due anni dopo, gli studi di Kiev, per celebrare il centenario della nascita dello scrittore ucraino Mikail Kociubinski (1864-1913), gli commissionano l’adattamento della novella Le ombre dimenticate degli avi (1964), storia di amore e morte, sul modello di Giulietta e Romeo, ambientata nei Carpazi. Il film si aggiudica il premio “Migliore regia” al Festival di Mar de La Plata (1965): Paradžanov diventa improvvisamente conosciuto dalla critica internazionale. “Presiedevo la giuria”, mi raccontava, nel luglio 1990, Mario Verdone, a casa sua, mentre apprendevamo della morte di Paradžanov, “ed ebbi l’onore di premiarlo. Quando finì la proiezione di Le ombre dimenticate degli avi, dissi agli altri giurati, ‘questo è un capolavoro!’. C’era tutto: finzione e documentario, tradizioni occidentali con Shakespeareslave e orientali, tutto insieme. Un colore smagliante, quasi divisionista, una fotografia alla Visconti. E la musica e i canti popolari perfettamente ricreati”.

L’incipit di Le ombre ancor oggi rapisce lo spettatore: il piccolo ragazzo Ivan, il protagonista, che diventerà uomo, cammina nella neve, attraverso il bosco, giungendo dove suo fratello maggiore, Oleksa, boscaiolo, sta lavorando. Lo chiama e gli mostra, prendendolo dalla sgargiante bisaccia, il pranzo che la mamma gli ha preparato (una pizza di pane). È una inquadratura in plongée, in campo lungo, dalla cima delle betulle. Il ragazzo non si accorge che sta precipitando sul suolo innevato una gigantesca betulla che il Oleksa sta abbattendo. Questi grida al ragazzo di spostarsi ma Ivan non capisce: allora si precipita (Oleksa entra in campo) spingendo Ivan fuori dal punto dove sta precipitando il gigantesco tronco, salvando il fratellino, ma non evitando l’albero su di sé. Ivan grida, piangendo, “fratello, fratello, vieni!”, cercando di tirarlo fuori per un braccio: Purtroppo Oleksa non risponde più: è un Cristo con le braccia aperte sulla candida neve, incastrato sotto l’albero, divenuto una coperta mortuaria.

Pur essendo Le ombre degli avi dimenticati osannato dalla critica internazionale, ma soprattutto amato dagli studenti delle scuole di cinema delle nouvelles vagues dell’Est (da Juraj Jakubisko, passando per Aleksandar Petrović, a Emir Kusturica), nell’ottobre 1965, viene vietato dal critico ufficiale Mikhaïl Bleïmann. Questi, in sintonia con la regressione cultuale dovuta al siluramento di Nikita Krushev (1964), considerato troppo “occidentale” e amico di Kennedy, ha reintrodotto il concetto di realismo socialista, accusando il film di essere un esempio di “degenerato cinema poetico”, alludendo anche alla omosessualità dall’autore.

Sergei Paradžanov non si abbatte. Propone un film del tutto in linea con il realismo di partito, Gli affreschi di Kiev, un soggetto ambientato a Kiev il 9 maggio 1965, ventesimo anniversario della liberazione della città dalla occupazione nazista (9 maggio 1945). Ormai egli ha assorbito anche la cultura ucraina. Le riprese iniziano a Kiev, ma da dopo alcuni giorni, verranno sospese senza una motivazione. Il regista attende alcune settimane sperando arrivi il permesso per riprendere a girare. Invece giunge la motivazione del blocco del set: “misticismo borghese e […] deviazione ideologica”. Le poche bobine di Gli affreschi di Kiev verranno sequestrate, alcune distrutte, e riconsegnate al regista venti anni dopo. Si salveranno 13 minuti di girato. Il motivo della censura è da far risalire ad alcune lettere scritte da Paradžanov a favore dei dissidenti ucraini per le quali, inoltre, viene denunziato per “nazionalismo ucraino” (novembre 1965).

Se ne torna a Erevan e si mette di buona lena a scrivere (1967) un nuovo soggetto: Sayat-Nova, nome del grande poeta-trovatore armeno del XVIII secolo. Gli studi di Erevan accettano il progetto e partono le riprese. Il film viene terminato (1969) ma con notevole sofferenza da parte di Paradžanov. Infatti la produzione interviene continuamene sia sul set che in fase di montaggio, sino a costringere il regista, stressato, a rinunziare al montaggio finale, che sarà affidato al collega Serghej Juktevic (costretto ad amputare il film di venti minuti). A dispetto di tale interventi censori il film è di un forte lirismo e una cura delle immagini e del colore sconvolgente, tale da esser paragonato all’Andrej Rubliov di Andrej Tarkovskij.

