Nagorno-Karabakh: Poghosyan (Ambasciata Armenia presso Santa Sede), “il nostro Paese determinato a costruire la pace nel Caucaso meridionale” (SIR 20.01.24)

“Il mondo è stato testimone del blocco di 10 mesi del Nagorno-Karabakh a opera dell’Azerbaijan, della crisi umanitaria, della mancanza di cibo, medicine, gas ed elettricità. Il tutto è culminato, tra il 20 e il 23 settembre 2023, in un’offensiva militare su larga scala, nella violazione dei diritti umani e nell’attacco indiscriminato da parte dell’Azerbaijan a civili e infrastrutture, fino a giungere alla pulizia etnica dell’intera popolazione autoctona armena del Nagorno Karabakh, costretta ad abbandonare case, luoghi di culto e un millenario patrimonio culturale e religioso”. Lo scrive, al Sir, Victoria Poghosyan, terzo segretario dell’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede, Chargé d’Affaires a.i., in merito all’articolo pubblicato nei giorni scorsi sulla situazione in Nagorno-Karabakh.
“L’Armenia ha dovuto fronteggiare, lo scorso autunno, l’afflusso massiccio di oltre 100.000 rifugiati che nel giro di pochi giorni sono fuggiti dalla terra dei loro avi per timore di persecuzioni e barbarie. Il governo armeno ha adottato diverse misure per rispondere alle necessità dei rifugiati, tra cui si contano 30.000 bambini, e per facilitare la loro integrazione socio-economica che, nel medio termine, richiederà un contributo significativo”, afferma Poghosyan che puntualizza: “Per via del recente uso della forza da parte dell’Azerbaijan, il patrimonio culturale armeno in Nagorno Karabakh è stato, di fatto, ancora una volta sottoposto a distruzione, profanazione e appropriazione”. Di qui l’osservazione che “la politica – sponsorizzata dallo Stato – di deliberata distruzione e di alterazione dell’identità del patrimonio culturale è una sfida non solo per l’Armenia ma per l’umanità tutta. Oggi la gravità della situazione richiede un impegno urgente della comunità internazionale. A tal proposito, appoggiamo lo spiegamento della missione di esperti indipendenti dell’Unesco nel Nagorno-Karabakh, finora ostacolato dall’Azerbaijan. Ribadiamo inoltre l’importanza della rapida attuazione delle decisioni giuridicamente vincolanti della Corte internazionale di Giustizia al riguardo”.
In questo contesto, precisa Poghosyan, “l’Armenia sostiene senza riserve e apprezza grandemente i forti appelli lanciati di recente da Papa Francesco che rimane fedele alla sue posizioni di principio e continua a sostenere la soluzione di delicate questioni umanitarie quali la conservazione e la protezione dei luoghi sacri e il ritorno dei prigionieri di guerra”.
Il terzo segretario dell’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede conclude: “Malgrado le sfide e le difficoltà di cui siamo testimoni da parte dell’Azerbaijan, l’Armenia è determinata a costruire la pace nel Caucaso meridionale. Riteniamo inoltre che sia importante per il futuro della regione escludere l’uso o la minaccia della forza e attuare programmi come ‘Crossroads of Peace’ sviluppato dal governo armeno”.

Vai al sito


Nagorno-Karabakh: Poghosyan (Ambasciata Armenia presso Santa Sede), “il nostro Paese determinato a costruire la pace nel Caucaso meridionale” (Avvenire di Calabria)

In Armenia, una guest house di montagna forma giovani cuochi del futuro (L’Inkiesta 20.01.24)

Tsaghkunk è un comune di poco più di mille abitanti in Armenia, a nord del lago Sevan. Siamo nella regione dello Gegharkunik, a circa sessanta chilometri dalla capitale, l’equivalente di due ore circa di macchina con le strade locali. Circondato dalle montagne e da un panorama che ricorda i massicci mongoli e le alture balcaniche, questo piccolo paese sopporta temperature particolarmente rigide in inverno (si arriva in genere a -13 / -18 gradi centigradi) mentre durante le stagioni intermedie è facile svegliarsi con pochi – uno o due – gradi sopra lo zero. Nonostante l’atmosfera sembri quella di un luogo abbandonato e poco popolato, Tsaghkunk è in realtà una destinazione conosciuta e apprezzata anche dalla gente locale.

Uno dei primi motivi per il quale vale la pena spingersi fino a qui è incontrare Yura Sargsyan, sua moglie Ani e la loro affiatata famiglia. Con oltre venticinque anni di esperienza alle spalle, tra cucine armene ed europee, nel 2011 Yura è riuscito finalmente a inaugurare la sua guest house. Nel vero senso della parola, e guardandola dall’esterno, si tratta niente di meno che di una casa, sue due piani, grande e accogliente dove oltre a un ristorante ci sono diverse camere a disposizione di turisti, viaggiatori e appassionati. Nato e cresciuto proprio a Tsaghkunk, Yura ha coltivato a lungo il desiderio di avere un luogo proprio dove accogliere clienti e amici, nella stessa città dove è cresciuto insieme ai suoi genitori. Grazie al prezioso contributo di Ani, e dei loro figli, l’atmosfera e il calore di questa guest house sono semplici ma estremamente genuini e personali.

La cucina è sempre aperta, con un menu vasto e suddiviso tra piatti armeni e internazionali preparati con ingredienti della zona, stagionali e naturali. La colazione viene servita secondo l’uso locale e i ricordi d’infanzia dello chef: formaggi freschi, lavash (il pane sottilissimo tipico armeno) appena fatto, frutta tagliata, frutta secca, torte fatte in casa, uova strapazzate con pomodoro e coriandolo, confetture e miele.

Grazie alla passione per la cultura gastronomica locale e al lavoro in costante contatto con il territorio, Yura e la sua realtà sono diventati negli anni un punto di riferimento per le organizzazioni governative promotrici di turismo e cultura oltre che per la comunità di cuochi internazionali e le nuove generazioni.

I ragazzi che ambiscono a diventare cuochi infatti sono accolti nelle cucine di Sargsyan per imparare la vita di cucina e apprendere tecniche e tradizioni culinarie come una vera e propria scuola di formazione. «In Armenia non vantiamo ancora dei veri e propri istituti professionali per imparare questo mestiere e non tutti i giovani hanno la possibilità e i mezzi per potersi spostare, per studiare, per viaggiare. Negli anni la nostra guest house è diventata un punto di riferimento anche per questo, perché prendo i giovani del posto a lavorare con noi e gli insegno tanti aspetti di questa professione sperando che se ne appassionino e trovino stimoli per approfondire le loro conoscenze» ci racconta.

Oltre a lavorare, i giovani aspiranti cuochi entrano in contatto con professionisti del settore, ospiti in visita oltre che una fitta rete di colleghi e appassionati da tutto il mondo che si spingono fino a qui per conoscere lo chef e provare alcune delle sue specialità.

Tra queste, sicuramente il crayfish kebab è uno dei piatti che più di tutti continua a giustificare chilometri di strada e ore di viaggio per gli avventori della guest house. Attingendo dalle abbondanti scorte di gamberetti del lago Sevan, Yuri ne prepara una pasta morbida e modellabile che, mischiata a cipolla, aglio e spezie, costituisce l’impasto per la realizzazione di un kebab. Come potete immaginare la versione di pesce di questo piatto non si trova così comunemente e in questo caso si tratta addirittura di specie di lago. L’impasto viene modellato a forma di kebab su un lungo spiedone di acciaio che viene quindi posizionato sulla griglia. La cottura è dolce, alla brace e non a fuoco vivo, così da consentire allo spiedo di diventare dorato e restare tenero e succoso contemporaneamente. Provato di persona, vi possiamo assicurare che era squisito!

Yura ci ha spiegato come «L’educazione alimentare è un tema ancora interamente da costruire a livello statale e necessita decisamente di maggiori attenzioni da parte di tutta la comunità, per arrivare a infondere consapevolezza nelle singole famiglie e negli individui». Il nuovo spazio di Yuri e dei suoi collaboratori sarà aperto a tutti e volutamente gratuito per i più piccoli, per fargli avere pane buono anche se non lo possono permettere e fargli capire l’importanza di una cultura alimentare attenta, rispettosa e sostenibile.

Vai al sito

Il paese perduto (Internazionale 19.01.24)

Il 1 gennaio il Nagorno Karabakh, uno stato mai riconosciuto da nessuno, ha cessato ufficialmente di esistere. Alla fine di settembre l’intera popolazione è scappata in Armenia, in fuga dalle truppe azere

Il massacro dimenticato dei Cristiani armeni nell’ultimo numero di “Intervento nella società” (Secolo d’Italia 19.01.24)

Si apre con una durissima denuncia di Riccardo Pedrizzi e dell’ex sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, la prima pagina dell’ultimo numero del trimestrale “Intervento nella società”, dedicata alla tragedia degli Armeni cristiani, perseguitati e dimenticati dalla comunità occidentale, un “dramma invisibile”, quello del genocidio nel Nagorno Karabak. Nella lettera inviata come presidente del Cts dell’Ucid, a tutti i parlamentari, e riportata nella rivista, il direttore di “Intervento”, Pedrizzi, chiede di accendere la luce su quella tragedia che sembra non interessare nessuno, “nonostante la cancellazione in atto di millenni di storia, di simboli cristiani, di un patrimonio culturale millenario nei territori del Nagorno passati sotto il controllo dell’Azerbaigian con conseguente esodo della popolazione verso l’Armenia”.
“Centomila armeni su un totale di centoventimila sono stati costretti con le armi dall’esercito dell’Azerbaigian ad abbandonare le loro terre, dove abitavano da secoli. Profughi nei campi per rifugiati in Armenia. La Russia ha sempre difeso l’Armenia dalle mire della Turchia, che ha appoggiato l’aggressione azera e l’ha pesantemente aiutata. Ma quel ‘criminale’ di Putin non era in condizione di intervenire e la Turchia ne ha approfittato”, scrive Mantica.
Sul silenzio dell’Europa si esprime, invece, Cinzia Bonfrisco, componente della Commissioni Esteri del Parlamento europeo.
Sul fronte politico, lo stesso Pedrizzi, nel suo editoriale, analizza lo status quo delle misure a sostegno delle fasce più deboli, come gli anziani, mentre Domenico Fisichella, ex Vicepresidente del Senato, critica la passività dell’opposizione su fronte delle riforme, ponendo alcune domande; “Cosa propone lo schieramento alternativo? Ha e può avere un iter programmatico con una sua significativa coerenza?” . Sullo stesso tema, l’approfondimento di Alberto Balboni delinea la proposta sul premierato arrivata dal centrodestra. Un duro attacco alla direttiva Ue sulla case green arriva da Nicola Procaccini, Copresidente gruppo Conservatori e Riformisti al Parlamento Europeo, che parla espressamente di patrimoniale occulta.
Ed ancora, un ritratto sincero del “comunista redento” Giorgio Napolitano, firmato da Paolo Armaroli, con giudizio di un avversario” firmato da Maurizio Gasparri, approfondimenti sull’intelligenza artificiale, la natalità, i rischi e le trappole della finanza, il ruolo centrale nel sistema creditizio delle banche popolari, l’analisi di Souad Sbai sull’integralismo islamico e il contributo di Monsignor Pizzaballa sulla guerra che infiamma il Medio Oriente.

Vai al sito

Nagorno Karabakh, a rischio ogni testimonianza armeno-cristiana (Terra Santa 19.01.24)

Dopo che decine di migliaia di armeni sono fuggiti dal Nagorno Karabakh preso dalle truppe azere nel settembre scorso, ora rischiano di scomparire anche le chiese, le croci, i simboli di una plurimillenaria presenza armena e cristiana.


I centomila abitanti dell’ultima enclave armena del Nagorno Karabakh sono fuggiti nel giro di pochi minuti lo scorso settembre, quando i soldati dell’Azerbaigian hanno occupato la loro città, Stepanakert. Hanno lasciato dietro di sé documenti, vestiti e tutta la loro vita. Adesso chiedono che sia almeno risparmiata la loro memoria, testimoniata dalle centinaia di chiese, cappelle, kachkar (le tradizionali croci di pietra) che punteggiano un territorio abitato, sin dal IV secolo d. C., dalla comunità dei cristiani armeni.

«Gli azeri hanno già cominciato a cancellare le tracce armene dai luoghi sacri, in quattro mesi hanno cambiato l’aspetto di una decina di chiese negli ultimi territori occupati», spiega l’archimandrita Tirayr Hakobyan, rappresentante presso la Santa Sede della Chiesa apostolica armena in Europa Occidentale. Il loro metodo – denuncia l’archimandrita – è cancellare ogni scritta, ogni simbolo che possa suggerire la presenza ultramillenaria armena. Talvolta sostituiscono le parole incise sulla pietra con scritte in lingua albana, appartenente all’ antico regno cristiano dell’Albania caucasica, scomparso del tutto nel VI secolo d.C. (niente a che vedere con l’Albania balcanica – ndr.). «In molte occasioni, dopo l’invasione e la conquista di gran parte del Nagorno Karabakh nel 2020, l’Azerbaigian ha usato metodi più brutali. Ha distrutto importanti chiese, compresa la cattedrale di Shushi, vandalizzato monasteri risalenti al IX secolo, polverizzato croci di pietra», riferisce l’archimandrita, in un incontro con alcune testate giornalistiche, tra cui Terrasanta.net.

La religione cristiana è parte integrante dell’identità armena, cancellando i simboli della fede si annulla l’individualità di un popolo. L’archimandrita Hakobyan parla di un patrimonio di oltre 4mila edifici e beni sacri, molti dei quali antichissimi e preziosi, in tutta la regione contesa, di cui un centinaio nella città di Stepanakert (Khankendi per gli azeri). Prima di essere occupata definitivamente, il 24-25 settembre 2023, la città ha subito un assedio pressoché totale durato dieci mesi. L’unica strada di collegamento con l’Armenia era stata chiusa dagli azeri, bloccando i rifornimenti. Infine è arrivato il blitz dell’esercito, che ha imposto alla popolazione civile di scegliere, in pochi minuti, se rimanere sotto l’autorità e le leggi dell’Azerbaigian o lasciare immediatamente Stepanakert.