Seppur deluso da questa ulteriore cocente delusione causata dalla produzione di Stato, Paradžanov riprende a presentare diversi progetti agli studi di Kiev ed Erevan, secondo alcuni storici circa venti, tra cui: Il demone da Michail LermontovUn miracolo a Odense da Hans Christian AndersenLa confessione, soggetto autobiografico (il ritorno da adulto nella sua città natale, Tbilisi). Tutti rifiutati.

Per poter vivere, siamo agli inizi degli anni Settanta, dipinge e vende quadri, e oggetti antichi. La sua umile casa, ai piedi del “monte di David”, è aperta a tutti gli amici, estimatori, giovani autori. Si infiltrano dei finti ammiratori, sono spie. E siccome non rinuncia alla tagliente satira verso il regime, qualcuno ascolta e riferisce. Nello stesso periodo oppone un netto rifiuto alla polizia segreta che gli chiede di testimoniare contro lo scrittore dissidente Valentin Moroz, imprigionato nel 1971. Così, prima del Natale 1973, mentre si trova a Kiev per assistere suo figlio ammalato, viene arrestato per la seconda volta. Ecco i tre capi d’accusa: vendita illegale di icone e oggetti d’arte; ricettazione di oggetti antichi; diffusione di malattie veneree, istigazione al suicidio. È condannato a cinque anni di carcere duro in un campo di rieducazione. Durante la detenzione lo obbligano a svuotare, per punizione, una piscina con un secchio. Si ammalerà di polmonite, danno permanente. Nel frattempo è partita una petizione internazionale ad opera dallo scrittore Louis Aragon, cofondatore con André Breton del surrealismo nel 1924, marxista convinto, che porterà alla liberazione di Paradžanov, il 30 dicembre 1977. Il giorno dopo torna nella sua Tbilisi. Tale dura esperienza (che Alexsandr Solženicyn visse dal 1958, raccontata in Arcipelago gulag, 1973) sarà il soggetto di Il lago dei cigni, la zona (1990), film poi realizzato dal suo fedele assistente, Yuri Ilienko.

Per più di quindici anni, dal 1969 al 1984, ossia nel duro colpo di coda dei regimi dell’Est, la cosiddetta “normalizzazione” socialista, che va dall’invasione della Cecoslovacchia, agosto 1968, sino all’anno che precede la perestrojka di Michail Gorbaciov del 1985, non gli viene permesso di girare. Continuando a contestare il regime, aiutato dagli amici nel sostentamento quotidiano, finisce in prigione per la terza volta, febbraio 1982, sotto Juri M. Adropov. Reato: “tentativo di corruzione di un funzionario”. Siccome è una accusa infondata, come del resto le precedenti altre, nel dibattimento l’avvocato di Stato riesce a dimostrare l’innocenza dell’imputato convincendo il giudice. Nel novembre 1982 Paradžanov torna a casa.

Nel 1984, Rezo Cheidze, direttore degli studi di Tbilisi, regista e attore, gli affida il soggetto di La leggenda della fortezza di Suram (su sceneggiatura di Vaja Guigasvili), da co-dirigere con Dodo Abasidze. La storia, fantastica, ambientata nel Medioevo, è molto popolare in Georgia. La fortezza di Suram ogni volta che si costruisce si sbriciola. La popolazione è disperata. L’indovina proclama la profezia: un bel giovane, biondo e dagli occhi azzurri, deve farsi murare vivo. Zourab, devoto al suo principe, accetta. Questo coraggioso gesto di difesa renderà indistruttibile la fortezza di Suram; e la Georgia mai capitolerà sotto le orde nemiche.

La leggenda della fortezza di Suram consente a Paradžanov di sviluppare la svolta estetica iniziata con Sayat Nova: ha abbandonato il ritmo tellurico e sperimentale di Le ombre degli avi dimenticati, optando per una regia a quadri fissi, di ascendenza pittorica, contrastata nei colori, volutamente riflessiva, con rigorosa ricerca sui canti popolari. Con qualche differenza. Se in Sayat Nova la scenografia era simbolicamente ridotta (il poeta, un muro bianco, gli abiti colorati) in La leggenda Paradžanov inquadra il suo eroe “su sfondi naturali in cui tutto appare multiforme e complesso, stratificato e variopinto” (Michele Picchi).