Video girati pochi giorni dopo la conquista azera, mostravano una città abitata da cani in cerca di cibo, cavalli che trottavano da soli nelle principali strade, tra borse, valigie, passeggini abbandonati all’ultimo momento, probabilmente perché non entravano nelle auto, nei camion, sui trattori usati per l’esodo di massa. Le porte delle case erano rimaste aperte. Tuttora Stepanakert, come mostra un recente reportage di Al Jazeera, è una città fantasma, nonostante i tentativi del governo di Baku – afferma l’archimandrita Hakobyan – di convincere i cristiani azeri, minoranza in un Paese musulmano, a trasferirsi nell’ex enclave armena.

Dei 100mila profughi arrivati a Yerevan, 30 mila sono bambini. In tanti non hanno alcun documento, alcun attestato di studio. Sono persone che hanno bisogno di tutto e che nella capitale armena, travolta da un’immigrazione così massiccia e improvvisa, hanno trovato alloggi provvisori e aiuti alimentari, ma non le basi per ricominciare una nuova esistenza. In molti sono tornati a cercare casa vicino al confine del Nagorno.

Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh è cominciato con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando si è trattato di definire confini in regioni con forti caratterizzazioni etniche incastrate tra loro come in un mosaico. Il Nagorno Karabakh, che si trova all’interno dell’Azerbaigian, dopo la fine dell’Unione Sovietica è stato proclamato, nonostante la resistenza del governo di Baku, ma grazie all’appoggio della nuova Russia, un’entità statale armena, anche se questa non ha avuto il riconoscimento internazionale. Nel 2020, con il sostegno militare turco, l’esercito azero è riuscito ad occuparne i due terzi, espellendo già allora centinaia di migliaia di persone. Infine, il colpo di grazia dello scorso settembre.

Gli armeni, spiega Tirayr Hakobyan, si trovano in un gioco internazionale più grande di loro. Con la guerra in Ucraina e le sanzioni imposte alla Russia, l’Azerbaigian – che è già un produttore di rilievo di greggio e di gas – ha acquisito un ruolo chiave negli approvvigionamenti energetici. Secondo l’archimandrita, da Baku passerebbe adesso anche petrolio russo venduto sotto banco ai Paesi europei. Le alleanze diplomatiche sono cambiate e l’Armenia si è trovata di fatto da sola, nonostante i suoi appelli all’Onu e all’Occidente. Il futuro non promette niente di buono.

Vai al sito

«ARMENIA – ARTSAKH. Ritorno al Paradiso» (Culturacattolica 18.01.24)

Il Coordinamento delle Associazioni Laicali di San Marino propone questo incontro sul tema della Armenia e della sorte dei cristiani in Artsakh (Nagorno – Karabakh)
NON possiamo dimenticare, né essere indifferenti

«ARMENIA – ARTSAKH. Ritorno al Paradiso»

VENERDÌ 26 GENNAIO 2024
Ore 20,45
SALA MONTELUPO – DOMAGNANO – RSM

Intervengono:

  • TERESA MKHITARYAN Fondatrice del “Germoglio”, associazione con sede a Lugano che promuove progetti umanitari in Armenia
  • RENATO FARINA Giornalista

Queste le parole del Vescovo di San Marino – Montefeltro, in occasione dell’insediamento dei Capitani Reggenti, il I° ottobre 2023, alla presenza degli Ambasciatori accreditati in Repubblica:

«Ora voglio ricordare un’altra tragedia che ferisce il cuore degli uomini, e dei cristiani in particolare: è la sorte di migliaia e migliaia di Armeni dell’Artsakh [Nagorno-Karabakh] che sono scacciati dalla loro terra per rifugiarsi nell’Armenia. Non ho le competenze che hanno Loro [gli ambasciatori e i politici presenti (ndc)] per orientare la riflessione così delicata, tocca rapporti internazionali, ma penso agli uomini, donne, bambini e agli anziani.
Viene davvero da chiedere giustizia per loro, la cui vita e storia vale certamente di più che qualsiasi progetto politico e di qualsiasi vantaggio economico.»
Mons. Andrea Turazzi, Omelia per l’Insediamento dei Capitani Reggenti, 1° ottobre 2023

LE TAPPE DELL’ODIO – IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI (Gariwo 18.01.24)

Questa scheda fa parte del dossier di Gariwo “Le tappe dell’odio”, un’analisi comparata su alcuni dei principali genocidi del XX secolo coordinata dalla redazione di GariwoMag e scritta da Alessandra Colarizi, Tatjana Đorđević, Anna Foa, Françoise Kankindi, Pietro Kuciukian. A scrittori e studiosi abbiamo chiesto di raccontare le tappe dell’odio che hanno portato ai diversi genocidi, cercando di capire in che modo le parole e le azioni di politici, media e persone comuni hanno forgiato i sentimenti d’odio che hanno condotto al male estremo. Lo schema è quello di The Ten Stages of Genocide, la formula coniata nel 1996 da Gregory H. Stanton, presidente di Genocide Watch. Le otto “stazioni dell’odio” che creano le condizioni per un genocidio sono: classificazione, simbolizzazione, discriminazione, disumanizzazione, organizzazione, polarizzazione, preparazione e persecuzione. La nostra analisi comparata si ferma lì, prima delle ultime due tragiche tappe: lo sterminio e la negazione.

In questa scheda Pietro Kuciukian, console onorario d’Armenia in Italia e cofondatore di Gariwo, racconta le otto tappe che hanno condotto al genocidio degli armeni.

Nel corso della Prima guerra mondiale venne perpetrato, nei territori dell’Impero Ottomano, il genocidio del popolo armeno. Il governo ultranazionalista dei Giovani Turchi, emanazione del partito “Unione e Progresso”, scelse di turchizzare l’area anatolica e decise di deportare e sterminare l’etnia armena presente nel territorio fin dal 7° secolo a.C, integrata ma non assimilabile. Nel giro di pochi mesi, circa due milioni di armeni vennero deportati con le carovane della morte verso i deserti della Mesopotamia. Più di un milione tra essi trovarono la morte lungo il cammino, nei campi o nel deserto. Com’è stato possibile arrivare ad una simile tragedia?

1. CLASSIFICAZIONE

Le differenze tra le persone non vengono rispettate. Esiste una divisione tra “noi” e “loro” che può essere attuata utilizzando stereotipi o escludendo persone percepite come diverse.

Nel caso del genocidio armeno è necessario risalire alle condizioni delle minoranze cristiane dopo la conquista ottomana dell’Impero Romano d’Oriente e la caduta di Costantinopoli del 1453, che consolidò la realtà di stato centralizzato, autocratico e islamico dell’Impero Ottomano. La distinzione tra il gruppo noi e il gruppo loro era presente fin dalle origini, in quanto gli armeni si trovavano ad essere sudditi cristiani di un Impero fondato sulla Sharia (legge sacra di Allah rivelata a Maometto). I non musulmani, cristiani, ebrei, zoroastriani, induisti e altri erano chiamati dhimmi (sudditi che godono di un patto di protezione): potevano praticare la loro religione a determinate condizioni e la loro sicurezza era garantita dall’obbligo di pagare una tassa straordinaria, la Jizya, definita “compensazione“, poiché garantiva la condizione di “protetti”. Le Sure del Corano regolamentavano i compiti dei sudditi, e relativamente ai cristiani si prescriveva che potessero godere dell’atteggiamento tollerante dei dominanti, ma non di uguali diritti; la discriminazione era all’origine della convivenza tra gruppi diversi nella realtà multietnica dell’Impero Ottomano. Da segnalare anche la pratica (XIV secolo) di sottrarre i primogeniti maschi delle famiglie cristiane (tributo dei fanciulli), istruirli all’Islam e addestrarli militarmente. Diventavano così “giannizzeri”, corpi scelti a difesa del Sultano e fanatici esecutori dei suoi ordini.

2. SIMBOLIZZAZIONE

Una manifestazione visiva di odio. Come, ad esempio, gli ebrei che nell’Europa nazista furono costretti a indossare stelle gialle per dimostrare che erano “diversi”.

Nell’epoca ottomana i sudditi cristiani erano stati organizzati in millet (comunità religiosa non musulmana, “nazione senza confini”), il cui capo era una figura religiosa, parzialmente responsabile della comunità dal punto di vista giuridico. La condizione di dhimmi comportava talvolta l’obbligo di vestire determinati abiti e usare determinati colori a seconda del millet di appartenenza. La distinzione tra i gruppi era quasi sempre legata alla disposizione topografica delle città o dei villaggi; i sudditi cristiani vivevano in quartieri circoscritti. Le chiese per lo più non dovevano essere visibili dall’esterno. Le campane non dovevano suonare. Le etnie dominate erano quindi facilmente identificabili e controllabili dall’etnia dominante. Le donne armene spesso non portavano il velo e nel corso dei pogrom le case armene venivano segnate con croci. Durante il genocidio, le ragazze rapite e rese schiave venivano tatuate sul viso per renderle riconoscibili.

3. DISCRIMINAZIONE

Il gruppo dominante nega i diritti civili o addirittura la cittadinanza a gruppi identificati. Le leggi di Norimberga del 1935 privarono gli ebrei della cittadinanza tedesca, rendendo illegale per loro svolgere molti lavori o sposare tedeschi non ebrei.

L’Impero Ottomano nel XIX secolo era passato da un periodo di stabilità e di capacità di controllo sulle aree del Nord Africa e dell’Europa balcanica a una crisi progressiva, che lo aveva reso “il grande malato d’Europa” per l’incapacità di gestire il processo di modernizzazione in atto, caratterizzato dalla nascita degli ideali nazionali dei popoli europei soggetti all’Impero. A questo si aggiunse l’interesse della Russia zarista, che con il Trattato di Berlino (1878) si erse a protettrice dei cristiani sudditi dell’Impero e garante della concessione di riforme richieste dalle minoranze interne, in particolare dagli armeni. Il millet dei sudditi armeni cristiani era considerato “nazione fedele” (millet sadiqa diventò “nazione infedele”): gli armeni si erano lasciati penetrare dagli ideali di uguaglianza di diritti, di giustizia e di libertà propri della situazione sociale, culturale e politica dell’Ottocento. Alcune minoranze armene fondarono segretamente partiti politici. Nacque la “questione armena” e si passò dalla discriminazione accettata dagli armeni a una vera e propria propaganda contro il nemico interno, considerato pericoloso, con la sua richiesta di riforme, per la stabilità dell’Impero Ottomano. Si registrò un progressivo aumento degli episodi di violenza da parte delle tribù curde e circasse e la pressione fiscale si fece insostenibile. Gli armeni vissero la condizione di ghiaur, infedeli, asserviti al codice islamico basato sulla forza e sull’onore, riproposto dal sultano Abdülhamid II contro le leggi del diritto pubblico introdotte dalle riforme.

Abdülhamid, il “sultano rosso”, fu l’organizzatore delle brigate hamidié, di cui si servì per perpetrare i massacri hamidiani, dal 1894 al 1896, nei villaggi abitati dagli armeni nell’Anatolia, ma anche in città come Trebisonda e Costantinopoli. Più di duecentomila vittime, cinquecentomila islamizzati, trasferimenti di popolazione, distruzione di chiese e simboli religiosi. Si compirono e si giustificarono i massacri anche in previsione di una ”possibile” rivolta. In realtà, il Sultano stava anche cercando spazio per i turchi fuggiti dai territori ottomani che si erano resi indipendenti, con l’obiettivo di rivitalizzare il credo islamico e aumentare, con la nuova immigrazione dai Balcani, la potenza nazionale ed economica dell’Impero.

4. DISUMANIZZAZIONE

Coloro che sono percepiti come “diversi” vengono privati di ogni forma di diritti umani o dignità personale. Durante il genocidio contro i tutsi in Ruanda, i tutsi venivano chiamati “scarafaggi”; i nazisti chiamavano gli ebrei “parassiti”.

L’esercizio della violenza sui sudditi armeni restò impunito e non provocò conseguenze (le potenze occidentali protestarono, ma non agirono), ma fece sì che si consolidasse l’idea della vulnerabilità della minoranza cristiana, insieme alla convinzione che gli armeni fossero l’ostacolo maggiore al risanamento dell’Impero in declino. Venne aperta la strada alla disumanizzazione che costituirà il cuore della propaganda dei Giovani Turchi, espressione dei circoli nazionalisti che avevano fatto proprie le ideologie panturchiste e panturaniche (unificazione di tutti i popoli di etnia turca e ricongiungimento con il Turan, la terra di origine dell’Asia Centrale). Nel 1908 il movimento dei Giovani Turchi, che in un primo momento era stato sostenuto anche da alcuni partiti armeni, organizzò una rivoluzione incruenta, togliendo il potere al sultano e inaugurando un regime costituzionale che portò al potere il partito politico “Unione e Progresso” (Ittihad ve Terraki). Ben presto il nuovo governo, in cui erano presenti due anime, una liberale e l’altra nazionalista radicale, abbandonò ogni progetto di ottomanismo (unire tutti i sudditi e le varie etnie in una federazione di uguali) e diede il via, con i nuovi massacri in Cilicia (30.000 vittime), alla pulizia etnica degli armeni. Si accelerava in questo modo il processo di disumanizzazione che preparò il terreno per l’annientamento. Gli armeni, un tempo utili all’economia, diventarono così parassiti, microbi e batteri che infettano la salute dell’etnia dominante. Infedeli che non riconoscono più la benevolenza della Umma, (comunità dei fedeli) e tramano congiure; in quanto cristiani, privilegiati nei commerci con l’Occidente, traditori e futuri alleati alle nazioni che minacciano l’Impero. I “cani ribelli”, il rayaah (bestiame) cristiano, non può travalicare i limiti imposti dai “padroni” musulmani; se lo fa, la sua vita e i suoi beni sono alla mercè dell’etnia dominante.

5. ORGANIZZAZIONE

I genocidi sono sempre pianificati. I regimi di odio spesso addestrano coloro che poi portano avanti la distruzione di un popolo.