La leggenda riscuote un tale successo per cui ormai egli è amato dal pubblico di ogni etnia del grande “popolo sovietico”. La produzione gli affida Ashik Kerib (1988), tratto da un racconto caucasico di Michail Lermontov, in cui seguiamo le prove, le sofferenze e i viaggi del poeta Ashik Kerib. Anche qui la ricerca cromatica su colori vividi e dalle nette campiture avviene attraverso i costumi, il trucco, i melograni rossi, le colombe bianche. Le azioni teatrali e ieratiche, a camera fissa, si aprono a improvvisi recuperi di ariosi movimenti di macchina con la gru (il banchetto di nozze all’aperto; le greggi al pascolo in CLL). Ashik Kerib è accolto da calorosi consensi in diversi festival.

Nel marzo del 1989 Paradžanov è a casa sua, a Tbilisi. Ha sessantacinque anni, ne dimostra ottanta: la sua salute, devastata dai duri periodi di detenzione, peggiora. La produzione di Stato, unendo i fondi provenienti sia dagli studi di Tbilisi che di Erevan, accetta di fargli realizzare il suo sogno: l’autobiografico, La confessione. A maggio ha una doppia crisi, polmonare e cardiaca, per cui deve fermare il set per alcuni giorni. Riprende a girare, arriva un’altra crisi, il film si interrompe di nuovo. Nel giugno 1990 viene ricoverato a Parigi, è operato, il problema cardiaco rientra; ma si apre un altro fronte: un tumore in rapida diffusione. Decide di tornare a Tbilisi. Vuole morire a casa sua, da dove si vede il monte di David. È il 20 luglio 1990. La Confessione della sua vita, interrotta per sempre.

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I Magi, quei pagani che riuscirono a riconoscere Gesù (SIR 06.01.24)

Poche le informazioni che giungono a noi dal Vangelo di Matteo, a cominciare dai nomi che secondo il Vangelo armeno dell’infanzia, apocrifo, sarebbero Melchiorre, Baldassare e Gaspare. Molti dei particolari che fanno parte ora della descrizione di queste figure sono state attribuite loro nel tardo medioevo

Quello da loro intrapreso fu un viaggio lungo e faticoso, partiti dal lontano Oriente, la Persia e guidati da una stella che li avrebbe condotti al re dei Giudei. Nel suo Vangelo, Matteo li chiama Magi, dal persiano antico “magūsh“, appellativo con cui nell’impero persiano venivano chiamati i sacerdoti di Zoroastro, ma non specifica quanti fossero. Sarà la tradizione medievale, più avanti, a ipotizzare che fossero in tre, come i doni che ciascuno di loro porrà ai piedi del bambino Gesù Bambino. Sempre secondo la tradizione, sarebbe stato grazie a una profezia, data proprio da Zoroastro, che i Magi avrebbero saputo dell’arrivo di Cristo prima ancora del clero di Gerusalemme. Arrivati nella città santa, saranno ricevuti dal re Erode che, spaventato dalla possibilità di perdere il suo trono, mentirà chiedendo loro di riferirgli dove fosse esattamente il neonato così che anche lui avesse potuto trovarlo per adorarlo. Sempre l’evangelista riferisce poi che, dopo l’incontro col Bambino, i Magi, dopo esser stati avvisati in sogno di non tornare dal re, si rimetteranno in cammino per fare ritorno nel loro paese seguendo però un’altra strada. Un gesto che scatenerà l’ira di Erode autore di quella che la storia appellerà come la “strage degli innocenti”, un indiscriminato massacro di tutti i bambini sotto i due anni nella speranza che uno di loro ci fosse quello annunciato dai profesti. Ma chi erano i Magi?

I Magi erano pagani, uomini “gentili” che portavano con loro doni preziosi riposti in scrigni altrettanto preziosi, aperti senza indugio al cospetto del Bambino e di sua madre, Maria.

Al loro interno c’erano oro, incenso e mirra. L’oro perché solo l’oro è il dono degno di un re; l’incenso perché simboleggia la divinità del bambino che è venuto a nascere; la mirra perché è una pianta dalla duplice proprietà: è curativa e quindi adatta a un guaritore (come sarà Gesù per tutta la sua vita, aiutando le persone afflitte dai mali sia fisici che dell’animo); ma è anche una pianta utilizzata da diversi popoli nel culto dei morti (gli antichi Egizi la utilizzavano per le imbalsamature). E il corpo senza vita di Gesù sarà cosparso, sarà unto, (dal greco Christòs, “unto”) proprio con l’olio di mirra  dopo la sua morte.