Si entrò in un percorso le cui tappe (segnate dal 1908 al 1913 dalla perdita di quasi tutto il territorio europeo dell’Impero) videro l’accelerazione delle spinte nazionaliste che orientavano il nuovo governo a risolvere le tensioni interne con la forza. Nel 1913 un colpo di stato dei Giovani Turchi del CUP portò al potere il triumvirato composto da Enver, Talaat e Cemal Pascia, capaci di mobilitare il popolo attorno alla nascente identità turca che si fondava sui legami linguistici, sull’idea di razza e di origini comuni. Le figure più note dell’azione genocidaria, i due medici Bahaeddin Sakir e Mehemed Nazim, furono gli ideologi della costruzione di uno stato nazionale turco islamico centralizzato, omogeneo e unitario, con scuole, amministrazione e potere giudiziario turco. La superiorità etnica turca si sarebbe consolidata solo dopo la risoluzione della questione armena. Risultava inoltre evidente la vicinanza dell’ideologia panturchista dei Giovani Turchi all’ideologia del pangermanesimo che stava nascendo nei circoli nazionalisti in Germania. Prossimità ideologica che spiega l’avvicinamento tra l’imperatore Guglielmo II e il governo dei Giovani Turchi.

6. POLARIZZAZIONE

La propaganda inizia a essere diffusa da gruppi di odio. I nazisti utilizzarono il giornale Der Stürmer per diffondere e incitare messaggi di odio contro gli ebrei.

Si pensò a una sostituzione etnica su vasta scala. Il sentimento anti-armeno si acuì, sostenuto dall’idea forte che gli armeni cristiani – un tempo “fedeli” e sottomessi, che guardavano all’Occidente, che avevano condiviso con i Giovani Turchi inizialmente gli ideali di uguaglianza e libertà – costituissero una barriera, un ostacolo da eliminare. È la minaccia alla sovranità nazionale che si può riassumere in questa espressione: “I turchi sono un popolo che parla turco e vive in Turchia. La Turchia ai turchi”.

7. PREPARAZIONE

Gli autori pianificano il genocidio. Spesso usano eufemismi come la frase nazista “La soluzione finale” per mascherare le loro intenzioni. Fomentano paura nei confronti del gruppo delle vittime, costruendo eserciti e armi.

La soluzione della questione armena, che consiste nell’eliminare in modo definitivo gli armeni dall’area del loro insediamento storico, venne preparata attraverso alcune tappe. L’occasione venne offerta dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Molti genocidi avvengono nel corso di una guerra che facilita anche il rovesciamento delle responsabilità e la negazione del crimine. Il partito “Unione e Progresso” dei Giovani Turchi acquisì il controllo delle istituzioni statali. Dopo avere giocato sulla neutralità con molta astuzia politica, i triumviri decisero di entrare in guerra a fianco degli Imperi Centrali nel novembre del 1914. Riorganizzarono e addestrarono l’apparato militare; potenziarono l’Organizzazione Speciale (Teshkilat i Mahashusa) controllata dal dottor Bahaeddin Sakir e la affiancarono con irregolari, bande di tribù curde e carcerati liberati ad hoc. Tutto era pronto per l’azione genocidaria.

8. PERSECUZIONE

Le vittime vengono identificate in base alla loro etnia o religione e vengono stilate liste di morte. Le persone a volte vengono segregate in ghetti, deportate o fatte morire di fame e le proprietà vengono spesso espropriate. Iniziano i massacri con intento genocidario.

Lo stato di guerra, con il suo alto tasso di violenza e sofferenza; le sconfitte dell’esercito turco, inflitte dai russi sul fronte orientale, di cui vennero ritenuti responsabili i soldati armeni; le azioni di armeni volontari che passarono nelle file dell’esercito russo. Sono queste le situazioni che crearono le condizioni per dare il via alla persecuzione: gli armeni erano visti come traditori, una minaccia per la sopravvivenza del popolo turco. L’attività del Parlamento venne sospesa; i triumviri emanarono tre decreti-legge: abolizione delle riforme, deportazione temporanea, confisca dei beni abbandonati (l’esproprio dei beni segnala il carattere definitivo dello sterminio). Il 24 aprile del 1915, i leader delle comunità armene di Costantinopoli e gli esponenti dei partiti politici vennero arrestati e massacrati. Colpiti i vertici, si diede il via, in tutti i distretti e province, all’eliminazione dei maschi armeni e alla deportazione di donne, anziani e bambini. I maschi dai 20 ai 40 anni, militari arruolati e poi disarmati, vennero utilizzati in lavori massacranti e poi eliminati progressivamente. La data del 24 aprile, scrive l’ambasciatore americano Henry Morghentau, segna “la morte di una nazione”.

Pietro Kuciukian, Console onorario d’Armenia in Italia e cofondatore di Gariwo

18 gennaio 2024

Vai al sito

Gelsi in cucina La prima izakaya armeno-giapponese si trova a Yerevan (L’Inkiesta 17.01.24)

Donna, imprenditrice, pr ed esperta di comunicazione, Kristina Nechitaylenko è a tutti gli effetti uno dei tanti immigrati russi (in realtà è nata e cresciuta in Ucraina e successivamente trasferitasi per gli studi) che dalla capitale Mosca, piuttosto che altri centri minori, hanno avuto la possibilità di cambiare vita e trasferirsi in Armenia. «A Mosca ho ancora una collega del mio vecchio ufficio, una piccola porzione di business anche se in qualche modo “sonnolente”, e il mio cane. Prima o poi porterò anche lui qui».

Per tredici anni alla guida di una delle agenzie più di successo di Mosca per la gestione di relazioni e comunicazione dei migliori ristoranti della città: White Rabbit, Twins Garden, Olluco, Bjorn, Coffemania. Tutti nomi che gli addetti ai lavori conoscono bene e che le hanno permesso negli anni di tessere una rete variegata e ampia di collaborazioni e conoscenze in tutto il mondo. Lavorando a stretto contatto con gli uffici del turismo è entrata in connessione con decine di organizzazioni e persone chiave del settore fino ad arrivare a lanciare il progetto Guida Michelin in Russia nel 2021.

Con la guerra degli ultimi mesi e il blocco massivo del turismo europeo e statunitense, il lavoro ha iniziato a faticare così come la possibilità di sviluppare progetti, viaggiare, invitare chef e giornalisti stranieri a conoscere la scena gastronomica russa.

«Yerevan è una città a misura d’uomo, dove le persone sono estremamente patriottiche e interessate a creare valore e ricchezza per la città. La capitale sta vivendo un momento di boom economico, c’è un forte sentore di ripresa, una speranza verso nuovi investitori e verso la giovane imprenditoria tanto che il governo sta stanziando aiuti importanti per chi vuole avviare attività in proprio […] I collegamenti con la Russia sono facili e frequenti, si tratta per il momento di una situazione temporanea che non sappiamo quanto potrà durare ma che per ora ci piace, ci da stabilità e speriamo ci porti fortuna» ci spiega.