Poche le informazioni sui Magi che giungono a noi dal Vangelo di Matteo, a cominciare dai nomi che secondo il Vangelo armeno dell’infanzia, apocrifo, sarebbero Melchiorre, Baldassare e Gaspare. Molti dei particolari che fanno parte ora della descrizione di queste figure sono state attribuite loro nel tardo medioevo. Oltre ai nomi presenti nel vangelo apocrifo appunto, si dice che non fossero solo sacerdoti ma anche re, e che provenissero dai tre continenti allora conosciuti, e questo per simboleggiare la portata universale del messaggio cristiano. La tradizione bizantina aggiunge anche che i Magi rappresentino le tre età della vita mortale (vengono descritti infatti come un giovane, un adulto e un anziano).

Ciò di cui si è certi però è che fossero stranieri, sapienti astrologi (per questo avevano notato la stella) e che fossero pagani.

Essi, più che un settore culturale ed etnico ben preciso, incarnano l’universale attesa messianica , vera e propria dimensione umana dell’esistere. Il cosmo stesso, col suo silenzioso linguaggio rappresenta la loro prima guida in questa ricerca. Seguono la stella e sono i primi uomini ad interpretare i segni, a credere all’arrivo di Gesù e a comprendere la sua grandezza tanto da imbarcarsi in un viaggio difficile e pericoloso ma che valeva la pena intraprendere, non soltanto per conoscere, ma anche per portare doni a quel Re annunciato dagli astri. Matteo parla della gioia che i Magi provarono nel vedere la stella, la stella che li porterà alla casa del nuovo nato. Il loro quindi è un viaggio completo, sia sotto il profilo letterale che metaforico, verso la Luce, verso Colui che avevano dapprima solo intuito e solo in seguito poi riconosceranno come vero Dio.

(*) in collaborazione con Martina Anile

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Ieri la visita dell’ambasciatrice dell’Armenia a Palazzo di Città (Comune di Bari 06.01.24)

Si è tenuta ieri mattina, a Palazzo di Città, la visita di Tsovinar Hambardzumyan, ambasciatrice della Repubblica d’Armenia in Italia. A ricevere l’ambasciatrice il vicesindaco Eugenio Di Sciascio nel corso di un incontro che ha rappresentato l’occasione per rafforzare ulteriormente le relazioni tra l’Armenia e la città di Bari. Tra i temi affrontati, l’intensificazione della cooperazione in campo culturale e in quello tecnologico e le importanti opportunità aperte dal crescente interscambio economico tra l’Armenia e l’Italia.

Al colloquio, conclusosi con uno scambio di doni, è seguito un incontro in sala giunta con la comunità armena barese, organizzato dal presidente della commissione consiliare Cultura del Comune di Bari, Giuseppe Cascella, e da Dario Rupen Timurian, imprenditore ed esponente della comunità.

Presenti all’incontro, tra gli altri, il decano della comunità Rupen Timurian e Siranush Quaranta, assieme a Pietro Curzio, già primo presidente della Corte di Cassazione, e al consigliere comunale e membro della commissione consiliare Cultura Marco Bronzini.

L’ambasciatrice Hambardzumyan ha sottolineato la forza del legame tra l’Armenia e la Città di Bari, citando il villaggio di “Nor Arax” nei pressi di Bari (che cento anni fa accolse molti profughi armeni in fuga dal genocidio perpetrato dall’Impero ottomano), la vita e l’opera del grande poeta armeno barese Hrand Nazariantz e la presenza, sul lungomare Imperatore Augusto, della stele “khachkar” (croce di pietra) realizzata dall’architetto armeno Ashot Grigoryan e donata dalla comunità armena alla città per suggellare lo storico legame tra i due popoli.

La comunità armena barese, nel corso della cerimonia, ha poi lasciato in dono due targhe: una dedicata al sindaco Antonio Decaro, che sottolinea il suo impegno “per azioni di pace e di dialogo fra i popoli che hanno abitato da sempre il territorio cittadino”, mentre l’altra è stata consegnata a Giuseppe Cascella “per la sua sensibilità mostrata verso il popolo armeno nel corso della presidenza della commissione consiliare Cultura”.