Kristina si trasferisce nell’inverno del 2022 con il suo compagno, Nikita Poderiagin, chef vincitore del premio Best Young Chef Award per la Guida Michelin russa nell’anno della sua uscita. Insieme hanno fondato KUWA, una accogliente e moderna izakaya nel cuore della capitale armena. Il termine significa mulberry ovvero gelso. Così come in Armenia si tratta di frutti raccolti e lavorati in tanti modi diversi e presenti in abbondanza, nella cultura giapponese la carta da scrittura più antica è proprio quella di gelso. Sin dal nome è forte l’interesse a creare un costante parallelismo tra le due culture, trovando un modo curioso e divertente per avvicinare l’ospite a questi due mondi.

Il pensiero non è stato solo quello di ridarsi una base operativa e un luogo di creatività, ma avere un’attività propria con cui farsi conoscere alle persone del posto, interfacciarsi allo stesso livello ed entrare in contatto con il sistema locale, riprendere le normali routine del settore per poterne capire meglio tutti gli aspetti. Se per noi il termine izakaya è ormai piuttosto frequente e sdoganato, si tratta di unicum per quel che riguarda Yerevan e l’Armenia in generale. Il locale è impostato con un bancone a vista, suddiviso in uno spazio di lavoro per un bartender e una zona di impiattamento e preparazione vivande con una griglia per affumicare e cuocere alla brace.

La cucina di Nikita Poderiagin guarda alle tecniche giapponesi, ai sapori asiatici e orientali cercando di attingere da ingredienti locali, lavorando sulla creazione di gusti nuovi ma non del tutto estranei per i cittadini del posto. «Nei nostri primi mesi in città abbiamo capito quanto la popolazione quasi evitasse i prodotti locali. Preferiscono in media attingere da referenze importate e straniere questo perché è mancata negli anni una cultura di valorizzazione e promozione del patrimonio locale a partire da quello gastronomico. Con la nostra cucina e la realtà di KUWA lavoriamo quasi al cento per cento con verdure locali, acquistiamo di stagione, usiamo le moltissime erbe spontanee, i germogli, le spezie, tuberi e funghi perché in molti casi sono prodotti per nulla o scarsamente conosciuti.

Ci piace pensare che il nostro menu possa raccontare la bio diversità del Paese in cui viviamo e il suo potenziale gastronomico» ci racconta Nikita. Grazie alla sua esperienza in chimica e microbiologia, lo chef è continuamente impegnato in laboratorio. Qui sono già nate in soli cinque mesi due birre, un sake fatto in casa, uno fermentato di riso che ricorda in parte il cognac ma con una gradazione meno intensa e una nota zuccherina più marcata, cordiali di melograno e altra frutta fresca. Queste preparazioni arricchiscono la proposta cocktail – curata da Pavel Barkov – che vale la pena testare sia nelle referenze di cocktail singoli, quanto in accompagnamento alla cucina. Tante ricette richiamano alcuni ingredienti dei piatti così da creare un ponte di dialogo e comprensione costante tra cucina e bar, tra cibo solido e liquidi.

Il menu prevede opzioni vegetariane e un’organizzazione in sezioni: sott’oli e sott’aceto / affumicati e alla griglia / speziati e stagionali / dolci e frutta. Nelle bevande si segue uno schema analogo: sour e dolci / corti e forti / lunghi e a bassa gradazione / frizzanti e vini / classici e gourmet. Gli ingredienti esaltano al massimo il territorio: albicocche, melograni, fichi, mandorle, brandy, patchouli, vaniglia, sake, aghi di pino, erbe spontanee, coriandolo, basilico locale, kimchi, caffè, vino di riso. Il servizio del drink è su ghiaccio cristallino in bicchieri Rona o affini, le ceramiche di servizio della cucina invece provengono da artigiani locali così come le pietre utilizzate a decoro e arredo della parte bar sono state scelte con cura da riserve del territorio.

Una vera e propria fucina di idee e di prodotti e un calendario intenso di eventi e collaborazioni non solo a livello bar – con guest shift in promozione di specifici prodotti o colleghi – ma anche in cucina. Due volte al mese la tipologia di menu cambia per una sola sera soltanto, sposando una regione diversa. Le chiamano Chef’s Table e il tema del menu si ispira all’India, alla Francia, all’Italia, al Messico, alla Cina proponendo un percorso degustazione drink e cubo completo e disponibile solo per una giorno. Un must have se andrete a Yerevan, dove respirare l’incredibile fermento del settore gastronomico e venire circondati da un’alta concentrazione di idee.

Tutte le foto courtesy Stefano Borghesi

Vai al sito

Israele Schiaffeggia Erdogan con il Genocidio Armeno. Che però non Riconosce Ufficialmente… (Stilum Curiae 16.01.24)

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione qualche elemento di riflessione e di giudizio su un caso legato a quanto sta accadendo a Gaza. Nei giorni scorsi Erdogan ha dichiarato il suo appoggio alla causa per genocidio intentato dal Sudafrica nei confronti di Israele presso la Corte Penale Internazionale dell’Aja. Come potete vedere qui sotto, il Ministro degli Esteri israeliano ha risposto a Erdogan rinfacciandogli il genocidio armeno, il Metz Yeghérn, il Grande Male, di cui erano responsabili i turchi dell’epoca, una responsabilità pervicacemente – e attivamente – negato dai governi turchi di sempre. Il problema però è che Israele, ufficialmente, non ha mai voluto riconoscere il genocidio armeno, e ha sempre intrattenuto ottimi rapporti con la Turchia e l’Azerbaijan. Se gli azeri sono riusciti a compiere l’attuale pulizia etnica degli armeni nell’Artsakh-Nagorno Karabagh è stato anche grazie alle armi vendute dagli israeliani. Ma c’è di più: come potete vedere in questo collegamento, che vi invitiamo caldamente a leggere, il rapporto fra il genocidio armeno e la Shoah è diretto. Buona lettura e condivisione.

§§§

Aspra polemica fra Israele e Turchia dopo che il presidente Recep Tayyp Erdogan si è schierato con le tesi avanzate dal Sudafrica all’Aja.

“Il presidente della Turchia, lo Stato responsabile del genocidio degli armeni, che pensava che il mondo avrebbe assistito in silenzio – ha replicato su X il ministro degli esteri israeliano, Israel Katz – si ‘vanta’ di aver inoltrato all’Aja documenti che accusano Israele di genocidio”.”Ti conosciamo bene – ha proseguito Katz rivolgendosi ad Erdogan.- Non dimentichiamo il genocidio degli armeni nè le stragi contro i curdi.

 

 

Avete distrutto un popolo. Noi ci difendiamo dai vostri barbari amici”.

Fonte

***

Gerusalemme, 12 gen. (EFE).- Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha criticato venerdì la storia della Turchia, affermando che “ricordiamo gli armeni”, dopo che il suo presidente, Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato che il suo Paese invierà alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia documenti che sostengono l’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica contro Israele.

“Il presidente della Turchia Erdogan, da un Paese che ha nel suo passato il genocidio armeno, ora si vanta di colpire Israele con affermazioni infondate. Ricordiamo gli armeni e i curdi. La vostra storia parla da sola. Israele si batte per la difesa, non per la distruzione, contro i vostri alleati barbari”, ha dichiarato Katz in un messaggio diretto al leader turco sul social network X (ex Twitter).