Al termine dell’incontro, l’ambasciatrice Tsovinar Hambardzumyan ha poi conferito a Carlo Coppola, segretario dell’associazione Armeni Apulia e presidente del Centro studi “Hrand Nazariantz”, una “Medaglia di gratitudine” assegnata dal presidente della Repubblica d’Armenia Vahagn Khachaturyan.

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MIA NONNA D’ARMENIA (L’Opinione 05.01.24)

La nonna armena registra il racconto della sua vita in fuga in un quaderno ritrovato molti anni dopo dalla nipote. Lo ha conservato per lungo tempo come un talismano, un porto sicuro contro l’oblio e per evitare la deformazione dei ricordi spesso esercitata dalla memoria. Lo scrive in varie lingue, quelle dei suoi avi e quella dell’arrivo alla destinazione finale che è il francese. Nel quaderno che l’Autrice scopre nel 2014 trova il racconto di una lunga fuga. Grazie alla sua esperienza ma soprattutto al suo intuito, la nonna riesce sempre a sfuggire ai massacri dei turchi. Intuisce il momento giusto per evitare le deportazioni in corso negli anni dal 1915 in poi. Il libro è ricco di colpi di scena e il tempo appare più lungo della brevità del libro che potrebbe essere considerato anche un romanzo breve. Tutto è descritto in un eterno presente che ricorda le tragedie greche. Talvolta, la bimba rivolge delle domande alla nonna ma non riceve mai risposte. Capirà con la lettura del quaderno: la nonna ha intuito che solamente il presente può salvare la vita da un passato che non perdona.

La pulizia etnica accompagna tutto il libro mediata dalla visione distaccata della bambina. La sua innocenza riesce a rendere sopportabile la barbarie e la ferocia che ha decimato un popolo intero, la sua storia, la sua memoria. La nazione autrice di questi crimini non ha mai pagato né è stata sottoposta al giudizio di un tribunale internazionale neanche in tempi recenti con la continuazione degli omicidi di massa degli Armeni. La compostezza del libro e la narrazione elegante bastano da soli a costituire un profondo atto di accusa senza appello.

La scrittrice passa in rassegna i ricordi attivati dal prezioso quaderno scritto durante il periodo dei genocidi. Gli orrori sono sempre sullo sfondo. Ci sono qua e là diverse descrizioni di eliminazioni per avvelenamento o di affogamento di bambini armeni, di fucilazioni sommarie, di paesi bruciati con i loro abitanti. La lettura delle righe precise e minuziose della amatissima nonna è attiva ma filtrata dalla pacatezza dei bambini che osservano da un punto di vista privo di pregiudizi. Il testo è percorso interamente da una saldezza morale che però non prevede il perdono. Gli eventi devono essere ricordati senza cedere ai sentimentalismi e al dolore. La prosa è asciutta, le descrizioni sono brevi e incisive. La paura della piccola è decantata dalla sua grande fiducia nella nonna misteriosa ma forte, affettuosa e indulgente. Non rimprovera mai la nipote che incoraggia a leggere, a cercare, a pensare. La nonna conosce le regole antiche del suo popolo ma, per proteggere la nipotina, non esita ad aggirarle grazie ad una incrollabile caparbietà. La sua sicurezza e la rapida comprensione degli eventi ne fa agli occhi infantili dell’Autrice un personaggio leggendario.

Nonostante la sua brevità, il libro riesce a contenere molti ricordi, le riflessioni, le sconfitte e la salvezza con le molteplici fughe. Il libro è arricchito da fotografie che ritraggono una famiglia originariamente benestante e istruita. La vertiginosa sequenza della memoria accomuna questo gioiello narrativo all’Odissea, ricorda il viaggio che hanno vissuto molti esuli come Josif Brodskij, Agota Kristof, Emil Cioran e nobilita l’importante filone dell’esilio come infausta condizione umana. Aiuta a capire la condizione della fuga, del diario come testimonianza, molto comune fra gli esuli e simbolo di tenacia, di fiducia in sé stessi e di una salda integrità morale che è più forte della disperazione.

(*) Anny Romand, Mia nonna d’Armenia, La Lepre Edizioni, 2022, pagine 127, 16 euro.

(**) Immagine: la nonna a undici anni con famiglia Serpouhi, impero ottomano, 1904. Fonte: https://www.premiocomisso.it/mia-nonna-darmenia-di-di-anny-romand/

 

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L’ambasciatrice armena in visita a Bari: ricevuta a Palazzo di Città dal vicesindaco Di Sciascio (Baritoday 05.01.24)

Si è tenuta questa mattina, a Palazzo di Città, la visita di Tsovinar Hambardzumyan, ambasciatrice della Repubblica d’Armenia in Italia. Il vicesindaco, Eugenio Di Sciascio, ha accolto la diplomatica nel corso di un incontro che ha rappresentato l’occasione per rafforzare ulteriormente le relazioni tra l’Armenia e la città di Bari. Tra i temi affrontati, l’intensificazione della cooperazione in campo culturale e in quello tecnologico e le importanti opportunità aperte dal crescente interscambio economico tra l’Armenia e l’Italia.

Al colloquio, conclusosi con uno scambio di doni, è seguito un incontro in sala giunta con la comunità armena barese, organizzato dal presidente della commissione consiliare Cultura del Comune di Bari, Giuseppe Cascella, e da Dario Rupen Timurian, imprenditore ed esponente della comunità.

Presenti all’incontro, tra gli altri, il decano della comunità Rupen Timurian e Siranush Quaranta, assieme a Pietro Curzio, già primo presidente della Corte di Cassazione, e il consigliere comunale e membro della commissione consiliare Cultura Marco Bronzini.

L’ambasciatrice Hambardzumyan ha sottolineato la forza del legame tra l’Armenia e la Città di Bari, citando il villaggio di ‘Nor Arax’ nei pressi di Bari (che cento anni fa accolse molti profughi armeni in fuga dal genocidio perpetrato dall’Impero ottomano), la vita e l’opera del grande poeta armeno barese Hrand Nazariantz e la presenza, sul lungomare Imperatore Augusto, della stele ‘khachkar’ (croce di pietra) realizzata dall’architetto armeno Ashot Grigoryan e donata dalla comunità armena alla città per suggellare lo storico legame tra i due popoli.

La comunità armena barese, nel corso della cerimonia di oggi, ha poi lasciato in dono due targhe: una dedicata al sindaco Antonio Decaro, che sottolinea il suo impegno “per azioni di pace e di dialogo fra i popoli che hanno abitato da sempre il territorio cittadino”, mentre l’altra è stata consegnata a Giuseppe Cascella “per la sua sensibilità mostrata verso il popolo armeno nel corso della presidenza della commissione consiliare Cultura”.

Al termine dell’incontro, l’ambasciatrice Tsovinar Hambardzumyan ha poi conferito a Carlo Coppola, segretario dell’associazione Armeni Apulia e presidente del Centro studi ‘Hrand Nazariantz’, una ‘Medaglia di gratitudine’ assegnata dal presidente della Repubblica d’Armenia Vahagn Khachaturyan.

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Il dipartimento di filatelia dell’operatore locale si è trasferito in Armenia. Nel 2024 conta di emettere alcune emissioni simboliche (Vaccarinews 05.01.24)

“A metà settembre, dopo un blocco durato nove mesi, l’Azerbaigian ha effettuato la deportazione degli armeni del Nagorno-Karabakh con la complicità della Russia e il sostegno della Turchia… Oltre 100mila persone si sono trasferite”. Costituisce la testimonianza giunta da uno degli abitanti coinvolti nella guerra per l’area. È un dipendente dell’ex operatore postale locale, Artsakhpost, rintracciato grazie al lettore di “Vaccari news” Enzo Cafaro.

“Ora -prosegue l’interlocutore- siamo rifugiati in Armenia. Molti non hanno alloggio, lavoro… Tutte le istituzioni statali, le imprese, le strutture educative dell’Artsakh non esistono più. Anche Artsakhpost ha chiuso”.

Con il sostegno di Haypost (è l’azienda postale dell’Armenia) “funziona solo il dipartimento filatelico di Artsakhpost”. Vi operano un responsabile e un grafico. Intendono continuare a lavorare sui francobolli che -va precisato- nella situazione attuale possono rappresentare solo un simbolo. Quest’anno sarebbero previste serie sui seguenti temi: “Europa 2024, fauna e flora sottomarine” (è programmata per marzo o aprile), “Calcio: Euro 2024” (giugno), “Giochi olimpici estivi: Paris 2024” (luglio). Dato che lo Stato e l’organizzazione non esistono più, tali proposte dipendono dai sostenitori.

 

Il sito di Artsakhpost; ora testimonia qualcosa che non c’è più
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