Il genocidio armeno si riferisce allo sterminio sistematico del popolo armeno nell’Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale attraverso massacri, marce della morte e deportazioni.

Il governo turco sostiene che la deportazione degli armeni fu un’azione legittima che non può essere definita genocidio, e molti Paesi che cercano buone relazioni diplomatiche con la Turchia hanno evitato di riconoscere gli eventi come genocidio.

Israele non riconosce gli eventi come genocidio e questa è la prima volta che un alto funzionario israeliano li descrive come tali.

Israele è stato accusato di genocidio dal Sudafrica davanti alla Corte Suprema delle Nazioni Unite, che ha tenuto la sua prima udienza all’Aia giovedì e venerdì, con il team legale israeliano che ha accusato il Sudafrica di “ipocrisia”.

Katz ha detto che il Sudafrica sta violando la Convenzione sul genocidio sostenendo “l’organizzazione terroristica Hamas, che chiede l’eliminazione dello Stato di Israele”.

La Turchia ha espresso “soddisfazione” per la denuncia del Sudafrica fin dall’inizio e una delegazione parlamentare turca è all’Aia per seguire il processo.

“Credo che Israele sarà condannato in quella sede. Crediamo nella giustizia della Corte internazionale di giustizia”, ha dichiarato il presidente turco.

La Turchia è un alleato storico di Israele, ma dopo l’attacco del 7 ottobre da parte del gruppo islamista palestinese Hamas, Erdogan ha denunciato la risposta di Israele, che ha bombardato massicciamente Gaza, come un “crimine di guerra”, e Israele ha ritirato il suo ambasciatore da Ankara alla fine di ottobre.

Fonte

***

Il prossimo aprile segnerà il 109° anniversario del genocidio armeno da parte dei turchi, di cui l’attuale presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, rifiuta di assumersi la responsabilità. Questa data segnerà quasi contemporaneamente anche i 76 anni degli imbarazzanti sforzi di Israele per eludere il riconoscimento formale di questo genocidio. In questo momento stiamo commemorando un altro importante episodio della storia moderna: 100 giorni dal massacro del 7 ottobre, oltre alla diffamazione di sangue di cui il presidente turco ha accusato Israele, che secondo lui è “come i nazisti”, poiché ha affermato che Israele sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza. Questo frangente – proprio mentre all’Aia è iniziata l’udienza di un tribunale che sostiene che “Israele ha violato la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio” – dovrebbe aprire la strada, per quanto tardiva, a un discorso e a una riflessione profondi sul riconoscimento ufficiale del genocidio armeno da parte di Israele, dopo tutto questo tempo.

Lo Stato del popolo ebraico, che ha vissuto in prima persona l’Olocausto, un evento storico molto più grave sia per dimensioni che per ferocia, si è astenuto per anni dal riconoscere ufficialmente il genocidio che i turchi hanno perpetrato contro gli armeni, a causa di quelli che il Ministero degli Affari Esteri ha definito informalmente “interessi vitali di sicurezza” e “la profonda relazione economica tra i due Stati”. Il risultato di questa definizione è che anche ora che per l’ennesima volta Erdogan si è identificato e ha sostenuto l’Amalek moderno, il palestinese Hamas, e anche quando ha ribadito l’assurdo paragone tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e Hitler – Israele si rifiuta ancora di riconoscere il genocidio armeno. Questo genocidio ha assunto la forma di marce della morte, massacri di massa e l’espulsione forzata su larga scala della popolazione armena da parte dei turchi durante la Prima guerra mondiale. Il governo ottomano istituì 25 campi di concentramento per gli armeni sopravvissuti all’espulsione. A quel tempo, Dayr az-Zawr, nel nord-est della Siria, era il capolinea della strada verso l’inferno per gli armeni. Molte marce della morte furono organizzate per raggiungere Dayr az-Zawr ed è qui che gli armeni furono massacrati selvaggiamente. Coloro che riuscirono a sopravvivere a queste marce furono costretti a nutrirsi di carne animale e dei cadaveri dei bambini morti.

Alcuni armeni si trasformarono in una documentazione vivente degli orrori, incidendo sulla loro pelle gli incidenti a cui erano sopravvissuti durante il viaggio e i crimini perpetrati dai turchi. Una volta catturati, i loro inseguitori versavano acqua su di loro per cancellare le testimonianze incise sui loro corpi. La domanda di Hitler “Il modo più rapido per sbarazzarsi delle donne e dei bambini raccolti nei campi di concentramento era bruciarli”, scrissero in seguito diversi testimoni delle atrocità nelle loro testimonianze. I consoli statunitense e italiano descrissero come decine di migliaia di armeni, compresi donne e bambini, furono annegati nel Mar Nero. Due medici della città di Trabzon, sulla costa del Mar Nero, testimoniarono che i bambini armeni erano stati uccisi con il gas velenoso. Eitan Belkind, membro chiave della rete di spie ebraiche anti-ottomane nota come NILI, che si infiltrò nell’esercito turco durante la Prima Guerra Mondiale, fu testimone dell’orribile assassinio di circa 5.000 armeni che furono legati insieme e poi dati alle fiamme usando un anello di arbusti spinosi posto intorno a loro.

“Avsholom Feinberg, uno dei fondatori di NILI, che viaggiava molto durante la guerra, ha fornito una testimonianza degli armeni uccisi: “I loro membri nei battaglioni di lavoro vengono uccisi in massa mediante fucilazione. Li fanno morire di fame. Li maltrattano. Mi sono chiesto se posso piangere solo perché ‘il mio popolo è distrutto’, e Geremia non ha forse versato lacrime di sangue anche per gli armeni?”.

L’ex ministro Yair Tsaban: La rivendicazione degli “interessi” ha accompagnato il popolo ebraico durante le ore più buie dell’era nazista, quando abbiamo chiesto disperatamente aiuto, ma le nazioni del mondo ci hanno spiegato che a causa di vari “interessi” – non è possibile rispondere alle nostre grida di aiuto”: Israele e il genocidio armeno, il professor Yair Auron ha rivelato che alla vigilia dell’Olocausto ebraico, nell’agosto del 1939, Hitler chiese con arroganza ai suoi ufficiali delle SS: “Chi si ricorda oggi cosa hanno fatto agli armeni?”. Ora, quando Erdogan diffama e vitupera costantemente lo Stato di Israele ogni volta che ne ha l’occasione, Israele non ha più alcun motivo logico e formale per continuare a fare affidamento sulla misera scusa su cui aveva buone ragioni per fare affidamento in primo luogo – quella degli “interessi”. In questo periodo attuale, in cui Erdogan sostiene spudoratamente i nuovi nazisti della nostra generazione, a Israele è stata presentata un’altra opportunità per modificare questa situazione. Lo Stato ebraico avrebbe dovuto chiedersi molto tempo fa: avrebbe accettato il rifiuto di riconoscere l’Olocausto ebraico da parte di qualsiasi Stato a causa di interessi economici o di sicurezza, come ha fatto per anni con la decisione di astenersi da qualsiasi riconoscimento ufficiale dell’Olocausto del popolo armeno.

Dopo tutto, la bussola morale dovrebbe essere la stessa in entrambi i casi, e il rifiuto del governo israeliano di riconoscere il genocidio armeno è un chiaro caso di palese bancarotta morale. Sebbene l’olocausto armeno fosse diverso da quello ebraico – meno organizzato ed efficace dal punto di vista industriale e molto più limitato in termini di scala – nonostante queste differenze significative, il popolo armeno ha subito una vera e propria forma di genocidio. Molti storici e più di 30 Stati hanno riconosciuto il genocidio di questo popolo, in cui furono annientate da un milione a un milione e mezzo di persone. Con nostra grande vergogna, tra tutte le nazioni, Israele si è astenuto dal riconoscerlo e, nel chiaro conflitto tra morale e interessi, sono stati gli interessi a prevalere.Questioni che vanno oltre la politicaIn passato, il Ministero dell’Istruzione ha accantonato un programma di studi che prevedeva l’insegnamento del genocidio armeno. La TV israeliana si è astenuta dal trasmettere il film documentario di Theodore Bogosian, An Armenian Journey, che trattava di questo genocidio. In un’altra occasione, è stato censurato un testo ritenuto troppo diretto che Noemie Nalbandian aveva preparato per essere letto durante la cerimonia annuale di accensione della fiaccola del Giorno dell’Indipendenza sul Monte Herzl, in quanto menzionava l’olocausto armeno.

Quando Shimon Peres era ministro degli Esteri israeliano, si rivolse all’Anti-Defamation League, implorando l’organizzazione di attenuare la sua risoluzione che stabiliva categoricamente che il massacro degli armeni era un genocidio.

Quando la Turchia ha annullato una serie di contratti di armamento con la Francia, dopo che i francesi avevano riconosciuto il genocidio armeno, è stato Israele, in modo piuttosto imbarazzante, a ricevere questi contratti, poiché Gerusalemme aveva deciso di evitare qualsiasi riconoscimento della condizione degli armeni.

Le continue contorsioni politiche di Israele di fronte al genocidio del popolo armeno, anche ora che l’amministrazione erede degli autori di quell’atto orribile si schiera con il peggiore dei nostri nemici, dovrebbero indurre a una conversazione, per quanto breve, con Yair Tsaban, originariamente membro del Mapam (Partito unito dei lavoratori) di sinistra e uno dei fondatori del Kibbutz Tzora. Tsaban, che per molti anni è stato in prima linea nella lotta per il riconoscimento israeliano del genocidio armeno, è stato il primo ministro di un governo israeliano a “ribellarsi” alla politica ufficiale e già 28 anni fa ha partecipato alle cerimonie per la Giornata della Memoria della comunità armena in Israele. Ancora oggi, alla veneranda età di 93 anni, Tsaban è inorridito dall’uso della parola “interessi” in relazione al mancato riconoscimento ufficiale del genocidio armeno da parte di Israele. La rivendicazione degli “interessi””, ricorda, “ha accompagnato il popolo ebraico durante le ore più buie dell’era nazista, quando gli ebrei hanno chiesto disperatamente aiuto, ma le nazioni del mondo ci hanno spiegato che a causa di vari “interessi” – non è possibile rispondere alle loro grida di aiuto”. “Come può Israele continuare a guardare negli occhi i Giusti tra le Nazioni e i loro discendenti – dato che anche loro avevano letteralmente ‘interessi esistenziali’ nel non nascondere gli ebrei o nel salvarli, ma hanno preferito vivere secondo i dettami della loro coscienza piuttosto che secondo i loro interessi esistenziali?”, chiede Tsaban.

“Come popolo che ha subito il peggiore di tutti i genocidi – non abbiamo né dovremmo fare eccezioni quando si tratta del genocidio di un altro popolo. Al contrario – abbiamo l’obbligo morale di adottare un approccio molto più rigoroso e meno tollerante nei confronti dei casi di genocidio subiti da altri”. Tsaban ribadisce le parole di uno dei più famosi poeti israeliani, Nathan Alterman, che in una delle sue poesie ha invitato i “Campioni del sano realismo” a smettere di “adorare gli idoli chiamati interessi”. “Ci sono questioni che vanno al di là della politica e della diplomazia”, ha detto Benjamin Netanyahu nel 1989, all’epoca in carica come vice ministro degli Esteri, e ha sottolineato: “I genocidi sono un chiaro caso di questa particolare categoria”. Non è ancora troppo tardi.

Fonte

Vai al sito

Artsakh – Sparito dalle cartine geografiche ma Baku non si ferma (Assadakah 16.01.24)

Letizia Leonardi – Il 2024 ha cancellato l’autoproclamata Repubblica d’Artsakh dalla geografia mondiale. La piccola enclave, ancestralmente abitata e governata da armeni, ora è proprietà dell’Azerbaijan. Baku se l’è presa nella totale indifferenza del mondo. E grazie a tutto questo silenzio il presidente azero Aliyev non intende fermarsi. Adesso passa al territorio sovrano della Repubblica d’Armenia. A fine gennaio si svolgerà infatti un incontro per definire la delimitazione del confine armeno-azero. Il dittatore di Baku, pur affermando di non avere rivendicazioni territoriali nei confronti del territorio armeno, ha tuttavia dichiarato che Yerevan, il Lago Sevan e la provincia di Syunik sono “storicamente” territori azeri.

Aliyev ha inoltre affermato che l’Azerbaijan rifiuterà di riconoscere l’integrità territoriale dell’Armenia a meno che Yerevan non firmi un accordo di pace bilaterale in linea con le proposte di Baku. I soliti ricatti che non fanno ben sperare sul raggiungimento di un accordo di pace definitivo. L’Azerbaijan usa i periodi di pausa, tra un conflitto e l’altro, per organizzarsi e ricominciare con nuovi attacchi. D’altra parte le richieste di armi da parte di Baku continuano incessantemente, anche dirette all’Italia. A tal proposito l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma ha rifiutato una donazione in beneficenza da parte di Leonardo, ex Finmeccanica, azienda fornitrice di velivoli da guerra all’Azerbaijan. Un milione e mezzo di euro, che doveva essere destinato all’acquisto di macchinari per curare malattie rare. L’ospedale, di proprietà del Vaticano, ha accolto evidentemente il pensiero del Pontefice che si è sempre detto contrario ai conflitti e all’uso delle armi per risolvere le controversie.

L’idea dell’Azerbaijan di rivendicare il possesso di territori perché storicamente appartenenti agli azeri cozza con la realtà: degli azeri infatti non c’è traccia negli antichi testi, che invece parlano di possedimenti armeni, supportati da antichissimi siti e patrimonio storico-artistico che testimonia l’ancestrale presenza armena che Baku tenta sistematicamente di vandalizzare e distruggere, ovunque arrivi.

E intanto non inizia bene quella convivenza pacifica che Aliyev aveva assicurato agli armeni dell’Artsakh che avrebbero deciso di restare nelle proprie case. Il tribunale di Baku ha infatti respinto l’appello di Vagif Khachatryan, un residente armeno del Nagorno Karabakh, rapito dagli azeri ad agosto e poi condannato a 15 anni di prigione con accuse inventate.

Vai al sito